ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

martedì 7 maggio 2013

Lo chiamavano belzebù



Giulio Andreotti e il Vaticano. Più che una lunga amicizia, un feeling strutturale. “Per anni ha vissuto come fosse un segretario di Stato Vaticano permanente”, disse di lui Francesco Cossiga, volendo significare che tutto si può dire di Andreotti ma non che si muovesse senza cercare sempre e costantemente il confronto con il Vaticano, la Chiesa, i suoi governanti. Non solo, negli anni della grande Ostpolitik verso i regimi del blocco comunista, Andreotti faceva sul fronte laico ciò che i cardinali Casaroli e Silvestrini facevano sul fronte ecclesiale.

“Andreotti ascoltava la Santa Sede e la Santa Sede ascoltava lui”, disse in occasione dei suoi novant’anni il cardinale Ersilio Tonini, che raccontò delle tante amicizie che Andreotti poteva vantare oltre il Tevere. “Il suo più grande amico in Vaticano fu il cardinale Fiorenzo Angelini. Nacque a campo Marzio, nel cuore della vecchia Roma. Forse per questo Andreotti lo sentiva particolarmente amico”.
Già, la vecchia Roma. È qui che Andreotti tesse i primi rapporti coi monsignori d’oltre il Tevere. Impara a conoscerli, a stimarli, a capire che per lui, per il suo modo d’essere, la loro amicizia era importante. Conobbe il futuro Pio XII, allora monsignor Pacelli, in casa della sorella di quest’ultimo, Elisabetta sposata Rossignani. Disse Andreotti: “Abitavamo vicini in via dei Prefetti. Pacelli vi portava del cioccolato per le nipoti. E me lo offriva pure a me sul loro terrazzo. Per la verità, l’allora monsignor Eugenio mi diceva poco. Nella zona di via dei Prefetti ero molto più interessato ai giocatori della Roma che mangiavano da sora Emma”.
L’amicizia con Pacelli continuò per anni. Per lui Pacelli, al di là delle accuse di non aver fatto abbastanza per gli ebrei nel corso della seconda guerra mondiale, “era un sant’uomo”. Disse: “Metteva un po’ soggezione. Era ieratico. Trasmetteva austerità ma anche regalità. Era insieme sacerdote e sovrano. Non credo che amasse molto i preamboli nelle conversazioni. E poi voleva sempre risposte molto precise. Era un Papa innovatore, seppure attaccato alla tradizione. Per lui la tradizione era una forza a cui aggrapparsi. Insieme non amava le devianze. Una devianza che combatté con forza fu quella dei comunisti cattolici di Franco Rodano. Un giorno la polizia fascista arrestò Rodano perché anti-fascista. Poco tempo dopo Pio XII dovette fare un discorso rivolto agli operai. Gli scrissi: “Per favore, non parli di Rodano. È in prigione e la considererebbe una pugnalata alle spalle”. E, infatti, Pio XII, non ne parlò. Qualche giorno dopo andai col consiglio superiore della Fuci dal Papa. Mi guardò con occhi severi e mi chiese: “Andava bene il discorso?”".
Ricordi appesi al filo della memoria. Parole che dicono quanto stretto fosse, per Andreotti, il legame con il Vaticano. Ma più che con il Vaticano, coi Papi. Disse di lui ancora Tonini: “Assieme a Giorgio La Pira, Aldo Moro, Luigi Gedda e altri fu tra i primi a rispondere all’appello di Pio XII rivolto ai politici: “Fatevi valere”. E quella classe di nuovi dirigenti politici si fece davvero valere nell’immediato dopo guerra”.
Prima di Pacelli, Andreotti conobbe Pio XI. A dodici anni si trovò in un’udienza nell’aula concistoriale. Raccontò: “Quando lo vidi rimasi di stucco. Gridava e si mise pure a piangere. Ero atterrito tanto che svenni e finii dietro una tenda bianca. Piangeva perché tutti lo accusavano di aver sbagliato a fare il concordato con Mussolini tanto che, nonostante l’accordo, i circoli cattolici erano ancora perseguitati”.
Dopo Pacelli invece, Giovanni XXIII. I due s’incontrarono un giorno a Venezia. “Mi trattenne a colazione e mi disse: “Riposati un po’. Ti faccio fare la pennichella nel letto di Pio X”. E così fu”, raccontò ancora lo stesso Andreotti.
Montini, futuro Paolo VI, fu invece assistente alla Fuci, l’associazione dei giovani cattolici della quale Andreotti fu presidente. Con Montini, dunque, egli aveva una certa familiarità. Disse: “Ricordo un discorso al Campidoglio in cui disse che fu una provvidenza per la Chiesa la caduta dello Stato Pontificio: piovvero critiche inverosimili”.
Poi Giovanni Paolo I e Giovanni Paolo II. Il primo Andreotti non fece a tempo a conoscerlo. Wojtyla invece lo conobbe bene. Disse: “Quando compii ottant’anni mi chiamò. Pensai fosse lo scherzo di qualcuno e invece era lui. Mi disse: “Non dica ottanta ma dica che è entrato nel nono decennio di vita”".
Poi Joseph Ratzinger. Quando era cardinale andò al Senato, in quel momento presieduto da Marcello Pera. Andreotti ricordava sempre quel giorno: “Alla fine tutti dissero: “Abbiamo ascoltato il cardinale Pera e il presidente Ratzinger”. Fece, infatti, un discorso di alta politica”. Dopo l’elezione i due s’incontrarono e Ratzinger gli disse: “Lei non invecchia mai”.
E con Bergoglio. Un’amicizia “filtrata” da don Giacomo Tantardini. Andreotti per anni ha diretto 30Giorni, il mensile che Tantardini ispirava e sul quale Bergoglio è stato più volte intervistato. Ma il legame fu anche precedente l’esperienza di 30Giorni, riconducibile agli anni in cui Pio Laghi, amico di Casaroli e Silvestrini (e dunque indirettamente di Andreotti) era nunzio in Argentina.
Certo, non sempre i rapporti col Vaticano furono idilliaci. Nel 1978 fu Andreotti a firmare la legge sull’aborto. Disse in merito Tonini:”Non lo critico per questo. Credo non avesse altra scelta. E così molti hanno pensato in Vaticano. Abdicare come probabilmente avrebbe voluto fare, avrebbe voluto dire consegnare il paese non si sa a chi. Ne eravamo tutti consapevoli. E la cosa andava evitata. Fu un grande dolore consumato in anni difficilissimi. Ma quella firma non intaccò la stima vaticana nei suoi confronti”. E ancora: “Insomma, ha sempre saputo come muoversi oltre il Tevere. Diciamo che sapeva come tenere i rapporti senza compromettere nessuno. In tanti anni non ha mai compromesso nessuno della Santa Sede. Cosa non da poco e non da tutti. Non è stato con la Santa Sede un “furbetto”, uno che faceva i propri interessi alle spalle altrui. Tutt’altro. Consigliava e si lasciava consigliare”.


