Fine del sacro barocco
Addio alla sedia gestatoria e allo strascico cardinalizio, addio al frac e ai titoli pomposi: dai palazzi apostolici a quelli della politica è tutto un fuggire dalle vanità del potere
Ora che si è visto pure il Papa col bagaglio a mano, dalle beatissime mani trascinato, l’Appartamento Pontificio disertato e il legittimo inquilino calzare scarpe da consorzio agrario.
Ora che nelle Aule parlamentari è tutto un fiorire di “cittadino!” o “eletto”, al massimo “deputato” – e l’onorevole che fu, e che sempre rivendicato era, si è quasi mutato in disonorevole appellativo, così che se qualcuno prova a impressionare ancora l’uditorio, subito quale “onorevole Cosimo Trombetta in Bocca” (“chi è lei?” “l’onorevole!” “ma mi faccia il piacere!”) si certifica e si sputtana, e in un niente il graduato Trombetta in trombone si muta. E’ la pernacchia che segue, non più l’ammirazione che gratifica. Cambiano i gesti, cambia la lingua, cambia pure il senso delle parole. Appena pochi anni fa, il più sfigato eletto municipale, quello del più sperduto ridotto provinciale, ancora si autogratifica sui manifesti del titolo di On. (“partecipa l’on. Tal dei Tali”: con sorpresa degli stessi suoi familiari, dei condomini tutti, a piccola voracità, a immane coglionesca vanità), adesso ognuno va sotto traccia, si inabissa, si fa sottomarino dopo essere stato vistoso galeone. Or che ognuno vede, or ognuno sa: piuttosto il sottrarsi, l’apparentarsi, il muro maestro da rasentare protettivo, il farsi ombra delle cose e delle proprie vanità, borbonica ammuina alle masse maldisposte – “a ritirare nel guscio lumachesco le sue cornicine”, come l’ottocentesca Civiltà Cattolica quando azzardava vittoria su certi adepti della “frammassoneria francese” . Evangelicamente, ciò che fu esaltato si abbassa, ciò che in basso si trovava alto ora si erge. Sulle onde burrascose dei giorni, quando rivoluzione si attende e poco più di rutto rivoltoso s’ode, come schiuma residuale, come legni marci di avvenuto naufragio, galleggiano parole e titoli e reverenze in acqua lestamente gettati a evitare definitivo affondamento del precario naviglio.
C’è furbizia, gattopardesca a volerla definire al solito; c’è certo pure convinta adesione – ché poi la figura onorata e morente di don Ciccio Tumeo, il repentino trapassare da fedele suddito a schifoso borbonico, nessuno la vuol fare. Così i gesti mutano, e così mutano le parole – e forse, chissà, ma davvero chissà, la sostanza muterà. E chi fino a un poco fa era esempio da seguire – pur bella sua babelica e barocca boria da sfasciacarrozze – ora lui stesso esempio diverso e opposto segue. Non uno secondo al cuore dei giorni che mutano vuol giungere; anzi quei giorni a volte persino rivendica di aver preceduto. Così, se la presidente della Camera, per cameratesco e civile desinare alla mensa montecitoriana si reca, in un sorreggere di pericolanti vasoi e un posteggiarsi tra apposite file alla cassa mentre le trenette sfumano, generale stupore si leva, “è la prima volta che vediamo un presidente mangiare qui”, ma coloro che affiancarono il suo predecessore Casini si scapicollano in maliziosa precisazione: “Boldrini pranza a mensa, sorpresa dipendenti: è la prima volta. Diciamo la prima volta che se ne dà notizia” – ché appunto secondi, al cor che vibra per innovare e mutare, né bello né saggio è giungere tardivi. E, questo è certo, nessuno un Papa alla residenziale mensa aveva finora potuto annotare, come praticante fraticello – ché lì davvero un mondo si capovolge e mirabilmente in alto si riallinea.
