ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

martedì 18 giugno 2013

La religione del nuovo ordine mondiale

Il Dio Progresso causa il disincanto del mondo e sostituisce gli scopi ai valori


Ciò che contraddistingue la civiltà moderna non è la Rivoluzione scientifica o quella industriale, non sono le nuove frontiere della genetica né l’uso massiccio della tecnologia, ma l’idea di Progresso elevata al rango di una nuova religione; tutto il resto non è che manifestazione particolare di questo punto essenziale.

Ora, una religione del Progresso, per diventare una religione capace di sostituire la vecchia – o, almeno, per tentare di farlo – deve basarsi non sull’idea di un progresso storico, ma di un Progresso metafisico, cioè illimitato e assoluto: tale che nessuna sua manifestazione storica possa esaurirlo o rivelarlo completamente.
Ebbene, le conseguenze fondamentali di un simile culto sono due: il disincanto del mondo e la sostituzione degli scopi ai valori.
Il disincanto del mondo sopraggiunge di fronte all’avanzata irrefrenabile di una scienza e di una tecnica che, per definizione, non si pongono alcun limite, e dunque sempre più allontanano l’uomo dalla natura: e quanto più lo allontanano da essa, tanto più perseguono efficacemente i propri obiettivi. Ma dove l’uomo si affida a un progresso che si discosta in misura esponenziale dalla natura, là egli si allontana in misura esponenziale anche dalla tradizione, dal proprio passato e, in ultima analisi, da se stesso, dalle sue istanze più vere e profonde: diventa un esule in patria, un prigioniero di se stesso, una coscienza infelice che non troverà mai la pace.
La sostituzione degli scopi, ossia degli obiettivi contingenti, ai valori è l’inevitabile effetto dell’aver fatto coincidere il progresso materiale, anzi il progresso scientifico e tecnico, con il progresso in quanto tale, evidentemente a discapito della sfera spirituale, la quale viene ad essere svuotata di contenuti e abbandonata come un guscio vuoto, come un inutile retaggio del passato. Se tutto quel che conta è realizzare il massimo del progresso tecno-scientifico, allora bisogna mettere a punto strategie che garantiscano il massimo risultato con il minimo dispendio di mezzi; e non avrà più senso porsi la domanda su quali azioni si debbano perseguire e perché, dal momento che tutto questo non riguarda i mezzi ma i valori, e i valori esulano dal quadro della razionalità strumentale.
Paradossalmente, non ne consegue neppure che il massimo della razionalità tecnica corrisponda al massimo della razionalità in assoluto: perché un mondo privato dei valori è privato anche di senso, e può accadere che il massimo della razionalità strumentale sia messa al servizio di un sistema che, nel suo complesso, non è solamente folle, ma anche altamente dispendioso e irrazionale. In altre parole succede che ci si accontenta della razionalità dei mezzi, non dei fini, perché i fini dipendono dai valori e quindi non hanno diritto di cittadinanza nella prospettiva del Progresso, laddove il fine è sempre uno ed uno solo: alimentare incessantemente la macchina del Progresso.
Per fare un esempio: noi sappiamo che continuare a produrre milioni di autoveicoli con il motore a  scoppio non solo è sbagliato quanto alla dimensione ecologica, ma è anche irrazionale quanto alla dimensione tecnica ed economica, perché esiste, potenzialmente, una tecnologia alternativa, meno inquinante e meno dispendiosa, che potrebbe sostituire quella basata sul motore a scoppio e sull’impiego di idrocarburi (questi ultimi in via d’esaurimento). Ma nella religione del Progress non importa se la tecnica esprime una razionalità complessiva, è sufficiente che esista una razionalità parziale, quella, appunto, dei mezzi e degli scopi: senza contare che esistono delle forze d’inerzia potentissime (commiste agli interessi economici dei gruppi di potere interessati) che tengono in vita anche una tecnologia obsoleta, a dispetto di ogni considerazione di buon senso.
Questo è il circolo vizioso in cui si dibatte la civiltà moderna: a forza di costruire macchine, ne è divenuta schiava; ma la sua schiavitù incomincia assai prima dell’era delle macchine: incomincia dal momento in cui essa ha partorito l’idea, mostruosa e aberrante, di un Progresso illimitato da adorare come una nuova divinità e da servire ciecamente.
Aggiungiamo che la religione del Progresso, in se stessa, non può portare la pace agli uomini, perché una religione sorge per dare un senso alla vita umana; ma la vita umana può acquistare un senso unicamente a condizione che ne acquisti uno la morte: se la morte resta un evento insensato, anche la vita è condannata allo stesso destino. Ora, la morte acquista un senso nella misura in cui viene accettata come un evento definitivo e irreversibile sul piano del finito, ma non su quello dell’assoluto: e così avviene, di fatto, per tutte le religioni umane (con la parziale eccezione del buddismo, del taoismo e del confucianesimo, che però sono da considerarsi, da questo punto di vista, più delle filosofie che delle religioni).
