“GUERRE FRATRICIDE PIENE DI MENZOGNE, FATTE PER VENDERE ARMI” - LA MACCHINA DA SOLDI DEGLI ARMAMENTI ILLEGALI
Il Papa, non troppo incisivo nel giorno del digiuno, ieri ha fatto un’accusa pesantissima contro gli Usa: “Guerre fratricide piene di menzogne, fatte per vendere armi” - Prodotte in Europa e USA, comprate da Africa, Medio Oriente e Asia - Il mercato ufficiale vale centinaia di miliardi, quello illegale pure…
1. IL PAPA: "FANNO LE GUERRE PER VENDERE ARMI"
Paolo Rodari per "La Repubblica"
Paolo Rodari per "La Repubblica"
Papa Francesco toglie la terra sotto i piedi di Barack Obama che, rivolgendosi alla nazione, aveva giustificato l'eventuale attacco in Siria come un gesto doveroso, ammantato di motivazioni umanitarie. «Questa guerra è davvero una guerra per qualcosa o serve a vendere le armi del commercio illegale?», ha chiesto ieri a bruciapelo Francesco parlando a braccio durante un Angelus nel quale ha messo in chiaro cosa egli pensi dei venti di guerra in Siria e in tutto il Medio Oriente.
OBAMA ASSAD
«Occorre dire no all'odio fratricida e alle menzogne di cui si serve, alla violenza in tutte le sue forme, alla proliferazione delle armi e al loro commercio illegale», ha detto il Papa, forte del fatto che anche in Vaticano i dubbi sono tanti. Oltre il Tevere, infatti, c'è chi ricorda le armi chimiche mai trovate nell'Iraq dopo Saddam, quando l'amministrazione Bush intervenne mostrando prove rivelatesi false. Di qui l'ennesimo appello del Papa per la pace: «Cessi subito la violenza, si lavori con rinnovato impegno per una giusta soluzione al conflitto fratricida».
BERGOGLIO CON SCIARPA GAY
In Vaticano preghiera e diplomazia vanno sempre di pari passo. Francesco porta avanti entrambe, consapevole che occorre lavorare fino all'ultimo minuto disponibile per portare i potenti sulla strada della pace. A Damasco è stato il nunzio apostolico Mario Zenari a confermare alla Radio Vaticana che ogni intervento papale ha un valore anche politico: «Le parole del Papa peseranno», ha detto.
La cessazione immediata della violenza in Siria è il primo punto indicato dalla diplomazia pontificia in questi giorni. Ed è stato indicato anche agli ambasciatori riuniti due giorni fa in Vaticano per l'illustrazione della azione della Santa Sede nella crisi siriana. Sul commercio mondiale di armi, legale o illegale, la diplomazia papale conduce da tempo una forte azione anche in sede Onu.
VITTIME ARMI CHIMICHE SIRIA
Davanti a 100mila persone riunite in piazza San Pietro, Francesco ha offerto una fotografia del Medio Oriente che brucia. Ha chiesto «pazienza e perseveranza » per arrivare alla pace, non solo in Siria, ma anche Libano, Israele, Palestina, Iraq ed Egitto. «A che serve - si è chiesto - fare guerre, tante guerre se tu non sei capace di fare questa guerra contro il male? Questo comporta, tra l'altro, dire no all'odio fratricida e alle menzogne di cui si serve, alla violenza in tutte le sue forme, alla proliferazione delle armi e al loro commercio illegale».
Francesco è convinto che tutte le religioni possano unirsi nella lotta contro il male che «è in ciascuno di noi». La sua è una chiamata universale. Una "Ostpolitik" rivolta anche all'Islam, costruita sin dai tempi di Buenos Aires quando - l'ha confidato il cardinale Tauran - aveva inviato un sacerdote al Cairo per studiare l'arabo.