Cose e parole per definirle dunque mutano. A volte le persone – ché pure le persone mutano, o fan mostra di mutare cose e lingua per non ritrovarsi a loro volta accantonate. I più avveduti del rischio di troppa sontuosità sempre avvertivano, da troppo sfoggi mettevano in guardia, da certa vanagloria esortavano a tenersi alla larga: spesso si è vista una gloriosa processione, dove ognuno va immaginandosi come Santissimo, che di colpo si muta in corteo con prigioniero esibito. Totò, con il suo eletto in vagone letto, spiegava questo rischio dell’eccessiva autoconsiderazione. E prima ancora, con ferocia che pelle ed ermellini strappava da dosso all’elevato B. Mussolini Dux, “ruggente lione di tutto coccio stivaluto e medagliuto”, era stato Carlo Emilio Gadda, e dunque eccola “quella pompa centrogravitante, quel ragnatelo del cerimoniale, a seggetta e a sala, e a tavola: e i subjuganti festini”, e Quello Là in una parodia della corte di Saint Simon, “ci rivive e ci siede in mezzo e si accomoda ancora le brache”, distolto appena il sederone di seggetta, quella tacchinesca maestà (“une majesté naturelle…”) del decimoquarto Luigi dalle trippe doppie (“ses boyaux… doubles… que d’ordinaire…”). E se fino a un certo punto – punto che il satiro e il veggente all’orizzonte intravedono, che il padrone del gran sederone sempre ignora – “la moltitudine anelante al tragitto implora il tragittatore”, pronto un mirabile e grottesco finale di partita (“la partenza fu trista per lui”) – proprio su tragitto e tragittatore. Quello manzoniano della fuga dalla Milano appestata e devastata di don Gonzalo (“pare che avesse una gran smania d’acquistarsi un posto nella storia”), che crede ancora di far sfoggio di pompe e solennità e autorità, “all’uscir dunque, in carrozza da viaggio, dal palazzo di corte, in mezzo a una guardia d’alabardieri, con due trombetti a cavallo davanti, e con altre carrozze di nobili che gli facevan seguito”, e così bardato sfidò la moltitudine e la sorte, e la sorte in malasorte si mutò, fischi e urli e sberleffi, “la va via la carestia, va via il sangue de’ poveri”, e poi di peggio avvenne, “cominciarono anche a tirar sassi, mattoni, torsoli, bucce d’ogni sorta, la munizione solita in somma di quelle spedizioni; una parte corse sulle mura, e di là fecero un’ultima scarica sulle carrozze che uscivano. Subito dopo si sbandarono”. Ed ecco che nei giorni che toccano, ognuno un po’ don Gonzalo si sente, il fischio dei broccoli andati a sfiorar le orecchie – tra i simboli dell’autorità e le trombe che accarezzano il pennacchio del fu comando.
Dove il pennacchio degnò di posarsi, ora si sfugge e si latita. Persino dal ristorante della Camera, ed è tutto un rinnegare orate al forno e trenette al pesto, un esibire di scontrini assolventi e pubblico autodafé – pure del grillino timoroso di tentazioni del potere: io no, io mai più, chiedo venia e chiedo scusa, rimborso, risarcisco, mi batto il petto e ribatto i conti. Ognuno scarnifica, sottrae, rincorre un’autorità da eremitaggio desertico, vanità della nudità, tutto sotto il sole è vanità: un asservirsi al popolo magno, un servire il solidale interesse, un sacrificarsi alla sorte altrui. Ed è uno spettacolo da gustarsi persino in cielo, oltre che in terra, il Papa in utilitaria e croce ferrosa e calzoni non alla tonaca intonati – e quel posare l’occhio altrove del cardinalato curiale circostante, al cielo magari così da scansare il torcibudella che la sorte (si vorrà far colpa allo Spirito Santo?, dice quello sguardo che incerto attende e implora, come di cane del guinzaglio e della serale passeggiata in attesa) – e intanto un ravanare frenetico nel cassetto all’arrembaggio del pettorale meno dorato, dell’anello meno impegnativo, della veste meno inamidata. L’utilitaria del sacrestano, presto! La tessera del tram, subito!, che sia buona pure per la metro, ché in metro andava il cardinale Bergoglio! E che modello e che intuizione, Santissimo Padre a parte (che ci si sente al cospetto Eminentissimi e insieme problematici don Abbondio alle prese col cardinale Borromeo: “Che sant’uomo! Ma che tomento!”), quell’avveduto confratello arcivescovo di Lione, il cardinale Philippe Barbarin, che alle congregazioni prima del conclave in bici arrivava, pedalando si presentava, basco in testa e borsa a tracolla – e una bici, allora, che pur pedalando ci si eleva, si sale: come se assistesse Sorella Povertà in spirito ed E. T. dal portapacchi.