Ma una religione del Progresso non può ammettere la naturalezza e l’irrevocabilità della morte: non può ammetterne la naturalezza, perché la sua vocazione è la lotta perpetua contro la natura, vista come un nemico da sconfiggere e soggiogare; e non può ammetterne l’irrevocabilità, perché questo metterebbe fine alla marcia del progresso, almeno per il singolo individuo. Certo, colui che deve morire può sempre provare a consolarsi pensando che il progresso continuerà dopo di lui; magra consolazione: a che cosa serve un progresso che porterà del bene agli altri, che allungherà loro la vita, che curerà con successo le loro malattie, se io, frattanto, sarò morto per sempre? L’idea di Progresso illimitato porta con sé la speranza che la morte, prima o poi, verrà sconfitta: perché il progresso non può fermarsi mai, dunque nemmeno l’uomo che lo serve e lo fa avanzare; magari facendosi conservare in frigorifero, il fedele della nuova religione vuole poter pensare che il Progresso, un giorno, lo salverà, vale a dire che lo riscatterà dalla morte.
Questa è la differenza essenziale fra una religione “vera” e quel suo surrogato moderno che è la religione del Progresso: la prima offre la fede nella redenzione spirituale e nella sopravvivenza dell’anima (il cristianesimo, anche nella resurrezione dei corpi; ma, beninteso, corpi trasfigurati e non materiali); la seconda non può offrire che la speranza nella sconfitta della morte e nella sopravvivenza fisica. Che si tratti di una speranza assurda, è un altro paio di maniche; sta di fatto che i seguaci di questa nuova religione, perfino i più tiepidi, la coltivano in un angolo della loro coscienza; al tempo stesso, però, ne avvertono o ne intuiscono l’incongruenza, e ciò li mette in uno stato di ansia e di nevrosi continua.
Il seguace della religione del Progresso è vittima di una depressione permanente: sa che dovrà morire, ma non riesce ad accettarlo; e non riesce ad accettarlo perché il suo nuovo Dio gli ha promesso, o gli ha lasciato intendere, che la morte non è un destino ineluttabile e irreversibile: che lo è solo per gli altri, per gli infedeli, per quanti non si sono ancora convertiti e restano aggrappati alle vecchie, sorpassate credenze. Così, da un lato il seguace della religione del Progresso si sente più evoluto dei seguaci delle vecchie religioni, ai quali guarda con una sorta di compatimento (non sempre benevolo); dall’altro, egli è angustiato dalla paura della propria morte, che nessuna scienza e nessuna tecnica, per quanto sofisticate, sembrano capaci di esorcizzare.
C’è poi un’altra contraddizione, che rende precaria e psicologicamente fragile la posizione dei seguaci della nuova religione: il fatto che il Progresso illimitato, celebrando perennemente se stesso, rende obsoleta ogni cosa, compresa la scienza e la tecnica, e costringe tutti, compresi i tecnici e gli scienziati, a rincorrere nuovi comportamenti e nuovi modi di agire e di pensare, facendoli sempre sentire un po’ indietro rispetto al punto in cui dovrebbero essere. Un artista, un poeta, uno scrittore non vivono questa condizione psicologica: non si sentono mai “sorpassati”, se non, tutt’al più, rispetto a certe mode culturali che lasciano il tempo che trovano. Lo scienziato, invece, sa che nel giro di pochi anni, forse di pochi giorni, tutte le sue ricerche non avranno più che un valore archeologico e che anch’egli dovrà mettersi al passo con le nuove acquisizioni.
Per l’uomo comune vale lo stesso principio: egli è il recipiente passivo di incessanti, velocissimi cambiamenti, che lo costringono a modificare continuamente il proprio modo di agire, di pensare e perfino di sentire; ogni anno, ogni giorno deve mettere in discussione quello che sa, prendere atto della propria ignoranza, adattarsi a nuovi ritmi e imparare nuove procedure: perfino per pagare una bolletta dell’energia elettrica, per ricevere gli esiti di un esame clinico o per iscrivere suo figlio alla scuola elementare.
L’uomo contemporaneo, dunque, é sempre in fuga da se stesso, perché sempre impegnato ad inseguire il Progresso: se rimane indietro perde il diritto di cittadinanza, diviene un paria, un disadattato, un reprobo; ma per tenere il passo deve fare sempre più fatica, spendere sempre più energie, logorare sempre di più il suo sistema nervoso.  Come se non bastasse, deve sorbirsi l’eterno ritornello che ogni cambiamento è fatto nel suo interesse, che le nuove tecniche e le nuove procedure sono al suo servizio e hanno il solo ed unico scopo di semplificargli la vita, di fargli guadagnare tempo e risparmiare denaro: ritornello alquanto irritante, perché egli vede benissimo che le cose stanno altrimenti e che ad ogni supposta semplificazione corrisponde una ulteriore complicazione, dovuta a una serie di effetti collaterali non preventivati.
Molti di questi meccanismi erano stati visti con lucidità e descritti con acume, quasi un secolo fa, da Max Weber; il filosofo tedesco ne aveva parlato specialmente in una celebre conferenza, tenuta nel 1917, sul tema: «La scienza come professione» («Wissenschaft als Beruf»); egli, peraltro, non dava un giudizio interamente negativo né sul disincanto del mondo, né sulla sostituzione degli scopi ai valori, perché pensava che la “nuova religione” – anche se lui non la chiamava così, ma parlava, semmai, di nuovo “ethos” – aveva comunque molto da offrire ai suoi seguaci, purché questi fossero capaci di viverla con reale consapevolezza. Weber, inoltre, partiva da una posizione molto critica nei confronti del cristianesimo; e questo, si direbbe, lo induceva a guardare con favore qualunque nuovo “ethos” si proponesse di sostituirlo; ciò traspare soprattutto dal seguente passio (op. cit., traduzione dal tedesco di Paolo Volonté, Milano, Rusconi, 1997, p.  113):