Il geniale Alberto Sordi ce l'aveva raccontato già nel 1974. «Finché c'è guerra, c'è speranza». Sono trascorsi quasi quarant'anni e siamo ancora lì. Nel frattempo il mercato delle armi è cresciuto senza pause. Da 1994 al 2010 è stato un crescendo. Alla faccia della crisi internazionale, non c'è Paese africano, asiatico, americano che non spenda cifre da capogiro per rifornire i propri arsenali.
SIRIA V2
Secondo il rapporto annuale redatto a Stoccolma, soltanto nell'ultimo anno c'è stato un rallentamento. Le vendite hanno subito un piccolo calo del 5%, scendendo dai 412 miliardi di dollari del 2010 ai 410 del 2011. Però ha inciso sulle statistiche la fine della guerra in Iraq e l'inizio del ritiro dall'Afghanistan. Infatti cala leggermente il peso degli Stati Uniti, ma crescono Russia e Cina.
MISSILI SIRIANI
Le cifre in ballo sono gigantesche. E dai dati si consideri che sono escluse le aziende produttrici di armi della Cina in quanto non sono disponibili cifre ufficiali. La Cina in verità è in piena corsa al riarmo. Ma il discorso vale per tutta l'area del Pacifico. E per il Medio Oriente. Ci sono Paesi quasi spopolati, ma ricchissimi di petrolio che devono obbligatoriamente tutelarsi. L'insegnamento di Saddam Hussein che invade il vicino non lo dimenticheranno più. Di qui il continuo shopping in armi di Arabia Saudita, Kuwait, Emirati.
PORTAEREI VARYAG
Gli europei, al confronto, sono sparagnini. Noi soprattutto produciamo e vendiamo. Le fabbriche inglesi, tedesche, francesi e italiane sgomitano in questo campo. Solo per restare all'Italia, considerando che le industrie pubbliche Finmeccanica e Fincantieri sono i principali protagonisti del settore, ma non solo, perché sono apprezzatissimi anche Iveco e Beretta, si stima che in dieci anni abbiamo incassato 36 miliardi di euro. E quindi va bene la riprovazione, ma si consideri anche che quelle che producono armi sono tra le poche che non delocalizzano (non potrebbero), che investono nella ricerca, sia pure non tutta a fin di bene, e che continuano a dare lavoro. Questione tornata di attualità con il progetto F35.
PORTAEREI AMERICANA
Discorsi che fanno orrore al mondo dei pacifisti. Ben presenti, al contrario, a chi ha responsabilità di governo. Ne parlavano ieri, per esempio, dal palco della Festa nazionale Pd con i sottosegretari allo Sviluppo, Claudio De Vincenti, e alla Difesa, Roberta Pinotti. E in quell'occasione Giuseppe Bono, Fincantieri, diceva: «Il commercio passa per mare. Ma poi quel mare va presidiato. E allora ricordatevi che occorrono navi militari». Gli faceva eco anche Alessandro Pansa, Finmeccanica: «Noi rappresentiamo un grande patrimonio italiano prima che aziendale e siamo presenti sulla frontiera tecnologica».
La spesa militare, inutile dirlo, è una delle leve che i governi utilizzano più volentieri per indirizzare gli investimenti. L'ambito militar-industriale è espressamente esentato dalle regole di trasparenza e concorrenza in sede europea. E questi sono i risultati: il Rapporto di Stoccolma del 2012 ha segnalato la sostanziale stabilità della spesa militare mondiale, che rappresenta il 2,5% circa del prodotto interno lordo globale, con un costo medio di 249 dollari per ogni abitante del pianeta. Gli Stati Uniti rimangono in testa alla classifica (711 miliardi di dollari, pari al 41% del totale mondiale), seguiti da Cina (143 miliardi), Russia (71,9 miliardi), Regno Unito (62,7 miliardi), Francia (62,5 miliardi), Giappone (59,3 miliardi), India (48,9 miliardi) e Arabia Saudita (48,5 miliardi).
