¡no Hablo latino!
Francesco, il “vescovo di Roma” senza fronzoli, mette in allarme i conservatori. I conti con Lefebvre
Nonostante sul trono di Pietro sieda il Papa preso alla fine del mondo che da buon soldato di Ignazio “nec rubricat nec cantat”, le trombe d’argento continuano a scandire solenni dall’alto della loggia interna in San Pietro le marce ottocentesche di Silveri e Longhi. Partono all’unisono non appena s’intravede in fondo alla grande navata centrale il corteo papale diretto all’altare della Confessione. Con le riforme e gli aggiustamenti del Concilio e del post Concilio quel momento alto e pomposo si era perso insieme ai flabelli e alle divise della Guardia nobile, fino all’arrivo al Soglio petrino del fine teologo tedesco Joseph Ratzinger.
E quelle trombe suonano ancora oggi, nonostante Benedetto XVI abbia scelto di dedicarsi alla rilettura dell’“Estetica teologica” di Hans Urs von Balthasar, alla preghiera e all’incontro con qualche vecchio amico nel buen retiro dei Giardini vaticani. Nascosto al mondo ma non troppo, se è vero che di tanto in tanto scambia qualche parola con il successore e partecipa a brevi eventi pubblici (l’ultimo il 5 luglio scorso per l’inaugurazione della statua di San Michele arcangelo nella piazzetta antistante il Governatorato) a fianco dell’uomo che lo ha avvicendato alla guida della chiesa universale.Ma non basta questo simbolo – la marcia composta quando Pietro era Gregorio XVI, il Papa reazionario che nella vulgata è ricordato (erroneamente) per essere l’uomo della frase “Chemin de fer, chemin d’enfer”– per dire che nulla è cambiato, che quel deposito simboli, gesti e riti pressoché immutabili almeno negli ultimi cinquecento anni non sono stati toccati dall’avvento del gesuita che viaggiava in metropolitana e non poteva fare a meno del mate e del dulce de leche.
I settori più tradizionalisti, quelli più legati all’idea che il Papa è vertice supremo della gerarchia, vicario di Cristo che non delega e non parla di sinodi e di collegialità (“Non so neppure cosa voglia dire lo sviluppo della collegialità episcopale”, diceva severo alla vigilia del secondo Conclave del 1978 il cardinale genovese Giuseppe Siri, considerato un po’ il delfino di Pio XII, il Romano Pontefice per antonomasia, il vicario di Cristo che non voleva collaboratori “ma solo esecutori”), avevano storto il naso già in quella uggiosa sera del 13 marzo scorso, quando Bergoglio diventato Francesco apparve sulla Loggia delle Benedizioni per il primo contatto pubblico con la sua diocesi. Era lì, mani lungo i fianchi, il volto tirato, completamente vestito di bianco. Senza mozzetta di velluto rosso bordata d’ermellino, senza scarpe rosse (che non erano un vezzo di Ratzinger, ma memoria del martirio), senza croce d’oro. Se un occhio attento si fosse soffermato sui particolari, poi, avrebbe notato che l’eletto non portava (né porta ancora oggi) i pantaloni bianchi. E poi quell’insistere sull’essere vescovo, sul riferimento alla chiesa di Roma come a quella che presiede nella carità tutte le altre chiese; quella firma ufficiale priva delle consuete PP che hanno sempre seguito il nome in latino.
Sembrava quasi che fosse in atto un ripensamento del primato petrino, la sua messa in discussione. Venivano contate le volte in cui Bergoglio si definiva Papa piuttosto che vescovo, si temeva da un momento all’altro l’annuncio dell’addio a quel palazzo apostolico che lo storico Alberto Melloni ha definito “sarcofago del Quattrocento” per andare a San Giovanni, in Laterano, là dove c’è la cattedra del capo della diocesi romana. Ma la rivoluzione dell’argentino Francesco ha sorpreso anche in questo caso, quando ha sì richiuso gli appartamenti papali cui erano stati appena tolti i sigilli, ma ha preferito andare ad abitare in un albergo. Un residence spartano, con la mensa comune e il self-service. Per lui, due stanzette a disposizione che gli ricordano il suo miniappartamento di Buenos Aires.