«È esattamente come nel mondo antico non ancora liberato dall’incanto dei suoi dèi e dei suoi demoni, anche se ora con un senso nuovo: come i greci offrivano sacrifici chi ad Afrodite e chi ad Apollo, ma soprattutto ciascuno agli dèi della propria città, così avviene ancor oggi, solo disincantati e spogliati del rivestimento mitico ma intimamente vero di quel comportamento. Su questi dèi e sulla loro lotta domina il destino, e non certo la “scienza”. Tutto ciò che si può spiegare è CHE COSA costituisce il divino e l’uno e per l’altro, nell’uno e nell’altro ordinamento di valori. Ma con questo qualsiasi discussione del problema da parte di un professore in un’aula universitaria è già conclusa, mentre ben lungi dall’essere conclusa è ovviamente l’enorme problemaDI VITA che in essa si cela. Questo è però di competenza di altre forze, non delle cattedre universitarie. Quale uomo vorrà mai cimentarsi nella “confutazione scientifica” dell’etica espressa nel discorso della montagna, per esempio del principio di non opporsi al malvagio e di porgere l’altra guancia? Eppure è chiaro che un punto di vista puramente umano vi si predica un’etica della mancanza di dignità. Si deve scegliere tra la dignità religiosa offerta da quest’etica e la dignità virile che incita a fare l’opposto “combatti il male, altrimenti sarai corresponsabile del suo straripare”. A seconda del proprio atteggiamento di fondo ciascuno considera l‘uno il dio e l’altro il demonio o viceversa.  Ognuno deve decidere quale PER LUI è il dio e quale il demonio. E lo stesso si ripete in tutti gli ordinamenti della vita.»

Che strano: proprio nel momento preciso in cui Max Weber afferma che non sono i professori, ma è la vita a doversi misurare con le questioni di valore, e che la scelta degli dèi da servire è personale e non la si può decidere con gli strumenti della scienza, ecco che si lascia sfuggire che l’etica del Discorso della montagna predica, dal punto di vista umano, la mancanza di dignità; e aggiunge che ciò «è chiaro». Come, chiaro? Sarà chiaro, semmai, per chi abbia deciso di deificare il concetto di dignità in una accezione puramente umana (ma anche questo non è poi così “chiaro”: che vuol dire «in senso puramente umano»?); ma si tratta, appunto, di una scelta di campo, a favore di un certo dio – o di un certo demonio.
E allora si torna al punto di partenza: anche se alcuni filosofi, specialmente fra i sostenitori del relativismo e di ogni forma di “pensiero debole”, non vogliono ammetterlo, c’è poco da fare: noi non possiamo esimerci dal compiere delle scelte etiche in presenza di qualunque decisione, anche la più lontana, in apparenza, dalla sfera dei valori: perché nella tecnica si tratta solo di scegliere l’idoneità di uno strumento rispetto a un altro, ma nella vita si tratta di molto di più; si tratta di decidere da che parte si vuole andare, cosi si vuole fare, e soprattutto PERCHÉ.
In altre parole, si tratta di optare per dei valori: e più tali valori sono universali (come, appunto, nel caso del Discorso della montagna), tanto più aumenta la possibilità che essi riescano ad offrire un orizzonte di senso alla vita e alla morte dell’uomo; mentre dove non servono valori, né fini, ma soltanto scopi da realizzare e mezzi mediante i quali realizzarli, l’orizzonte di senso si restringe e scompare addirittura, e subentrano le ombre dell’insensatezza e della sua inseparabile compagna – la disperazione.

Dunque, non è vero che per vivere basta prefiggersi degli scopi; e non è neppure vero che un’etica ne vale un’altra. Ci sono etiche che incoraggiano, sostengono e promuovono la vita; e ce ne sono altre che la indeboliscono, la rattrappiscono, la deprimono. Ciascun essere umano è chiamato a scegliere, che ne sia consapevole o meno…

di Francesco Lamendola - 17/06/2013


Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte] 

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