Fin qui i dati ufficiali. C'è poi l'interrogativo di Bergoglio che non si può eludere. «Questa guerra è davvero una guerra per problemi o una guerra commerciale per vendere queste armi nel commercio illegale?», si chiedeva ieri Papa Francesco. Impressiona, per dire, l'impennata di importazioni di armi leggere e portatili (che comprendono pistole, fucili, pure bazooka e lanciamissili) nei Paesi vicini alla Siria, tipo la Turchia, la Giordania o Cipro. Tutte armi che sono rimaste in quei Paesi o sono finite clandestinamente oltreconfine?
Non è da oggi che il mondo cattolico tiene sotto osservazione il mercato e i mercanti delle armi. Sono i missionari, che vedono con i lo occhi lo spreco di denaro nei Paesi sottosviluppati, che lo denunciano a voce più alta. Un dossier della rivista «Missione Oggi», spulciando tra le esportazioni di armi autorizzate da Paesi dell'Unione europea nel quinquennio 2006-2010, documentava l'enorme massa di acquisti da parte di Arabia Saudita (12 miliardi di euro in spese militari), Emirati Arabi Uniti (9 miliardi), India (5,6 miliardi), Pakistan (4 miliardi), Venezuela (1,6 miliardi), Cina (1,2 miliardi), Egitto (1,1 miliardi), Libia (1 miliardo).
La lotta dei vescovi americani contro la guerra di Obama in Siria
09 - 09 - 2013Fabrizio Anselmo
Negli Stati Uniti si fanno incandescenti i rapporti fra i cattolici e il presidente americano
Circa centomila persone presenti in Piazza San Pietro si sono unite per ben quattro ore allapreghiera di Papa Francesco contro il possibile intervento armato in Siria. La veglia di preghiera, unitamente alla giornata di digiuno, ha rappresentato l’apice dei tentativi del Pontefice di impedire lo scoppio di una guerra che potrebbe presto rivelarsi più pericolosa di quanto si possa immaginare. Un evento, quello di sabato scorso, che è stato preceduto da numerosi appelli rivolti da Papa Francesco in occasione dell’Angelus e dell’udienza del mercoledì. Sembra però che il presidente americano Obama voglia continuare per la propria strada, aspettando solamente il voto del Congresso, che dovrebbe arrivare nei prossimi giorni. Una guerra, quella che Obama si prepara a lanciare contro la Siria, che sembra spaccare sotto alcuni punti di vista il mondo cattolico americano.
L’invito della conferenza episcopale statunitense
Con i primi venti di guerra, è stata la conferenza dei vescovi statunitensi a mobilitarsi per cercare di contrastare l’azione militare contro la Siria progettata dal presidente Obama. Sono stati, infatti, i vescovi americani a decidere di rivolgersi direttamente ai cattolici, ed in particolare ai cattolici “elettori”. In una lettera pubblicata sul sito della United States Conference of Catholic Bishops (Usccb), i vescovi americani hanno invitato espressamente i cattolici a mettersi in contatto con i loro rappresentanti di riferimento al Congresso e fare “pressioni” su di loro affinché votino contro la richiesta del presidente Obama. In particolare, nell’appello si invitano i cattolici a chiedere “di votare contro la risoluzione che autorizza l’uso della forza militare in Siria quale risposta all’atroce attacco con armi chimiche condotto su civili innocenti”. Con la richiesta, ovviamente, di appoggiare un’azione condotta dagli Stati Uniti stessi al fine di ottenere un “immediato cessate il fuoco in Siria e per autentici ed inclusivi negoziati di pace”.
Con i primi venti di guerra, è stata la conferenza dei vescovi statunitensi a mobilitarsi per cercare di contrastare l’azione militare contro la Siria progettata dal presidente Obama. Sono stati, infatti, i vescovi americani a decidere di rivolgersi direttamente ai cattolici, ed in particolare ai cattolici “elettori”. In una lettera pubblicata sul sito della United States Conference of Catholic Bishops (Usccb), i vescovi americani hanno invitato espressamente i cattolici a mettersi in contatto con i loro rappresentanti di riferimento al Congresso e fare “pressioni” su di loro affinché votino contro la richiesta del presidente Obama. In particolare, nell’appello si invitano i cattolici a chiedere “di votare contro la risoluzione che autorizza l’uso della forza militare in Siria quale risposta all’atroce attacco con armi chimiche condotto su civili innocenti”. Con la richiesta, ovviamente, di appoggiare un’azione condotta dagli Stati Uniti stessi al fine di ottenere un “immediato cessate il fuoco in Siria e per autentici ed inclusivi negoziati di pace”.