Filippo Ceccarelli per "la Repubblica"
GIULIO ANDREOTTI SULLA SEDIA A ROTELLE
Se n'è andato, come diceva lui, «all'altro mondo». Espressione molto romana, tra il vago e il reticente, attraversata com'è da un fremito di pudore. Ma per nessun altro uomo politico come per Andreotti il classico dilemma dell'aldilà, Inferno o Paradiso, inesorabilmente si proietta nella più stralunata e insieme appropriata dimensione - e non solo perché in vita fu detto «Belzebù».
ALDO MORO E GIULIO ANDREOTTI
A chiamarlo come il capo dei diavoli fu Bettino Craxi, che pure non era uno stinco di santo. Erano i primissimi anni 80 e c'entrava la P2, per cui Gelli sarebbe stato solo «Belfagor», un demonio minore. Ma troppe altre sulfuree leggende aleggiavano già da allora su un personaggio che pareva alimentare la sua stessa leggenda nera: golpe cavalcati o sventati, spioni come Giannettini contraddetti e tuttavia protetti, grotteschi palazzinari in vena di regalie («A Fra', che te serve?»), bancarottieri in odore di mafia alla Sindona aiutati oltre ogni ragionevole prudenza; «manca solo - diceva lui - che mi accusino di aver innescato le guerre puniche».
SEGGIO DA SENATORE A VITA DI ANDREOTTI LIMPRONTA LASCIATA DALLA GOBBA LAURA BETTI E GIULIO ANDREOTTI
E però, ora che se n'è andato, non s'immaginano quanti tesori di arguzia, quante sontuose allusioni abbia speso Andreotti per ingannare ed esorcizzare la morte. Da cui peraltro era attratto. Forse perché bambino accompagnava un parroco a impartire l'estrema unzione ai moribondi. Forse perché la paura della morte era anche per lui la molla segreta che l'aveva spinto in quel gioco selvaggio che è il potere.
Al centro di Roma, oltretutto, dove lui è nato e cresciuto, non c'è chiesa barocca che non mostri qualche teschio e ossa scolpite nel marmo lucido, ma anche autentici reperti organici, su cui comunque riflettere riguardo alla provvisorietà delle cose terrene. Così frequentava funerali con serena rassegnazione e scolpiva sapidi necrologi su quanti via via scomparivano dal suo orizzonte con il pietoso e al tempo stesso fiero sollievo del sopravvissuto. Non di rado, di qualcuno che in vita era stato cattivo o malaugurante nei suoi confronti, faceva notare che nel frattempo quello se n'era andato all'altro mondo, mentre lui - specificava - era ancora lì.
GIULIO ANDREOTTI
Lì dove, precisamente, è difficile dire. Sulla terra, forse. O magari a Palazzo Chigi o in qualche altro luogo segnalato dal «tappeto rosso», piuttosto che dallo «zerbino », o pezza da piedi che fosse.
Sempre da bambino, anzi più precisamente da chierichetto, si narra che partecipasse alle processioni tenendo in mano un cero e anche per questo certi ragazzacci lo prendevano in giro. Taci un giorno, taci un altro, il piccolo Giulio mostrò una grande pazienza, poi al terzo si «scocciò» - altro suo tipico verbo - e spense il cero nell'occhio del discolo più a portata di mano.
andreotti giulio
Distingueva con qualche buonsenso tra morte lenta e morte secca, improvvisa, apoplettica. Quest'ultima a suo giudizio favoriva il lavoro degli storici e la sua personale curiosità. Una volta confessò che il massimo del piacere sarebbe stato «visitare» lo studio di un cardinale crepato di schianto, poche ore prima, in modo che il poveretto non avesse avuto il tempo di far sparire gli altarini o di infiocchettare gli indispensabili scheletri nell'armadio.
E tuttavia sapeva anche essere amabile, molto educato e cortese nella sua indubitabile freddezza; e sempre ricordava ogni cosa con prodigiosa memoria. Aveva una testa molto grande, ossuta e ricoperta di capelli che sulla nuca prendevano l'aspetto di piume d'uccello; ed era molto più alto di quel che si poteva pensare.