Tutti gesti non casuali, per lo storico del Cristianesimo all’Università di Torino Giovanni Filoramo: “Penso alla volontà di Francesco di insistere sul dialogo ecumenico, e il venir meno di certo simbolismo, di segni visibili del potere, potrebbero essere significativi nell’ambito della discussione sul primato petrino. Da parte protestante questi gesti non sono passati innoservati, perché viene messo in discussione nei fatti il potere assoluto”. Certo, nota ancora Filoramo, “Bergoglio ha un approccio diverso dal predecessore per quanto riguarda gli aspetti legati alla liturgia, alla centralità del latino, al tema del mistero. Aspetti che sono tornati utili quando Ratzinger ha cercato di ricostruire un ponte con i settori tradizionalisti della chiesa cattolica. Tutti questi aspetti per ora, con il nuovo Papa, non sono emersi o comunque non sono particolarmente visibili”. Si tratta di dimensioni tradizionali, ma “non è che Francesco abbia attaccato capisaldi della tradizione dogmatica. Semmai, si è limitato a lasciarli tra parentesi. Più che altro – spiega il nostro interlocutore – mi sembra abbia proposto uno stile diverso”. Il punto fondamentale è che davvero il Pontefice felicemente regnante viene da un altro mondo, “ed è un mondo in cui il latino non può tornare”, aggiunge il professor Filoramo. “E’ un mondo in cui la comunicazione, l’annuncio, la mediazione e di conseguenza la messa non passeranno più per il latino”. E non è un caso che a Rio, dove si celebrerà la prossima settimana la ventottesima Giornata mondiale della gioventù di latino ce ne sarà ben poco. “Il Papa parlerà portoghese e spagnolo”, hanno confermato dal Vaticano alla vigilia della partenza di Francesco per il Brasile.
Un ritorno indietro rispetto al sapiente e paziente recupero fatto da Benedetto XVI, che in latino lesse pure l’annuncio della rinuncia che in una mattina d’inverno squassava dalle fondamenta la storia della chiesa. Attenzione, dice Filoramo, la questione dell’uso della lingua di Virgilio non è secondaria: “Penso che Ratzinger volesse, attraverso il latino, sottolineare la centralità del mistero liturgico. Il tradizionalista dice che questo è fissato solo in latino, travisando il pensiero di Benedetto XVI. E l’esperienza personale di Bergoglio parla chiaro. Inutile farsi illusioni. Lui viene da una terra dove la perdita di presa del cattolicesimo è costante, ma non è certo tornando al latino che si vince il confronto con i pentecostali. Il problema non è tanto a Buenos Aires, quanto a Roma. Una volta i corsi nelle università pontificie si tenevano in latino, adesso prevale di gran lunga l’inglese”. La crisi, insomma, è al centro, non in periferia.
C’è poi la questione del Concilio, della sua eredità. Francesco non è né del Concilio né del post Concilio, non sembra interessato ad affermare ortodossie e a farsi coinvolgere più di tanto sui dibattiti accademici circa l’interpretazione della grande esperienza aperta nell’ottobre del 1962 da Papa Roncalli e chiusa, tre anni dopo, da Paolo VI. C’è una gara a scorgere e carpire nelle sue parole riferimenti a quell’assise ecumenica, a collegare gli accenni alla sinodalità al compimento definitivo del Concilio. Senza contare che la canonizzazione pro gratia e senza miracolo di Giovanni XXIII è diventata quasi il sigillo sul fatto che Francesco a quell’esperienza si richiama e su di essa vuole impostare il pontificato. Che il Concilio sia “un orizzonte imprescindibile è ovvio”, sostiene Giovanni Filoramo, il quale però è altrettanto convinto che il grande e pluridecennale dibattito sull’ermeneutica della continuità o discontinuità sarà meno importante ora che al Soglio petrino c’è un gesuita argentino che il Concilio, forse, l’ha visto solo in televisione. Bergoglio è prete dal 1969, quando Montini aveva chiuso l’assise da ormai quattro anni. Non ha vissuto quell’epoca di terribili scontri, di violenti conflitti tra il cosiddetto partito della curia romana e gli episcopati dell’Europa del nord, della Francia gallicana, dell’Olanda e della Germania. Bergoglio stava tra il Cile e Buenos Aires e da poco aveva lasciato l’adorata nonna che per prima lo istruì sui fondamentali del catechismo per farsi novizio tra i gesuiti.