La lettera del cardinale Dolan
Anche l’arcivescovo di New York Timothy Dolan, uno degli “artefici” dell’elezione di Papa Francesco, ha fatto sentire la sua voce. Il porporato americano, presidente della conferenza episcopale statunitense, ha infatti inviato, insieme al vescovo Richard Pates, presidente del Comitato sulla giustizia internazionale e sulla pace dell’Usccb, una lettera al Congresso. Un fatto, quest’ultimo, che ha trovato una grande eco sull’Osservatore Romano. Nella lettera, infatti, si fa riferimento agli appelli contro la guerra lanciati dal “successore di San Pietro, Papa Francesco, e dai nostri fratelli vescovi sofferenti delle venerabili ed antiche comunità cristiane del Medio Oriente”. Dolan e Pates, in particolare, chiedono di non “ricorrere ad un intervento militare in Siria” in quanto sarebbe “controproducente, aggraverebbe una situazione già tragica e porterebbe a conseguenze indesiderate” ricordando, tra l’altro, come “tali preoccupazioni trovino una forte risonanza nell’opinione pubblica americana mettendo in dubbio l’opportunità stessa dell’intervento”.
Anche l’arcivescovo di New York Timothy Dolan, uno degli “artefici” dell’elezione di Papa Francesco, ha fatto sentire la sua voce. Il porporato americano, presidente della conferenza episcopale statunitense, ha infatti inviato, insieme al vescovo Richard Pates, presidente del Comitato sulla giustizia internazionale e sulla pace dell’Usccb, una lettera al Congresso. Un fatto, quest’ultimo, che ha trovato una grande eco sull’Osservatore Romano. Nella lettera, infatti, si fa riferimento agli appelli contro la guerra lanciati dal “successore di San Pietro, Papa Francesco, e dai nostri fratelli vescovi sofferenti delle venerabili ed antiche comunità cristiane del Medio Oriente”. Dolan e Pates, in particolare, chiedono di non “ricorrere ad un intervento militare in Siria” in quanto sarebbe “controproducente, aggraverebbe una situazione già tragica e porterebbe a conseguenze indesiderate” ricordando, tra l’altro, come “tali preoccupazioni trovino una forte risonanza nell’opinione pubblica americana mettendo in dubbio l’opportunità stessa dell’intervento”.
Le tensioni con i cattolici dell’amministrazione Obama
Che il presidente Obama non sia particolarmente preoccupato della reazione del mondo cattolico americano non era difficile immaginarselo. Obama non è, a differenza di Kennedy, un cattolico e nell’ambito della sua presidenza si è spesso scontrato con l’elettorato cattolico, adottando politiche in contrasto con l’insegnamento della Chiesa su temi quali il matrimonio dei gay e l’aborto. Recente è, infatti, la battaglia tra i cattolici e l’amministrazione Obama per quanto riguarda la riforma sanitaria. Cattolici, però, sono i principali collaboratori del presidente Obama, e non solo. John Boehner, speaker del Congresso, è un cattolicissimo repubblicano dell’Ohio, particolarmente impegnato nella lotta contro l’aborto ed i matrimoni tra omosessuali. Ma cattolici sono anche il vice presidente americano Joe Biden, noto però per alcune sue posizioni non proprio “ortodosse”, quali l’equiparazione delle unioni gay ai matrimoni, il segretario di StatoJohn Kerry e il capogruppo dei democratici al Senato Nancy Pelosi. Ed anche Chuck Hagel, ministro della difesa, pur essendo ora vicino alla Chiesa episcopale, è un ex cattolico.