A proposito del suo pallore, a metà degli anni 70 ebbe un pubblico scambio con Pasolini; poi di nuovo il cereo incarnato andreottiano venne notato nel 1992 dal ministro della Giustizia Martelli la mattina dei funerali di Salvo Lima. In quel caso non ci furono repliche, quel volto livido e impietrito esprimeva meglio di qualsiasi altro segno l'arrivo del cataclisma: «Domani vedremo venire la valanga, la triste valanga degli uomini di Stato».
Pietro Nenni e diversi altri milioni di italiani lo chiamavano «il gobbo». Tale evocatissima gibbosità è da intendersi come l'emblema glorioso e beffardo di una classe politica che non aveva avuto il tempo, tantomeno la vanità di preoccuparsi delle proprie storture estetiche, e anzi da esse traeva potenza e virtù. Il calco della celebre gobba è oggi visibile, in formato debitamente fetish, sullo scranno occupato da Andreotti a Palazzo Madama, come pure documentato dalla impressionante foto che compare nell'ultimissima edizione della fortunata biografia di Massimo Franco (Mondadori, 2008).
Soffriva di emicrania e in proposito - i casi della vita e della morte! - si scambiò ricette con Mino Pecorelli, che poi le procure accusarono di aver fatto ammazzare. Per via del memoriale Moro, che il generale Dalla Chiesa avrebbe recuperato anzitempo e che di Andreotti conteneva, come poi si potè leggere, un terribile ritratto.
Giulio Andreotti - Copyright Pizzi
Ragion di Stato e frivolezze d'altri tempi si mischiano oggi in un ricordo da cui risulta molto difficile separare il chiaro e lo scuro. Faceva collezione di campanelli. Si dichiarò alla futura moglie, donna Livia, detta «la Marescialla», durante una visita al cimitero. Qualche volta giocava a gin-rummy. In una rara occasione mondana una signora esuberante lo prese sottobraccio per condurlo su una pista da ballo: «Non ho mai ballato con un presidente del Consiglio», gli disse, «Neppure io» rispose lui gelido, e tenendo fermi occhi e busto, ma lavorando di piedi e gambe, prese ad allontanarsi dalla svenevole scocciatrice.
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Erede di De Gasperi, capocorrente di Lima, Sbardella, Ciarrapico, protettore dei ciellini, forse autore (con lo pseudonimo di Giulio Romanotti) di un volume di archeologiche intercettazioni telefoniche. Però marito quasi perfetto, padre un po' assente, nonno tenerissimo: «Non ama le vacanze, non ama il mare, non ama le passeggiate, non ama prendere il sole» ha raccontato la figlia Serena: «La verità è che se non fa politica si annoia».
Ha sempre dormito pochissimo. Scriveva con un pennarello a punta sottile, grafia ordinata, ma incomprensibile. Ha conservato quintali di documenti, oggi ordinati nel mitico archivio presso l'Istituto Sturzo. Andava a messa molto presto e i poveri, che avevano
imparato le sue abitudini, si aspettavano all'uscita una divertita distribuzione di banconote sul sagrato. Nel vecchio ufficio di piazza Montecitorio, dietro una tendina, c'era una specie di dispensa con generi alimentari per i più indigenti fra i suoi clientes.
«A studio», come lo definiva, Andreotti riceveva gli amici nella stanza da bagno mentre si faceva fare la barba dal barbiere pensionato della Camera; e in tempi non ancora segnati da riemersioni di regalità accoglieva il suo amico e vegliardo giornalista Frattarelli: «Emilio, siediti sul trono!» e con il lungo, sottilissimo dito indicava il bidèt.
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Sublime leader anti-retorico, come mai l'Italia ne ha avuti. Al suo talento giornalistico si devono alcune straordinarie sintesi rimaste nella memoria collettiva riciclando immagini di vita quotidiana, «il sassolino nelle scarpe», non rimarrò «in panchina», mi riprendo «i voti in frigorifero », «vado in Cina con Craxi e i suoi cari». Andreotti pronunciava tali freddure a denti stretti, talvolta accompagnandole con una specie di mormorio che gli faceva eco, «
ehm-ehm», oppure il triplice «‘nsomm‘nsommm-‘nsomm".
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La gente rideva perché Andreotti è sempre stato considerato un uomo spiritoso e un battutista deluxe. In realtà il suo umorismo pare qualcosa di più complesso, per nulla affatto spensierato, come del resto la sua vita e la sua stessa memoria.
