ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

giovedì 15 agosto 2013

Fàmolo strano?

Su questa vicenda dal sapore estivo è stato scritto non poco e noi abbiamo pubblicato, a titolo documentario, diversi interventi. E tuttavia ci siamo resi conto che in generale sono stati sottovalutati due importanti aspetti di questo accadimento quasi balneare.
Nei vari interventi, qua e là si colgono dei richiami a quanto stiamo per dire, ma pensiamo sia utile e opportuno parlarne esplicitamente e chiaramente.La prima cosa che si nota è che i Francescani dell’Immacolata, dal 2007,Summorum Pontificum alla mano, hanno celebrato “anche” secondo il rito tradizionale, oggi malamente noto come “forma straordinaria” del Rito Romano. Nati nel 1970 e canonicamente regolati nel 1990, i Francescani dell’Immacolata (FFII) hanno sempre celebrato la Messa riformata di Paolo VI, semplicemente perché era questa la liturgia ufficiale della Chiesa. Il fatto che dal 2007 abbiano deciso di celebrare “anche” la S. Messa tradizionale, è legato a motivazioni diverse, compresa quella che il rito tradizionale conserva quella sacralità che dovrebbe essere propria del culto cattolico e che la Messa di Paolo VI ha volutamente “umanizzata” per una malintesa esigenza mondana. A causa di ciò, oggi sono pochi quelli che ricordano che il culto cattolico è rivolto a Dio e non agli uomini, così che sono diventati molti coloro che sono convinti che il culto che dovrebbe essere gradito a Dio debba essere innanzi tutto compreso e gradito all’uomo.
Questa stortura mentale, che diventa una deviazione religiosa, è un elemento importante per capire cosa succede oggi ai FFII e cosa è già successo ieri a certi Istituti che si ritenevano e si ritengono legati alla liturgia tradizionale.

L’uso della liturgia riformata realizza l’apertura di un varco nelle menti e nei cuori dei celebranti e dei fedeli, e attraverso questo varco è inevitabile che passi, non solo la logica della riforma liturgica, ma anche tutto quello che la fonda e la giustifica: la concezione umanizzata e mondana del culto cattolico, dove, come diceva Paolo VI, la religione del Dio che si è fatto uomo si incontra con la religione dell’uomo che si fa Dio. Vale a dire una concezione che non è più cattolica perché non è più fondata sul soprannaturale, ma sul naturale. Una religione a misura d’uomo, come se il fine ultimo del vivere cattolico non fosse più l’elevazione dell’uomo a Dio, ma l’abbassamento di Dio all’uomo.
In questa macroscopica distorsione non mancano certo sfumature e precisazioni circa il rispetto e la sottomissione a Dio, ma il suo punto focale resta la moderna centralità dell’uomo, il moderno antropocentrismo, che non è una novità del Vaticano II, ma il punto d’arrivo di un processo di scadimento che affligge il cattolicesimo da ormai diversi secoli.
Per fare un esempio, coerente con i FFII e oggi, non a caso, col nuovo Papa, basti pensare allo svilimento della figura di San Francesco d’Assisi, oggi ridotto a mero antesignano del moderno dialogo tra le “religioni”, e accuratamente “depurato” da ogni pretesa soprannaturale e da ogni istanza missionaria cattolica, proprio perché incompatibile con la moderna concezione antropocentrica della religione di Dio.

Questo elemento, che possiamo indicare col termine “biritualismo”, è una sorta di grimaldello con quale si violano le porte del cattolicesimo. Potremmo ricordare il monito di Nostro Signore: “non potete servire due padroni”, ma ci basta ricordare che è col biritualismo che si sono minate le fondamenta di tutti gli Istituti che, nati tradizionali, hanno deciso di convivere con la moderna Chiesa conciliare impregnata di modernismo e di protestantesimo.