Che il presidente Obama non sia particolarmente preoccupato della reazione del mondo cattolico americano non era difficile immaginarselo. Obama non è, a differenza di Kennedy, un cattolico e nell’ambito della sua presidenza si è spesso scontrato con l’elettorato cattolico, adottando politiche in contrasto con l’insegnamento della Chiesa su temi quali il matrimonio dei gay e l’aborto. Recente è, infatti, la battaglia tra i cattolici e l’amministrazione Obama per quanto riguarda la riforma sanitaria. Cattolici, però, sono i principali collaboratori del presidente Obama, e non solo. John Boehner, speaker del Congresso, è un cattolicissimo repubblicano dell’Ohio, particolarmente impegnato nella lotta contro l’aborto ed i matrimoni tra omosessuali. Ma cattolici sono anche il vice presidente americano Joe Biden, noto però per alcune sue posizioni non proprio “ortodosse”, quali l’equiparazione delle unioni gay ai matrimoni, il segretario di StatoJohn Kerry e il capogruppo dei democratici al Senato Nancy Pelosi. Ed anche Chuck Hagel, ministro della difesa, pur essendo ora vicino alla Chiesa episcopale, è un ex cattolico.
I principali collaboratori di Obama, quindi, sono ferventi cattolici uniti, però, da un unico filo in comune: tutti quanti, infatti, hanno più volte manifestato il proprio parere favorevole all’intervento armato in Siria, senza farsi quindi troppo influenzare dai vari appelli di Papa Francesco.
Ma i cattolici americani sono veramente contro l’intervento armato in Siria?
Limitandosi a leggere gli appelli provenienti dalla conferenza episcopale statunitense e dal cardinale Dolan sembrerebbe che i cattolici americani abbiano una posizione verso l’intervento militare meno ambigua rispetto a quella tenuta in occasione dell’attacco all’Iraq. C’è chi, però, come il vaticanista dell’Espresso Sandro Magister ritiene che la situazione non sia proprio così chiara come sembra. Magister, infatti, sottolinea come “l’insieme del mondo cattolico degli Stati Uniti non sembra avere brillato per prontezza nel rispondere all’appello del Papa”. Il vaticanista dell’Espresso ricorda come “ancora tre giorni dopo il primo appello di Papa Francesco, se si andavano a vedere le home page delle più importanti diocesi USA, cioè quelle che nella loro storia hanno avuto almeno un cardinale, si scopriva che solo in tre su dieci era riportato l’annuncio della giornata di preghiera e digiuno lanciato dal Papa”. Inoltre, in un commento sul suo blog personale, il cardinale Dolan si è espresso sull’intervento militare in termini più possibilisti: “Il Signore sa, come le maggiori potenze del mondo, che noi abbiamo il dovere di ricordare alle nazioni, con la forza se necessario, che certe linee di inumano comportamento non possono essere tollerate”.
Limitandosi a leggere gli appelli provenienti dalla conferenza episcopale statunitense e dal cardinale Dolan sembrerebbe che i cattolici americani abbiano una posizione verso l’intervento militare meno ambigua rispetto a quella tenuta in occasione dell’attacco all’Iraq. C’è chi, però, come il vaticanista dell’Espresso Sandro Magister ritiene che la situazione non sia proprio così chiara come sembra. Magister, infatti, sottolinea come “l’insieme del mondo cattolico degli Stati Uniti non sembra avere brillato per prontezza nel rispondere all’appello del Papa”. Il vaticanista dell’Espresso ricorda come “ancora tre giorni dopo il primo appello di Papa Francesco, se si andavano a vedere le home page delle più importanti diocesi USA, cioè quelle che nella loro storia hanno avuto almeno un cardinale, si scopriva che solo in tre su dieci era riportato l’annuncio della giornata di preghiera e digiuno lanciato dal Papa”. Inoltre, in un commento sul suo blog personale, il cardinale Dolan si è espresso sull’intervento militare in termini più possibilisti: “Il Signore sa, come le maggiori potenze del mondo, che noi abbiamo il dovere di ricordare alle nazioni, con la forza se necessario, che certe linee di inumano comportamento non possono essere tollerate”.