Altre due famose sentenze vale qui la pena di menzionare.
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Quella, pare di provenienza curiale, che dice che a pensar male si fa peccato, ma ci si azzecca sempre; e l'altra, pure esportata alla Commedie francaise e ne Il Padrino numero 3 (dove viene pronunciata dall'assassino durante uno strangolamento), secondo cui «il potere logora chi non ce l'ha». Non si discute qui della sostanziale veridicità di tali massime, ma dello slittamento che mettono in luce e che spesso ha portato fatalmente Andreotti a traslocare dal più celeste scetticismo a un nero, ansiogeno e mefitico cinismo. Peraltro da lui duramente pagato.
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Vedi, al di là del bacio a Totò Riina, l'insieme delle carte dei Pm di Palermo e Perugia, e vedi anche le assoluzioni a metà. Imputato modello, ha fatto in tempo a riconquistare, se non l'innocenza, almeno la rispettabilità. Nel frattempo ha adottato dei profughi albanesi. Ha lasciato che alle elezioni si presentassero dei suoi omonimi. Una volta ha votato per Pippo Franco (e per Giulia Buongiorno).
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Ha recitato con Alberto Sordi e girato diversi spot, uno anche con Valeria Marini, e in un impressionante poster con un dito nel gorgonzola. Ha benedetto tre generazioni di imitatori e vignettisti. Ha raccontato il suo intenso rapporto con il cinema in una interminabile serie di sedute con Tatti Sanguineti, ingiustamente neglette dalle tv del duopolio. E' qui che ha espresso tutta la sua avversione per un sistema mediatico inoltratosi ormai nella «endovaginoscopia» o nella «monta taurina» del Grande Fratello.
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Una sua considerazione, di cui si trova un frammento su YouTube, celebra il senso della sua più che mutevole linea politica: «Che poi, quando uno si volta, quello che c'è a destra diventa di sinistra». Su Andreotti, colto all'apice della sua storia, fine anni 80, Gaio Fratini ha scritto uno splendido epigramma che si conclude con un monito, pure a futura memoria: «Biografi, per lui il potere è un gioco/ di prestigio che muta i dissidenti/ in truci adulatori impenitenti,/ e il gelo russo in libico fuoco ».
Tra Breznev e Gheddafi, secondo Pannella, è stato comunque «il miglior ministro degli Esteri». Per Rino Formica, e un po' anche per Cossiga, un capo di governo vaticano prestato all'Italia. De Chirico l'ha ritratto in giacca da camera; Guttuso vestito da cardinale. D'altra parte anche Talleyrand era un ecclesiastico: non gobbo, ma zoppo; e anche la nonna accoglieva i moribondi e gli dava l'estremo saluto.
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In uno dei più profondi libri sul potere, "La rovina di Cash" (Adelfi, 1983) Roberto Calasso traccia un ritratto del politico francese che, riletto oggi, evoca inconfondibili archetipi andreottiani: «Non aveva idee, tanto meno opinioni, ma un oscuro torbido residuo di quella sapienza che soltanto "accenna"». Come pure: «Aiutava il caos a prendere una forma passabile». Per chi, «passabile », e soprattutto a quale prezzo, è ancora troppo presto per dire con compiuta onestà.
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Ora che se n'è andato «all'altro mondo», si porta dietro il Passato. Ma così come accadde per Talleyrand, Andreotti diventa «qualcosa di ancor più misterioso e imponente; una pietra abbandonata in un campo, incisa da una mano ignota, secondo regole ignote. Questi sopravvissuti, sottratti a ogni discendenza, hanno fisionomie che spiccano solitarie: la loro inutilità è maestosa, la sapienza che forse non hanno e che certamente non vogliono trasmettere ci guarda in silenzio come ogni ricordo che accetta di distruggersi».