Papa Francesco ha accelerato tutto di colpo. Ha ricevuto Napolitano e ha fatto sapere che il frac – quello tutto immedagliato di collare ornato e fasce colorate addobbato, grazie tante, se ne può fare a meno, ci fosse casomai un Collare da Cavaliere di Gran Croce decorato di Gran Cordone da portare esibito, o magari pure senza Gran Cordone. A Montecitorio qualche vice ha cominciato a presiedere le sedute d’aula senza cravatta – oh, il rivoltarsi nella tomba della buonanima di Emilio Colombo, che l’Aula senatoriale intendeva sprangare ai grillini con l’incarnato in vista, va senza giacca a volte Enrico Letta, persino in maniche di camicia il principe mostra il figliolo prossimo re d’Inghilterra. Meno, meno, e ancora meno. Tagliò la cappa magna di smisurati metri Pio XII, da dodici a sei – sempre più lunga, in ogni modo, della berlina pontificia di oggi, e c’erano una volta disposizioni rigorose (si veda: “Norme cerimoniali per gli Eminentissimi Signori Cardinali”, 1947), e vesti e controvesti e il galero e il trono, e la Sala del Trono persino in casa S. E. doveva avere, adeguatamente predisposta, “tappezzata in rosso, addossato alla parete principale, si colloca un dossello con baldacchino, tutto di velluto rosso con trine e frangia d’oro, e in mezzo al dossello, il ritratto del Sommo Pontefice, in pittura ad olio. Ai piedi del dossello, un nobile tappeto, non molto grande, con sopra una poltrona dorata…”. Ora che Francesco lascia sul pianerottolo la nobiltà fremente – che Pio adottava ed esaltava (“Nel patriziato e nella nobiltà romana Noi rivediamo ed amiamo una schiera di figli e di figlie, il cui vanto è il vincolo alla fedeltà a vita verso la Chiesa e il Romano Pontefice, il cui amore per il Vicario di Cristo erompe dalla profonda radice della fede (…) Sì, la fede rende più nobile la vostra schiera, perché ogni nobiltà viene da Dio, Ente Nobilissimo e fonte di ogni perfezione. Tutto in lui è Nobiltà dell’essere…”, Pio XII, Allocuzione al Patriziato e alla Nobiltà romana, 26 dicembre 1941: figurarsi adesso un discorso del genere), e che Papa Paolo aveva già spintonato ai margini, con la Pontificalis Domus, facendo fuori in un colpo solo Cardinali Palatini, Prelati di fiocchetto, Principi assistenti al Soglio, Commendatore di Santo Spirito, Camerieri d’onore in abito paonazzo, Accoliti ceroferari, Maestri Ostiari di “Virga Rubea”, Mazzieri, Cursori Apostolici, Custode dei Sacri Triregni, ecc. ecc. – dopo aver lasciato nelle mani di un monsignore la mozzetta rossa la sera dell’elezione, c’è da adeguarsi e c’è da applicarsi. E già sono andati a prender polvere sedia gestatoria, flabelli e proskynesis, “umilmente prostrati al bacio della Sacra Pantofola”. In opere, per cominciare, e poi in pensieri e parole. E forse, sarà pure meglio il “sì sì, no no”, anzi: certo meglio, ma il rischio di perdere quel linguaggio di scintillante barocco – pregio dell’Altare e della burocrazia ministeriale – dispiace non poco.
Molto diverte, quel linguaggio, oggi – ma oggi, stretti tra i centoquaranta caratteri di Twitter, che se non sei Ungaretti una cosa decente non ti viene, e il politicamente corretto, l’unica invenzione linguistica che allunga le parole per castrarle emotivamente (l’operatore ecologico per spazzino, il non vedente per cieco), il rischio è che si confonda semplicità con banalità, la semplicità come pura micragna letteraria. In fondo, dove ancora i titoli altisonanti abbondano e le maiuscole ingombranti si ergono senza provocare né troppo ridere né eccessivo malumore, è proprio il mondo accademico, con il fiorire del certificato “Chiarissimo” professore, il risaputo “Amplissimo” preside, il notorio “Magnifico” rettore. Dal muro di casa, un editto per la Quaresima dell’anno 1851 quasi fa boccacce e quasi fa nostalgia – per la lingua, per certe costruzioni pazzotiche e ammirevoli, mica per la dettagliata disamina di carni e pesci e latticini così da non imbarazzare lo stomaco e recare offesa al Cristo morente. E dunque, lo scrivente: “Chiarissimo del Titolo di S. Marcello della S. R. C. Prete Card. Falconieri per la Grazia di Dio, e della S. Sede Apostolica della S. Metropolitana Chiesa di Ravenna Arcivescovo e Principe e della Città e Diocesi di Forlì Amministratore Apostolico”, e giù un minuzioso rendicontare di come “la Santità di N. S. Pio IX si è degnata nella Paterna Sua Clemenza”, e dotato della risaputa “Sovrana Sua Benignità”, di “moderare anche per quest’anno la rigorosa osservanza Quadragesimale con amplo Indulto”, ecc. ecc.