Un ultima mossa per Papa Francesco?
Potrebbe essere un’ipotesi piuttosto remota, ma pur sempre un’ipotesi. Papa Francesco potrebbe, infatti, decidere di inviare una persona di stretta fiducia a parlare con il presidente Obama per convincerlo a desistere dall’intervento militare. Un compito che potrebbe essere affidato al nunzio a Washington, Carlo Maria Viganò, o al cardinale Jean Luis Tauran, uomo di esperienza diplomatica che gode della totale fiducia del pontefice. E’ stato proprio Tauran a recarsi recentemente ad Amman per partecipare al summit sulla condizione dei cristiani in Medio Oriente. Un’ipotesi, quella dell’incontro col presidente Obama, che potrebbe ricalcare quanto fece Giovanni Paolo II prima dell’attacco americano all’Iraq. Il Papa polacco, infatti, inviò il cardinale Pio Laghi a Washington per incontrare il presidente Bush alla Casa Bianca nel tentativo di convincerlo a desistere. Ma la risposta di Bush fu lapidaria: “Sua Eminenza non abbia paura. Lo faremo rapidamente e nel modo migliore possibile”.
Potrebbe essere un’ipotesi piuttosto remota, ma pur sempre un’ipotesi. Papa Francesco potrebbe, infatti, decidere di inviare una persona di stretta fiducia a parlare con il presidente Obama per convincerlo a desistere dall’intervento militare. Un compito che potrebbe essere affidato al nunzio a Washington, Carlo Maria Viganò, o al cardinale Jean Luis Tauran, uomo di esperienza diplomatica che gode della totale fiducia del pontefice. E’ stato proprio Tauran a recarsi recentemente ad Amman per partecipare al summit sulla condizione dei cristiani in Medio Oriente. Un’ipotesi, quella dell’incontro col presidente Obama, che potrebbe ricalcare quanto fece Giovanni Paolo II prima dell’attacco americano all’Iraq. Il Papa polacco, infatti, inviò il cardinale Pio Laghi a Washington per incontrare il presidente Bush alla Casa Bianca nel tentativo di convincerlo a desistere. Ma la risposta di Bush fu lapidaria: “Sua Eminenza non abbia paura. Lo faremo rapidamente e nel modo migliore possibile”.
http://www.formiche.net/2013/09/09/la-lotta-dei-vescovi-americani-la-guerra-obama-siria/
L’action alert dei vescovi americani contro la guerra di Obama
Dolan e il fronte cattolico sperano in una soluzione pacifica in Siria. Una proposta alternativa ad Assad
Dolan e Obama, ancora una volta contro.Non c’entrano nulla le battaglie su aborto, fine vita, legalizzazione delle nozze tra omosessuali. L’oggetto del contendere, stavolta, è il destino della Siria. Mentre il presidente democratico si appresta a chiedere al Congresso il via libera per l’attacco “limitato” e “punitivo” contro il regime di Bashar el Assad, il capo dei vescovi americani si fa portavoce di chi, oltreoceano, si oppone all’operazione militare su Damasco. La guerra non s’ha da fare, tuona l’arcivescovo di New York, che raccomanda a tutte le diocesi del paese di amplificare con ogni mezzo e in ogni forma il grido di Papa Francesco per la pace – quasi tutte si sono adeguate, seppur con tempi non sempre rapidi. Quella della Conferenza episcopale americana è una vera “action alert, una chiamata all’azione”, scriveva giovedì scorso l’Osservatore Romano, organo ufficiale della Santa Sede. Una mobilitazione che deve portare i cattolici a premere sui rappresentanti e senatori di riferimento a Capitol Hill affinché neghino l’autorizzazione all’attacco. Si tratta di una presa di posizione “sorprendentemente netta”, dice un vaticanista di lungo corso come l’americano John Thavis: “E’ una campagna politica contro un piano proposto direttamente dal presidente”. E se in passato gli screzi erano maturati sui cosiddetti princìpi non negoziabili, ora a dividere il Vaticano dalla Casa Bianca c’è la guerra.