La vita del “Divo Giulio” è legata a doppio filo con quella del Vaticano

Andreotti e quella Curia romana che scompare con lui

Francesco Peloso
Da Oltretevere si sceglie di dare una valutazione storica più che sottolineare gli antichi legami
Giulio Andreotti e Papa Giovanni Paolo II
«Giulio Andreotti è stato per molti il simbolo stesso della cosiddetta prima Repubblica, quale si formò e andò sviluppandosi a partire dalla ricostruzione postbellica. Uomo eminentemente pragmatico, con una intelligenza e un’ironia riconosciute dai suoi sostenitori così come dagli avversari, Andreotti seppe attraversare con apparente leggerezza i grandi eventi della politica e della storia, le drammatiche stagioni del Paese e le sue personali vicende, le seconde spesso collegate alle prime da complesse relazioni».
Così l’Osservatore romano ha ricordato Giulio Andreotti a poche ore dalla diffusione della notizia della scomparsa. Un servizio non troppo lungo, senza molta enfasi, con un titolo che più distaccato non si può: «È morto Giulio Andreotti». Il giornale della Santa Sede proseguiva mettendo in luce la «riconosciuta capacità di mediazione nei confronti di ogni tipo di interlocutore» quindi la «grande considerazione per il rispetto delle istituzioni» del senatore a vita, «come dimostrò quando, fatto oggetto di inchieste giudiziarie, espresse piena fiducia nella magistratura, che pure lo aveva condotto a processo con le gravi accuse di collusione con la mafia». Insomma una storia finisce e oggi Oltretevere si sceglie di dare una valutazione storica del personaggio più che sottolineare gli antichi e forti legami. Sulla stessa linea si muoveva del resto il telegramma del Segretario di Stato Tarcisio Bertone indirizzato alla moglie Livia nel quale si leggeva:
«Esprimo a lei ed ai familiari sentita partecipazione al grave lutto per la perdita di così autorevole protagonista della vita politica italiana, valido servitore delle istituzioni, uomo di fede e figlio devoto della Chiesa».
Del resto se la vicenda personale Andreotti è legata a doppio filo con quella del Vaticano, è anche vero che molti dei protagonisti ecclesiali cui il leader democristiano era particolarmente legato, sono oggi sul viale del tramonto. Come il cardinale Fiorenzo Angelini, legato al mondo della sanità; fu presidente del Pontificio consiglio per la pastorale degli operatori sanitari e restò in carica 11 anni, dal 1985 al 1996; sodale di Andreotti, il cardinale è nato nel 1916. Un altro porporato che intrattenne una forte relazione con l’ex senatore a vita è Achille Silvestrini, classe 1926; Silvestrini lavorò a lungo in Segreteria di Stato e fu capo delegazione della commissione vaticana che negoziò con il governo italiano la revisione dei patti lateranensi per approdare al concordato del 1984. Andreotti svolse in quel frangente un ruolo decisivo affinché le due sponde del Tevere trovassero un nuovo accordo aggiornato ai tempi e quindi alle mutate condizioni del Paese.
Di certo la storia di Andreotti, e il suo destino politico in modo specifico, sono legati alle indicazioni provenienti dal Vaticano. Agli inizi degli anni ’40, infatti, Andreotti conosce Alcide de Gasperi nella biblioteca vaticana, dove quest’ultimo lavorava per evitare le persecuzioni fasciste, e fu Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI, a suggerire a De Gasperi di dare spazio al giovane Andreotti. Questi per un periodo sostituirà Moro alla guida della Fuci, l’associazione dei giovani universitari cattolici, poi iniziò l’impegno nei governi guidati da De Gasperi. È l’avvio di una carriera folgorante che farà di Giulio Andreotti un personaggio chiave, riferimento del potere in Italia in tutte le sue variabili e versioni.