D’altronde, se si ritiene che la liturgia tradizionale sia equivalente alla liturgia riformata, è inevitabile che, prima o poi, ci si chieda il perché della prima, se basta già la seconda. Restano solo giustificazioni estetiche e richiami alla sensibilità personale, con la logica conseguenza che i primi si rivelano cattolicamente inaccettabili e la seconda si riduce al mero individualismo, incompatibile col culto religioso.
Se poi si passa all’adesione al declassamento della liturgia tradizionale, escogitato da Benedetto XVI col Summorum Pontificumsi comprende bene che le perplessità di prima diventano convincimenti profondi circa l’inutilità della liturgia tradizionale, prima, e circa la sua potenziale pericolosità, poi.
È quello che è accaduto nelle teste di certi FFII, non per mala volontà o per cattiva comprensione, ma per forza di cose: non si apre impunemente un varco nell’animo umano, il demonio è sempre pronto ad approfittarne e a scaraventarvi dentro le sue schiere sulfuree; ne sapeva qualcosa già Paolo VI che, prima appiccò l’incendio della riforma e dopo si lamentò che il fumo di Satana fosse penetrato nella Chiesa… bella scoperta!

Per chiudere queste riflessioni su questo primo elemento, ricordiamo che il monito di Nostro Signore: «il vostro parlare sia “sì sì” “no no”, il di più viene dal maligno», non è relativo solo alla predicazione della Verità e al rapporto con gli altri, ma è essenzialmente relativo al modo d’essere del cattolico: chiarezza, dirittura e fermezza devono innanzi tutto albergare negli animi, nelle menti e nei cuori, solo così potranno manifestarsi nel parlare e nell’agire.

Veniamo dunque al secondo elemento.
Il decreto di commissariamento dei FFII, oltre a riguardare la tenuta della congregazione, inaspettatamente e senza alcun nesso logico impedisce ai FFII la libera celebrazione della S. Messa tradizionale.
Molti hanno reagito a questo divieto appellandosi al Summorum Pontificum e invitando a protestare con Roma che lo ha imposto. Cosa del tutto giustificata, ma anche incoerente, poiché è proprio il Summorum Pontificum che ha inventato il marchingegno della libertà di celebrare la S. Messa tradizionale a condizione che il celebrante non coinvolga i fedeli: sine populo, dice il Motu Proprio di Benedetto XVI, sancendo il principio che tale libertà sarebbe concessa solo al celebrante in camera caritatis, e non ai fedeli. Il che, tradotto in linguaggio normale, significa che la S. Messa tradizionale può essere celebrata “liberamente” solo se non lo si fa sapere ad alcuno.

Quando fu promulgato il Summorum Pontificumne parlammo ampiamente, ma l’idea che ha finito col prevalere, e prevale, è che esso abbia liberalizzato la celebrazione secondo il rito tradizionale, soprattutto per quella sua precisazione del “mai abrogato”. In realtà, non di liberalizzazione si trattò, ma di edulcorato imprigionamento, di una sorta di libertà condizionata, aggravata dalla macroscopica incongruenza di un rito cattolico millenario, non abrogabile e detto non abrogato, che per volontà di Benedetto XVI è diventato “forma” del Rito Romano, e per di più “forma straordinaria”, con una subdola innovazione che non trova giustificazione né nella pratica liturgica della Chiesa, né nella logica elementare di un qualsivoglia rito, religioso o profano che sia. 
Ciò nonostante l’equivoco si è perpetuato, anche di fronte all’evidenza che la sola reale libertà praticabile e praticata è stata ed è quella di vietare il rito “mai abrogato”.

In realtà, a rigore di logica, una “forma straordinaria” non può essere altro che un’eccezione, praticabile sotto il diretto controllo e a discrezione dei detentori del potere liturgico nella Chiesa: gli Ordinari del luogo. L’azione svolta dalla Commissione Ecclesia Dei in questi anni, 2007-2013, sta lì a dimostrarlo, in barba a tutte le illusioni qua e là coltivate.
Il decreto di commissariamento dei FFII non fa altro che ricordare che le cose stanno così e non come tanti cattolici in buona fede vorrebbero che stessero.

Per di più, quando si parla di “forma straordinaria”, si dice implicitamente che essa è transitoria, provvisoria, strettamente connessa ad una particolare emergenza: in questo caso al persistere dell’esistenza di persone e di gruppi di fedeli cattolici cosiddetti tradizionali. Esaurita questa persistenza, essa non avrà più ragion d’essere.
È palese che i FFII non rientrano in questa categoria, ed è altrettanto palese che non possono decidere, motu proprio, di trasformare un’emergenza in una consuetudine.