La Conferenza episcopale americana sta mettendo in campo un’offensiva ad ampio spettro: se da una parte invita i fedeli a ricordare ai propri rappresentanti che tra un anno si andrà alle urne per rinnovare tutta la Camera e un terzo del Senato – e che quindi è meglio pensarci bene prima di dare l’assenso a un nuovo conflitto al di là dell’Oceano –, dall’altra chiede al segretario di stato John Kerry di togliersi l’elmetto e di ammorbidire la propria posizione, fin qui la più determinata a punire Assad. Al numero uno della diplomazia di Washington – che è cattolico, a differenza di Obama –, i vescovi chiedono di perseguire “la strada del dialogo e del negoziato fra tutte le componenti della società siriana, con l’appoggio della comunità internazionale”. E’ questa, si legge nella lettera firmata da mons. Richard E. Pates, presidente della commissione episcopale Giustizia e pace, “la sola opzione che possa condurre alla fine del conflitto”. L’auspicio è quello di “edificare in Siria una società inclusiva che protegga i diritti di tutti i suoi cittadini, inclusi i cristiani e le altre minoranze”. Concetti identici a quelli espressi giovedì a Roma dal segretario per i Rapporti con gli stati, mons. Dominique Mamberti. E’ il segno che tra le alte gerarchie cattoliche americane e il Vaticano non c’è difformità di vedute, stavolta.
Dieci anni fa, la storia seguì un copione del tutto diverso. Il vaticanista John Allen ricorda sul National Catholic Reporter ciò che qualche giorno fa ha scritto sul suo blog mons. Robert Lynch, vescovo di St. Petersburg, Florida: “Purtroppo la chiesa cattolica diede a George W. Bush il via libera e l’episcopato non reagì con forza in difesa del Beato Giovanni Paolo II” che lanciava appelli dalla finestra del suo studio per scongiurare la guerra in Iraq. Certo, ricorda ancora Allen, anche allora la posizione era per lo più contraria, ma al di là della dichiarazione del 2002 secondo cui una guerra americana a Baghdad non poteva poggiarsi sui princìpi della guerra giusta, non c’è stato molto di più. Le cose, oggi, sono cambiate. Innanzitutto, scrive ancora il vaticanista del National Catholic Reporter, l’opinione pubblica americana non vuole una nuova guerra in medio oriente. La rabbia del dopo 11 settembre, ancora viva nel 2003, oggi è stemperata, ridotta a ricordo. C’è poi l’eterna battaglia con il liberal di Chicago succeduto a George W. Bush, e in larga parte dell’episcopato ogni occasione è propizia per contrapporsi alle politiche del presidente che ha mostrato e mostra tuttora scarsa considerazione per le questioni eticamente sensibili care alla chiesa cattolica. Infine – ed è forse l’elemento principale su cui si fonda la posizione della Conferenza episcopale presieduta dal cardinale Timothy Dolan – nel corso degli ultimi anni si è rafforzata l’idea che le guerre nel vicino e medio oriente abbiano portato a un aumento sensibile delle persecuzioni contro i cristiani. Non è un caso che negli Stati Uniti abbia avuto vasta eco quanto dichiarato nei giorni scorsi dal vescovo caldeo di Aleppo, Antoine Audo: “Noi abbiamo sentito parlare molto di democrazia e libertà in Iraq da parte degli Stati Uniti, e adesso vediamo i risultati, come il paese è stato distrutto. I primi a soccombere sono stati i cristiani. Non vogliamo che ciò si ripeta in Siria”.