Andreotti è dunque uomo legato a doppio filo con la Roma papale e curiale, conosce le alte gerarchie formatesi nel dopoguerra, quelle che vissero il Concilio, poi il pontificato difficile di Paolo VI e quello di Giovanni Paolo II. Quando nella prima metà degli anni ’90, Andreotti si trovava sotto inchiesta a Perugia per l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli e a Palermo per aver avuto rapporti con Cosa Nostra, dal Vaticano gli arrivò un segno tangibile di solidarietà. Invitato a un convegno organizzato dal cardinale Angelini al quale prendeva parte il Papa nel novembre del 1995 nell’Aula Paolo VI, il già anziano leader democristiano fu accolto dagli applausi di una platea mista di laici, sacerdoti, vescovi e cardinali. Un applauso che fece scalpore e scandalo.
La Chiesa, la Curia, quella che va da Pio XII a Wojtyla e poi anche a Benedetto XVI, lo amava. Ratzinger, del resto, a lungo prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, ebbe modo di seguire le vicissitudini italiane negli anni ’80 e ’90 e di conoscere Andreotti già da cardinale. In un intervento su Repubblica risalente al 1993 don Gianni Baget Bozzo, il sacerdote genovese oggi scomparso, vicino a Craxi e sospeso a divinis dal Vaticano, chiedeva che il Senato si i pronunciasse contro l’immunità parlamentare per Andreotti permettendo così ai giudici di Palermo di indagare sui suoi rapporti con la mafia. In quel frangente Baget Bozzo descriveva, con una certa acutezza, i rapporti del leader democristiano con i sacri palazzi:
«Andreotti ha visto tutti i papi da vicino, ma è stato ben lontano dall’associarsi al loro personale modo di gestire il papato. Andreotti non è stato più amico di Pio XII che di Giovanni XXIII e di Paolo VI o di Giovanni Paolo II. Il suo punto di riferimento è il Vaticano che non passa, la Curia romana. Debolissima con Pio XII, papa romano incerta con un papa conciliare, Paolo VI, essa è fortissima con un papa polacco. Il potere temporale serve per spiegare le radici del potere di Andreotti, ma non la sua forma attuale. Alla burocrazia vaticana, egli ha assommato altre burocrazie, interne alla Repubblica: magistrati, diplomatici, militari, uomini dell’industria pubblica. Il potere temporale ha impresso mediante lui la sua forma allo Stato italiano». 
A sua volta Francesco Cossiga in un’intervista al Corsera di qualche anno fa, spiegava così la predilezione di Montini per Andreotti:
«Montini, di famiglia alto-borghese e cattolico liberale, era molto diverso da Andreotti, romano de Roma di origine frosinate e cattolico papalino. Proprio per questo, Montini ritenne di contemperare lo spirito mitteleuropeo di De Gasperi con quello pratico di Andreotti. E fece bene: mai visto un uomo con tali capacità di governo. Crocianamente, per lui come per la Chiesa l’unica moralità della politica consiste nel saperla fare».
Molti giudizi, molte voci. Come quella oggi un po’ più distaccata e algida di padre Michele Simone, gesuita, vicedirettore e notista politico della Civiltà cattolica, che alla Radio Vaticana ha osservato:
«Andreotti indubbiamente fa parte della storia della Repubblica. Ritengo che, nonostante tutte le cose negative che gli sono state attribuite, non tutte poi provenissero da lui. Penso che la storia darà un giudizio tutto sommato positivo».
In merito poi al ruolo di Andreotti come personalità chiave della Dc e dell’Italia del dopoguerra, il religioso spiegava:
«Andreotti fa parte della storia della Repubblica e della storia della Democrazia Cristiana. Era un personaggio capace di conoscere veramente che cosa avveniva nel Paese, e quindi di addirizzare il timone della Democrazia Cristiana per darne un’interpretazione positiva. Non ha partecipato a particolari trame negative all’interno della Dc. Non si può dimenticare poi il suo apporto al compromesso storico e ciò che è accaduto in quell’epoca».
Se dunque oggi Andreotti è ricordato quasi sotto traccia dal Vaticano, non è forse per scarsa riconoscenza ma perché con il “divo Giulio” sta scomparendo anche un modello di Chiesa, un mondo papalino, oggi in crisi e trasformazione.