A differenza del predecessore Ratzinger, perito al seguito del cardinale arcivescovo di Colonia Josef Frings, il poco più che ventenne Jorge Mario non era in San Pietro, quel mattino dell’11 ottobre 1962, ad ascoltare il “Gaudet Mater Ecclesia” con cui un pallidissimo e teso Roncalli assiso in trono aprì il Concilio dopo un’interminabile messa de Spiritu Sancto durata tre ore e presieduta dal decano Eugène Tisserant, un coltissimo uomo di curia ma tutt’altro che insensibile alle istanze dell’episcopato d’origine. E non poté neppure osservare le continue smorfie di insofferenza e preoccupazione di un nervoso Alfredo Ottaviani, il potentissimo segretario del Sant’Uffizio e custode inflessibile della dottrina.
Chi si rifà alla tradizione, dice lo storico Roberto de Mattei, ritiene che “il problema di fondo sia proprio il ripensamento storico del Concilio vaticano II. Benedetto XVI aveva aperto per primo il dibattito su questo tema, ma in uno dei suoi ultimi discorsi pubblici, quello al clero romano del 14 febbraio scorso, Ratzinger ammetteva di fatto il fallimento dell’ermeneutica della continuità”. Quell’intervento del Papa oggi emerito, prosegue De Mattei, “è importante perché sa tanto di testamento dottrinale. Un discorso in parte a braccio, ma articolato, lungo, ragionato, uscito dal cuore”. Ratzinger sembra dire che “l’esistenza di un Concilio virtuale sovrapposto a quello reale ha di fatto reso impossibile una rilettura di quell’evento alla luce dell’ermeneutica della continuità”. Il Pontefice argentino, nota ancora il nostro interlocutore, “non ha mai fatto riferimento a quel tema, e del Concilio ha parlato poco. Ma forse è troppo presto per collocarlo secondo etichette di tipo tradizionalista o progressista”.
Chi si rifà alla tradizione, dice lo storico Roberto de Mattei, ritiene che “il problema di fondo sia proprio il ripensamento storico del Concilio vaticano II. Benedetto XVI aveva aperto per primo il dibattito su questo tema, ma in uno dei suoi ultimi discorsi pubblici, quello al clero romano del 14 febbraio scorso, Ratzinger ammetteva di fatto il fallimento dell’ermeneutica della continuità”. Quell’intervento del Papa oggi emerito, prosegue De Mattei, “è importante perché sa tanto di testamento dottrinale. Un discorso in parte a braccio, ma articolato, lungo, ragionato, uscito dal cuore”. Ratzinger sembra dire che “l’esistenza di un Concilio virtuale sovrapposto a quello reale ha di fatto reso impossibile una rilettura di quell’evento alla luce dell’ermeneutica della continuità”. Il Pontefice argentino, nota ancora il nostro interlocutore, “non ha mai fatto riferimento a quel tema, e del Concilio ha parlato poco. Ma forse è troppo presto per collocarlo secondo etichette di tipo tradizionalista o progressista”.
L’atteggiamento di Bergoglio è quello di un uomo pragmatico: lui, dice De Mattei, “più che un uomo di pensiero è un uomo di governo. E gli uomini di governo governano. Non penso che il problema sarà tanto di scrutare ciò che dice, né ritengo ci saranno novità di rilievo sul piano dottrinale. Per lui parlano i gesti, l’apparato simbolico, l’aspetto della comunicazione”. L’esempio calzante è il recente viaggio a Lampedusa, in missione tra altari realizzati con barche variopinte e semplici ferule lignee, in una delle periferie esistenziali così tanto care al gesuita che ha scelto come nome pontificale quello di Francesco: “Lampedusa non è un discorso, ma un fatto, un evento che ha un significato che supera quello di molti interventi a voce. E questi fatti hanno anch’essi un’implicita portata dottrinale”, afferma De Mattei.
Sullo sfondo del rapporto con la tradizione rimane l’insoluta questione del riavvicinamento tra Roma e la Fraternità di San Pio X. E’ di fine giugno la lettera con cui tre dei quattro vescovi ordinati da Lefebvre denunciavano ancora una volta “i gravi errori che stanno distruggendo la chiesa”, chiudendo le porte a una possibile ricomposizione della frattura con il Vaticano. Anche su questo tema il disegno del teologo bavarese era stato curato nei dettagli, con la pazienza tipica del monaco benedettino, un progetto che mirava alla reintegrazione della fraternità scismatica. “Ratzinger ha puntato molto sul recupero degli scismatici – dice Giovanni Filoramo – e per fare questo ha messo un po’ in sordina il dialogo interreligioso e quello ecumenico. Bergoglio, invece, si percepisce come in una dimensione più globale, aperta al mondo e non più centrata sulla storia dell’Europa cristiana. E’ questo un crinale fondamentale, le tematiche di riferimento diventano altre, così come le priorità”. Francesco ha come obiettivo la ripresa del dialogo interreligioso, ma non sul piano formale, a parole, “ma nei fatti”.