La proposta di un ultimatum
Se al momento tra i vertici dell’Amministrazione l’offensiva dell’episcopato locale non sta dando risultati – anche la dubbiosa Nancy Pelosi, già speaker alla Camera dei rappresentanti, si è allineata al presidente – qualche spiraglio si intravede al Congresso. Molta fiducia è infatti riposta dalla Santa Sede – e l’Osservatore Romano ne dà notizia oggi in prima pagina – alla bozza di risoluzione alternativa a quella di Obama preparata dai senatori Joe Manchin e Heidi Heitkamp, entrambi cattolici e democratici. Il documento prevede che gli Stati Uniti concedano quarantacinque giorni di tempo al rais di Damasco per sottoscrivere la messa al bando delle armi chimiche (cosa che la Siria ha sempre rifiutato di fare). Solo al termine di questo lasso di tempo trascorso senza segnali positivi dal presidente siriano, scatterebbe l’azione militare. Un ultimatum sul quale, a Roma come pure ai vertici dell’episcopato guidato da Dolan, sperano possano convergere i cattolici al Congresso ancora indecisi e titubanti se concedere o meno il via libera alla risoluzione varata dalla Casa Bianca.
Dieci anni fa, la storia seguì un copione del tutto diverso. Il vaticanista John Allen ricorda sul National Catholic Reporter ciò che qualche giorno fa ha scritto sul suo blog mons. Robert Lynch, vescovo di St. Petersburg, Florida: “Purtroppo la chiesa cattolica diede a George W. Bush il via libera e l’episcopato non reagì con forza in difesa del Beato Giovanni Paolo II” che lanciava appelli dalla finestra del suo studio per scongiurare la guerra in Iraq. Certo, ricorda ancora Allen, anche allora la posizione era per lo più contraria, ma al di là della dichiarazione del 2002 secondo cui una guerra americana a Baghdad non poteva poggiarsi sui princìpi della guerra giusta, non c’è stato molto di più. Le cose, oggi, sono cambiate. Innanzitutto, scrive ancora il vaticanista del National Catholic Reporter, l’opinione pubblica americana non vuole una nuova guerra in medio oriente. La rabbia del dopo 11 settembre, ancora viva nel 2003, oggi è stemperata, ridotta a ricordo. C’è poi l’eterna battaglia con il liberal di Chicago succeduto a George W. Bush, e in larga parte dell’episcopato ogni occasione è propizia per contrapporsi alle politiche del presidente che ha mostrato e mostra tuttora scarsa considerazione per le questioni eticamente sensibili care alla chiesa cattolica. Infine – ed è forse l’elemento principale su cui si fonda la posizione della Conferenza episcopale presieduta dal cardinale Timothy Dolan – nel corso degli ultimi anni si è rafforzata l’idea che le guerre nel vicino e medio oriente abbiano portato a un aumento sensibile delle persecuzioni contro i cristiani. Non è un caso che negli Stati Uniti abbia avuto vasta eco quanto dichiarato nei giorni scorsi dal vescovo caldeo di Aleppo, Antoine Audo: “Noi abbiamo sentito parlare molto di democrazia e libertà in Iraq da parte degli Stati Uniti, e adesso vediamo i risultati, come il paese è stato distrutto. I primi a soccombere sono stati i cristiani. Non vogliamo che ciò si ripeta in Siria”.
La proposta di un ultimatum
Se al momento tra i vertici dell’Amministrazione l’offensiva dell’episcopato locale non sta dando risultati – anche la dubbiosa Nancy Pelosi, già speaker alla Camera dei rappresentanti, si è allineata al presidente – qualche spiraglio si intravede al Congresso. Molta fiducia è infatti riposta dalla Santa Sede – e l’Osservatore Romano ne dà notizia oggi in prima pagina – alla bozza di risoluzione alternativa a quella di Obama preparata dai senatori Joe Manchin e Heidi Heitkamp, entrambi cattolici e democratici. Il documento prevede che gli Stati Uniti concedano quarantacinque giorni di tempo al rais di Damasco per sottoscrivere la messa al bando delle armi chimiche (cosa che la Siria ha sempre rifiutato di fare). Solo al termine di questo lasso di tempo trascorso senza segnali positivi dal presidente siriano, scatterebbe l’azione militare. Un ultimatum sul quale, a Roma come pure ai vertici dell’episcopato guidato da Dolan, sperano possano convergere i cattolici al Congresso ancora indecisi e titubanti se concedere o meno il via libera alla risoluzione varata dalla Casa Bianca.
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