Leggi il resto: http://www.linkiesta.it/giulio-andreotti-chiesa#ixzz2Sc69A4eO


Il “Cardinale esterno” che dava consigli ai Papi

 
Andreotti a colloquio con due cardinali
ANDREOTTI A COLLOQUIO CON DUE CARDINALI

Durante il fascismo suggerì a Pio XII di non parlare contro i cattolici comunisti

ANDREA TORNIELLIROMA
Non un politico cattolico, ma un «cardinale esterno». È l’illuminante definizione che lo storico Andrea Riccardi ha dato di Giulio Andreotti: «è un cattolico romano, prima di essere un italiano. Ed è un politico che ha usato l’internazionale della Chiesa cattolica come una risorsa; e ne è stato usato». In effetti nel caso del romanissimo Divo Giulio, più che di un «amico» dei preti, si dovrebbe parlare di qualcuno che con il mondo ecclesiastico è vissuto in perfetta osmosi. Da bambino, cresceva in via dei Prefetti ascoltando i racconti della zia Mariannina, che aveva vissuto la presa di Roma del 1870 e gli raccontava di come «alcuni romani, che fino a quel giorno erano stati ostili al Papa, quando venne meno il potere temporale ne divennero apertamente nostalgici». È ancora un bambino, quando riesce a intrufolarsi nei sacri palazzi e mischiandosi a un gruppo di pellegrini in udienza si ritrova a tu per tu con Pio XI.

Andreotti si forma nella Fuci legatissima a Giovanni Battista Montini. Ha una concezione della politica lontana dalle utopie e nel 1942 scrive su «Azione Fucina»: «Accanto a un socialismo ateo c’è, senza dubbio, anche un ateismo – non meno accentuato – del capitalismo egoista, di fronte al quale la condanna è parimenti severa». Il primo Papa che frequenta assiduamente è Pacelli. Nella sua anticamera scrive quasi tutta la tesi di laurea: le attese erano lunghe perché Pio XII lo riceveva per ultimo, alla fine delle udienze, per potergli dedicare più tempo. Con l’austero e ieratico Pontefice il giovane politico ha un rapporto schietto e diretto, un esempio per molti colleghi devoti di ieri e di oggi, sempre pronti alle genuflessioni in cambio di una foto ricordo.

