Il problema è che otto anni più tardi, il Papa che, per i discepoli di Alberigo, finalmente fa fiorire attese e speranze create da quello spirito che soffia da mezzo secolo sull’ecclesia universa, scrive in castigliano una lettera a Marchetto, il critico per eccellenza della Scuola di Bologna, definendolo il “più grande ermeneuta del Vaticano II”. E non si tratta di una nota prestampata a omaggiare il pensiero del presule, così come viene fatta emergere da un libro appena uscito, “Primato pontificio ed episcopato. Dal primo Millennio al Concilio ecumenico Vaticano II - Studi in onore dell’arcivescovo Agostino Marchetto”, edito dalla libreria vaticana. Una raccolta costituita da “una varietà legittima di posizioni nel grande solco della ricezione corretta del Concilio”. Contraltare, a suo modo, del pamphlet appena uscito di Melloni, “Quel che resta di Dio”.
Quella lettera papale è qualcosa di più, un apprezzamento che corona una conoscenza datata: “Conosco il Papa dai tempi in cui condividevamo la residenza nella Casa internazionale del Clero di via della Scrofa, dove risiedeva il cardinale Bergoglio quando veniva a Roma”, dice al Foglio Marchetto: “Io sono nella stanza 204 e lui, in genere, stava nella stanza 203. Si parlava, io gli davo i miei scritti e lui aveva la bontà di mandarmi alcuni suoi discorsi che teneva a Buenos Aires. Inoltre, sono stato invitato in Argentina quando lui era presidente della Conferenza episcopale locale a parlare della pastorale della mobilità umana in occasione di un incontro con i vescovi”.
Melloni, a proposito del Concilio, osservava come un cattolico non può non riconoscere ciò che esso ha portato in termini di rinnovamento. Ma è qui che il segretario emerito del Pontificio consiglio per la pastorale dei migranti e gli itineranti contesta: “Non è esatto dire ‘del rinnovamento’. Benedetto XVI parla dell’ermeneutica della riforma o del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto chiesa. La questione è o riforma o rottura, discontinuità. La tendenza della rottura è rappresentata solo da una parte, diciamo progressista all’estremo”.
“Non si può dire che questo pensiero sia proprio del solo Papa Benedetto XVI”, precisa. Con la lettera in cui Francesco lo definisce “il miglior ermeneuta del Concilio” – “Io pensavo di non farla leggere, per vari motivi”, ma il Papa ha replicato: “No, per favore, lei la fa leggere” –, “mi sembra di poter dire che il Santo Padre si metta nella linea della riforma nella continuità dell’unico soggetto chiesa. Bisogna che ci mettiamo tutti su questa linea”, aggiunge l’arcivescovo vicentino.
L’antagonismo fra spirito e lettera del Concilio, diceva Melloni al Foglio, è una polemica vecchia. Oggi, aggiungeva, “un’altra questione è stata agitata da mons. Marchetto per tentare di descrivere due partiti: uno sarebbe rappresentato dalla ricerca sul Vaticano II che ne segnala gli elementi di rinnovamento; l’altro sarebbe quello della continuità, araldo di un cattolicesimo immobilista che non è mai esistito nella realtà e nella dottrina”. Dopotutto, parlare di Spirito del Concilio non è blasfemia, se fu Giovanni Paolo II, nel 1985, a riconsacrarlo all’uso “insieme all’analoga espressione ‘grande grazia del XX secolo’”. La teoria, l’auspicio del Vaticano II come nuova Pentecoste. A essere terreno di contesa è da sempre il metodo seguito nell’interpretazione del Concilio. Marchetto contesta l’uso delle fonti ad usum delphini, sul fronte opposto si ricorda il contributo di esperti internazionali, storici e teologi che all’opera di Alberigo hanno dedicato anni di lavoro e ricerca. Il fatto è, spiega al Foglio Marchetto, che “c’è una gerarchia delle fonti. Io non dico che non si devono consultare i diari dei Padri e dei periti. Gli atti conciliari sono quelli che devono essere considerati come luce del cammino. Per esempio, per la Scuola di Bologna si dice chiaramente che gli autori hanno avuto la possibilità di accedere a tutte le fonti presenti nella loro biblioteca. Ma ciascun autore poteva scegliere ciò che voleva, sulla base del proprio parere. Questo indica una certa parzializzazione che deve essere riscattata necessariamente dalla consultazione degli atti del Concilio. Gli atti degli organi direttivi sono stati consultati molto poco. L’ultimo è apparso nel 1999. Ebbene, la storia già era avviata grazie ai diari privati”. Questo, aggiunge il prelato, “è il momento di riprendere la storia, la più obiettiva possibile, veritiera, del Concilio. Perché solo con questa è possibile un’ermeneutica corretta e per conseguenza c’è la ricezione giusta del Vaticano II. Bisogna vedere se è la ricezione del Concilio o se è la ricezione di qualcos’altro, una creatività che deve essere controllata nel senso che sia fedele a quello che è stato questo avvenimento straordinario che io chiamo Magno”. Nessun pregiudizio in relazione all’assise aperta nel 1962, tutt’altro.
Il punto è che non si può prendere del Vaticano II ciò che si vuole, enfatizzando alcuni aspetti e tacendone altri. E’ il caso della collegialità episcopale, del Sinodo che si vorrebbe permanente. “Il Concilio – dice mons. Marchetto – ha parlato di collegialità in senso stretto o in senso largo. Se uno parla di comunione, e non dice mai comunione gerarchica, non è nella linea del Concilio Vaticano II. Questa è la grande questione. C’è ancora questa realtà ideologica, da un’estremità e dall’altra, che deve essere vinta se vogliamo un’ermeneutica corretta nella linea fondamentale della chiesa cattolica della continuità nella Tradizione e nei cambiamenti che ci sono stati”. Fondamentale è comprendere però che “la questione non è continuità vs. discontinuità. Nella riforma devono esserci anche cambiamenti. La questione è rottura nella discontinuità o riforma nella continuità dell’unico soggetto chiesa”.
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