Se si riflette sulla lettera e sullo spirito del Summorum Pontificum, si evince con facilità che il suo scopo è quello stesso espresso da Benedetto XVI in più occasioni, fin da quando era solo il cardinale Ratzinger: riformare il rito riformato, con qualche imprestito del rito tradizionale, ed eliminare quest’ultimo.
Il rito “ordinario” della Chiesa conciliare è il Novus Ordo di Paolo VI, che, come insegna il Vaticano II, nulla osta che possa essere costantemente “aggiornato” a seconda delle esigenze dei tempi e dell’evolversi del “popolo di Dio”. Esso quindi può essere integrato con qualche elemento della “forma straordinaria”, fino a far apparire del tutto logico che ad un certo momento quest’ultima non abbia più ragion d’essere.
In questi anni, dal 2007, la mens del legislatore e il lavoro degli esecutori, hanno avuto in vista la soppressione della liturgia tradizionale, non ex abrupto, che è cosa da Cristianità medievale, ma per logoramento e consunzione, che è cosa del cattolicesimo modernista. Logoramento della resistenza dei cattolici tradizionali, spesso incantati dalle sirene del mare magnum conciliare, e consunzione del rito tradizionale, realizzato con la continua corruzione di esso soprattutto nelle menti e nei cuori dei celebranti e dei fedeli.

Intanto, però, è possibile che singoli fedeli, o gruppi di essi, si convincano, contro ogni evidenza, che la liturgia tradizionale possa avere un tale valore in sé da permettere di giungere alla soluzione della crisi che la Chiesa cattolica patisce da quasi cinquant’anni per mano della Chiesa conciliare.Non v’è dubbio che tale convincimento, che può radicarsi anche inconsciamente nonostante sia sprovvisto della minima giustificazione nella realtà oggettiva, costituisca un forte elemento di disturbo per la vita della compagine cattolica moderna, fino al punto di presentarsi come una mancanza del “sentire cum Ecclesia”. Ed è logico che sia così, perché non ci si può convincere che la Chiesa conciliare possa tornare ad essere la Chiesa cattolica di sempre, senza porsi in posizione di rottura con essa. Non si può anche solo supporre di “sentire cum Ecclesia” coltivando il sogno di un’altra Ecclesia. Un tempo questo accadeva ai modernisti, che logicamente venivano combattuti da una Chiesa ancora sveglia, oggi accade ai non modernisti, che altrettanto logicamente sono combattuti dalla Chiesa narcotizzata dal Vaticano II.
È quello che è accaduto ai FFII che, pur sforzandosi di “sentire cum Ecclesia”, con questa Chiesa conciliare, hanno inevitabilmente finito per rappresentare una possibilità di scandalo per questa stessa Chiesa, perché di fatto non si può “sentire cum Ecclesia”, oggi, coltivando nel cuore anche solo in parte la Chiesa di ieri, con la sua sacralità, con la sua pratica religiosa, con il suo distacco dal mondo, con la sua opposizione a questo mondo. Quello che invece si richiede oggi è il “sentire cum hac Ecclesia”, e il non farlo in toto costituisce una colpa grave da riparare: magari con un commissariamento.