Nel 1943, il Divo Giulio manteneva i rapporti con «Sinistra cristiana» il gruppo di Adriano Ossicini e Franco Rodano, in quel momento incarcerati a Regina Coeli. L’anticomunista Pio XII non guardava certo con simpatia a questo movimento e aveva fatto organizzare una grande riunione di operai nel cortile del Belvedere, in Vaticano. Andreotti si preoccupa che il Papa, ribadendo in quella occasione la condanna verso i comunisti cattolici, possa aggravare la posizione dei politici prigionieri. «Allora mi permisi di far arrivare un appunto al Santo Padre, pregandolo, per piacere, di non parlare in quell’occasione dei comunisti cattolici. E così fu. Pio XII non ne parlò e qualche giorno dopo, durante un’udienza di universitari, mi domandò: “Andava bene?”, e me lo disse con uno sguardo così severo…».

Tra le libertà che Andeotti si sarebbe preso con Papa Pacelli, una volta diventato sottosegretario alla presidenza del Consiglio Nell’ottobre 1958, durante la sede vacante, incontra patriarca di Venezia Angelo Roncalli, che gli parla senza giri di parole. Andreotti esce dall’udienza con la certezza che il porporato, fiero delle sue origini bergamasche e contadine, sarà il successore di Papa Pacelli. Così manda un’unica fotografia per la copertina della rivista «Concretezza», chiusa in tipografia prima del conclave, ma pubblicata dopo l’elezione. E con Roncalli, c’azzecca. È sempre ad Andreotti, ricevuto in udienza con la famiglia, che il «Papa buono» confida l’intenzione di convocare il Concilio, tre giorni prima dell’annuncio ufficiale.

Con l’avvento di Paolo VI, nel 1963, diventa Papa colui che aveva formato la generazione di democristiani che governano l’Italia nel dopoguerra. Andreotti cerca di interpretare dagli scranni del governo l’«Ostpolitik» montiniana verso i Paesi della Cortina di ferro. Riceve sofferti biglietti autografi del Pontefice bresciano che si lamenta per la legge sul divorzio. È sempre lui a tenere i contatti con il Vaticano durante i giorni drammatici del sequestro Moro, ricevendo assiduamente la visita di don Pasquale Macchi, il segretario particolare di Montini. Molti anni dopo Andreotti confiderà che il Papa era pronto a pagare dieci miliardi per salvare la vita del presidente della Dc: «Il tramite con cui cercavano di arrivare ai brigatisti era un cappellano delle carceri. Era Paolo VI che si muoveva, io non frapposi alcuna difficoltà».

Nel 1978, al momento dell’elezione del «giovane» cardinale Wojtyla, Giulio racconta di essere rimasto molto colpito. Per la prima volta il Papa eletto «aveva meno anni di me». Tantissime sono le occasioni di contatto e collaborazione, come pure i legami consolidati, ad esempio con monsignor Donato De Bonis, prelato dello Ior. L’inchiesta che lo vede coinvolto con l’accusa di mafia non gli fa venir meno il sostegno dei sacri palazzi. Rimane impresso nella memoria di tutti il gesto pubblico di stima e amicizia dimostrato da Giovanni Paolo II, che al termine della cerimonia di beatificazione di Padre Pio, nel 1998, in piazza San Pietro, saluta e incoraggia in mondovisione l’imputato Giulio Andreotti, in quel momento ancora nel pieno della bufera giudiziaria che lo aveva coinvolto e che lo vedrà successivamente assolto. Anche con Joseph Ratzinger ci sono stati rapporti e scambi epistolari. Dal 1993 fino al luglio 2012, Andreotti ha infatti diretto la rivista internazionale «30Giorni», dedicata alla Chiesa nel mondo, che ha più volte ospitato testi e anteprime del futuro Pontefice.

Quanto alla capacità «profetica», già dimostrata nel 1958, non si deve dimenticare che nel 2000 Andreotti scrisse un libricino fuori commercio regalato agli amici. Un racconto intitolato «1° gennaio 2015», nel quale indovinava il nome del futuro Papa – Benedetto XVI – e si sbilanciava su alcune caratteristiche del nuovo pontificato con cinque anni d’anticipo: «Il latino tornerà ad essere lingua veicolare della chiesa». E non va nemmeno dimenticato che proprio durante gli anni bui dei processi, aveva scritto un altro piccolo libro, «I Quattro del Gesù», prendendo le difese della corrente modernista che all’inizio del secolo scorso era stata condannata. «Cardinale esterno» sì, ma senza alcuna nostalgia per l’Inquisizione.

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