Ma nei giorni che si vogliono al mutare dedicati, a farsi tara dopo essersi fatti lordi, a diventare tanica di contenuti svuotata (e ciò è bene, e ciò è edificante), pure un certo linguaggio dei laici, già sprofondato nel dimenticatoio, può del tutto cancellarsi dalla memoria. Come quello di certi panegiristi del XVII e XVIII secolo, capaci di ammucchiar indistintamente parole capaci di suscitare più che stupore per il contenuto (non c’è) ammirazione per il faticoso accatastare. Fa ridere, almeno, ché non di solo comico di Rai3 l’uomo vive, Giovanni Battista Torretti che edifica “al serenissimo Ferdinando II il Pio, Granduca di Toscana”, e quasi non riesce ad avviare il componimento: “E’ stata, Serenissima Altezza, lungo tempo dubbiosa la mente, e vacillante il pensiero, se fra tanti Canori Cigni dell’Arno, che con penne felici poggiano in alto; dovessi ancor io, benché timida, e gemente Colomba far forza d’inalzar da terra il mio tarpato, e debole ingegno su l’ale di questa penna, adattandola agli omeri del vostro nome per volare al Cielo delle lodi, che accompagnati dagli applausi di quelle glorie, che come parto della Virtù di V. A. lasciano luogo più tosto alla meraviglia, che all’imitazione…” – sfiancato il panegirista, si suppone, che va avanti così per una cinquantina di pagine, ma sfiancato pure il povero Granduca – Pio sì, paziente molto.
Ma ancor più gustoso è un libretto, pubblicato a Livorno nel 1843, dal festevole titolo di“Nuovo segretario italiano o modelli di lettere sopra ogni sorta di argomenti colle loro risposte” – e ogni cosa era prevista, dal chiedere la mano alla fanciulla allo scrivere al vescovo, dalla zia morente alla “giovanetta che trovasi in un monastero avendo inteso che la madre sua si è perfettamente rimessa da una malattia mortale si congratula seco con la seguente lettera”. E sopra tutte, meravigliose le lettere di raccomandazioni – che oggi, di sicuro, qualche procura prenderebbe in esame – anche presso il signor ministro: “Pregiatissimo amico, il credito di cui godete presso del ministro, è un effetto del vostro merito e del suo discernimento. Bramerei volentieri di vedervene godere, senz’essere obbligato ad avervi ricorso; la mia amicizia vi sarebbe sembrata meno interessata, quantunque per questo non lo sia di vantaggio; ma le circostanze mi obbligano a diportarmi diversamente, bla bla bla…”. Al dunque: “Ecco il favore che attendo da voi, e che è, come vedete, di una grande importanza per me. Son sicurissimo che per poco che vi degnate raccomandarmi i miei affari prenderanno un aspetto più favorevole…”: O altra lettera: “Dimando al ministro il posto di luogotenente per mio figlio nel… reggimento…”. Ancora: “Accennerò solamente, che il giovane per cui dimando l’onore della di lei protezione, è figlio di un uomo onestissimo, ed è in età da persuaderci che imiterà il suo genitore. Nell’animo di tali persone non suol mai germogliare l’ingratitudine; potrà dunque assicurarsi da parte sua una eterna riconoscenza, ecc. ecc.”. C’è qui da che aprir fascicoli, altroché. Raccomandazione dell’esemplare manuale: “Queste lettere debbono sempre affrancarsi”. E prezioso dettaglio finale su come intestare le missive: al re, “Ubbedientissimo suddito” o “Alla sacrà Maestà”, al principe “Sua Altezza Serenissima”, persino “All’Illustrissimo ed eccellentissimo signore signor padrone colendissimo”, al banchiere (si sa: quelli ci tengono) “Pregiatissimo o Stimatissimo od Ornatissimo signor mio”, a papi e cardinali e vescovi, “Devotissimo, ossequientissimo servitore”, alla nobildonna, “”All’Illustrissima Signora e padrona colendissima la signora Contessa”, ecc. ecc.
Le parole, i titoli, la lingua. Nessuno parla così (meno male), ma non è che in genere parlino molto meglio, parecchio innovatori (e questo è male). Pure Totò ebbe a un certo punto l’autorizzazione dal tribunale di fregiarsi del seguente titolo: “Antonio Griffo Focas Flavio Dicas Commeno Porfirogenito Gagliardi De Curtis di Bisanzio, altezza imperiale, conte palatino, cavaliere del Sacro Romano Impero, esarca di Ravenna, duca di Macedonia e di Illiria, principe di Costantinopoli, di Cilicia, di Tessaglia, di Ponte di Moldavia, di Dardania, del Peloponneso, conte di Cipro e di Epiro, conte e duca di Drivasto e Durazzo”. E poi, così ornato e così gravato, saggiamente spiegava: “A pensarci bene il mio vero titolo nobiliare è Totò. Con l’altezza imperiale non ci ho fatto nemmeno un uovo al tegamino”. Ecco perché sapeva tutto. Anche che finiva a pernacchie per l’onorevole Trombetta (in Bocca).
© - FOGLIO QUOTIDIANO
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.