Come si vede, tutta questa faccenda balneare in fondo si riduce ad un equivoco. È quello che sempre accade quando non ci si mette d’accordo prima sul significato delle parole che si usano per esprimere gli stessi concetti, o quando si usano le stesse parole per esprimere concetti diversi, che è poi l’altra faccia della stessa medaglia.
Dirsi cattolico, oggi, non è cosa scontata, perché dovrebbe significare che si appartiene alla Chiesa cattolica, ma di fatto oggi esiste sia la Chiesa cattolica sia la Chiesa conciliare, che non è cattolica e che tuttavia coincide con la prima relativamente alla gerarchia che la dirige. Se uno è cattolico aderirà alla Chiesa cattolica e sentirà estranea la Chiesa conciliare, ma nel dichiararsi rispettoso dell’attuale gerarchia, per ciò stesso sarà costretto a rispettare la Chiesa conciliare. Un equivoco di difficile soluzione che porta inevitabilmente alle censure canoniche o ai commissariamenti e che potrebbe essere risolto solo se il cattolico si decidesse, finalmente, a rispettare la gerarchia e contemporaneamente a riprendere, e se necessario a resistere, alla stessa gerarchia: rispettarla, non per quello che essa è, ma per quello che rappresenta, anche suo malgrado; riprenderla, osteggiarla e resisterle per ciò che essa è pastoralmente, liturgicamente, dottrinalmente. 
È questa un’annosa questione che continua a generare contrasti e perfino conflitti, perché, si dice, non si può riprendere la gerarchia: la gerarchia è la Chiesa. Se non fosse che la realtà dimostra che le chiese sono due, con la medesima gerarchia.
Impossibile anomalia?
Impossibile in tempi normali, quando il mondo e l’uomo seguivano ancora la semplice logica e mantenevano ancora il senso della realtà; possibilissimo in questi nostri tempi anormali e degenerati, dove il mondo moderno e l’uomo moderno seguono l’idealismo illogico e coltivano uno spiccato senso della fantasia e dell’irrealtà.
Ogni giorno ha la sua pena, dice il salmista; ad ogni pena il suo lenimento, aggiungiamo noi; ed oggi il lenimento per la pena dello stato disastroso in cui versa la Chiesa di Cristo, è la resistenza alla gerarchia conciliare.
Ma in che modo?
Seguendo quanto raccomandato nelle sette opere di misericordia spirituale, con particolare attenzione all’“insegnare agli ignoranti” e all’“ammonire i peccatori”; infatti, non si ha veramente misericordia del proprio fratello, se non si è disposti a riprenderlo, anche duramente se la mancanza lo esige, sia egli laico, chierico o religioso, prete, vescovo o papa. Ed è necessario fare questo con l’attenzione e il rispetto sempre dovuti al fratello e al suo stato, avendo cura di non eccedere e di non trascendere, preoccupati solo di chiamare ogni cosa col suo nome e di seguire il comandamento di Nostro Signore: «il vostro parlare sia “sì sì”, “no no”».

In conclusione, l’oggettiva “punizione” dei FFII, che ha suscitato una comprensibile sorpresa, nei fatti non differisce dagli altri provvedimenti adottati dalla moderna gerarchia conciliare nei confronti di altri Istituti legati della pratica tradizionale. Prima del 2000 fu il monastero benedettino di Le Barroux a subire i “consigli” dell’Ecclesia Dei, col beneplacito del cardinale Ratzinger. Nel 2000 toccò alla Fraternità San Pietro soggiacere all’imposizione illegittima di Roma, con la regia del cardinale Castrillon. Poi aCampos, che oggi concelebra e amministra la comunione sulla mano, almeno nelle celebrazioni diocesane. Poi ancora all’Istituto del Buon Pastore, di fatto obbligato a insegnare la nuova dottrina conciliare. Senza contare tutti i gruppi minori, ormai omologati al nuovo corso voluto dal moderno “popolo di Dio” e dediti alla difesa del Vaticano II. Cambiano i Papi, ma Roma suona sempre la stessa musica, così che è certo relativa la colpa del povero Francesco I a cui è toccato di emanare un decreto “non impugnabile” per fare allineare anche i FFII.
La verità è che con Roma non si scherza, e a ragione, perché Roma è Roma, e nessuno può permettersi il lusso di supporre che possa essere domata: è Roma che doma. Né ci si può illudere che Roma possa essere condizionata: è Roma che condiziona. Né ci si può permettere la licenza di immaginare che Roma possa essere riformata: è Roma che riforma. Né ci si può permettere il lusso di sognare che Roma possa accettare la Tradizione e il suo diritto di stigmatizzare le innovazioni: è Roma la tradizione “vivente” ed è Roma l’innovazione.

Ogni altra supposizione è mero esercizio dialettico, dietro il quale può insinuarsi e nascondersi ogni sorta di mala volontà o di colpevole ingenuità.

Il cattolico fedele ha il dovere di ricordare sempre che non c’è conciliazione e accordo possibile, fra la Verità e l’errore, fra la Tradizione e la modernità, fra la Fede e la miscredenza, fra i seguaci del Dio che si è fatto uomo e i seguaci dell’uomo che si fa Dio. Nulla partem!, diceva Mons. Marcel Lefebvre, lui che era romano fin nelle midolla e che proprio per questo fuggiva la Roma modernista come la peste.

Dice il Signore Gesù:
«Ecco: io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe. Guardatevi dagli uomini, perché vi consegneranno ai loro tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe» (Mt. 10, 16-17).

di Belvecchio

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