Sullo sfondo del rapporto con la tradizione rimane l’insoluta questione del riavvicinamento tra Roma e la Fraternità di San Pio X. E’ di fine giugno la lettera con cui tre dei quattro vescovi ordinati da Lefebvre denunciavano ancora una volta “i gravi errori che stanno distruggendo la chiesa”, chiudendo le porte a una possibile ricomposizione della frattura con il Vaticano. Anche su questo tema il disegno del teologo bavarese era stato curato nei dettagli, con la pazienza tipica del monaco benedettino, un progetto che mirava alla reintegrazione della fraternità scismatica. “Ratzinger ha puntato molto sul recupero degli scismatici – dice Giovanni Filoramo – e per fare questo ha messo un po’ in sordina il dialogo interreligioso e quello ecumenico. Bergoglio, invece, si percepisce come in una dimensione più globale, aperta al mondo e non più centrata sulla storia dell’Europa cristiana. E’ questo un crinale fondamentale, le tematiche di riferimento diventano altre, così come le priorità”. Francesco ha come obiettivo la ripresa del dialogo interreligioso, ma non sul piano formale, a parole, “ma nei fatti”.
Che questo significhi il taglio completo dei rapporti con i discepoli di Marcel Lefebvre, però, De Mattei tende a escluderlo, ed è proprio il pragmatismo mostrato dal soldato di Ignazio che aveva chiesto a padre Arrupe di essere inviato missionario in Giappone a indurre all’ottimismo chi spera nella prossima ritrovata comunione: “Gli ostacoli finora sono stati tutti di tipo dottrinale, per cui ora sarà più facile superare i problemi anche in virtù del desiderio di far convivere realtà di segno diverso”. E’ da vedere, però, quanto questo sarà possibile. Il problema di fondo, spiega De Mattei, è capire se “un ruolo più interventista del Papa non finisca per indebolire l’Istituzione-chiesa. Prima avevamo a che fare con un’istituzione forte e un governo debole, dallo scorso marzo il piano si è rovesciato”. Il rischio è quello che venga a determinarsi una situazione di “anarchia, di confusione”.
Il timore maggiore è che Francesco, pur con i suoi gesti rivoluzionari, con il suo preferire i salottini di Santa Marta e il contatto costante con le folle salutate a bordo di jeep o campagnole dal vago sapore retrò, “non riuscirà a evitare il dramma che incombe sulla chiesa cattolica”. Il professor De Mattei descrive questa spada di Damocle che pende su quell’istituzione che Miguel de Unamuno definiva agonica, e cioè che per sua natura passa da una crisi all’altra. E’ un dramma “che ha ragioni culturali e teologiche, e se Francesco si limiterà a un’azione di governo sul piano pragmatico potrebbe essere destinato al fallimento. La condizione per vincere la crisi è recuperare la tradizione nel suo pieno significato: avere cioè il coraggio di prendere atto di questa situazione drammatica in cui versa la chiesa”. Una crisi dottrinale, teologica, morale. “Bisogna risalire alle radici, capire che qualcosa è andato storto. E questo qualcosa – aggiunge – è il progetto che ha visto la luce dopo la chiusura del Concilio Vaticano II, quell’edificio che in nome della grande assise ecumenica indetta da Giovanni XXIII pochi mesi dopo la sua elezione a Pontefice si è preteso di costruire”. Il dato di fatto, spiega, “è che quell’edificio è crollato e perciò è necessario tornare alle fondamenta, che sono sempre le stesse che l’esperienza e la tradizione cattolica ci offre: fede e morale. E’ il magistero della chiesa, ed è da lì che bisogna ripartire”. Certo, “bisogna trovare un linguaggio nuovo, diverso, chiaro e definitorio; ripartire dai punti fondamentali del catechismo e fare un’opera di pulizia morale prima di tutto all’interno delle diocesi”.
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