Depressioni
IN ALCUNE IMMAGINI SPARSE ~
Difficile rappresentarsi Agostino che parla con le cadenze di un pretoriano o che si muove come un attore dei Lupercalia.
Oggi invece vediamo dei bravi preti ricorrere nelle omelie alle
locuzioni più corrive, cantare alla sanremese sull’altare, mimare le
mossette dei personaggi televisivi. A furia di allontanarsi dalle
regole, da quel rigido, sacro, cerimoniale che è la liturgia, si
finisce a fare i fantasisti, come si diceva una volta, i generici
intrattenitori del teatro di varietà.
Non è questione di sentimento, la mancanza della cogente forma latina, del vetus ordo, genera - anche con le più devote intenzioni - delle ridicolaggini mondane. Basta un microfono in mano, il cosiddetto «gelato» (per evidente somiglianza al cono di cialda), perché un piissimo parroco si trasformi in un presentatore televisivo, costretto dai linguaggi del mondo, dal suo discorso pubblico che è la pubblicità, ad atteggiarsi a uomo di spettacolo, a rigirarsi con cotta e stola mentre parla ai ragazzi, a scendere i gradini dell’altare, andare verso la platea, far domande al ‘pubblico’, aspettarsi le risate per le ironie che sparge predicando, intonare canzoni come nei riti festivalieri, dondolarsi, danzicchiare sui motivetti devozionali, dare ogni tanto le spalle al tabernacolo e ogni tanto al pubblico, fermarsi per un po’ su un gradino o scendere precipitosamente e correre verso il fondo della chiesa, senza altro motivo che attrarre l’attenzione sulla sua persona, sulla sua espressività, comportarsi insomma come un ‘conduttore’, leader del suo pubblico piuttosto che ministro di Dio. Il modello è sempre la televisione generalista, il web è troppo avveniristico (si arriva trafelati ai perpetui aggiornamenti e si resta perpetuamente indietro di una battuta, di una stagione). Piccoli scarti a parte, esultino gli aggiornatori, non c’è più differenza tra modo di parlare di chi celebra il sacrificio divino e quello dei conversatori del talk show, tra l’intonazione del canto solenne, che vuole pareggiare gli angeli, e la musica da bordello. Assai simili i prodotti, diversa la qualità. Al solito, inarrivabile il modello rispetto agli imitatori, meglio la star televisiva del pretino che prova a recitare, meglio gli abiti di scena che le casule in tessuto sintetico, meglio, mille volte meglio, il pezzo rock che il melenso jingle parrocchiale. Meglio anche la scenografia elettronica, l’architettura virtuale, che quei capannoni tristi tirati su in opposizione ideologica ai capolavori di Michelangelo o di Bernini, meglio l’illuminazione ideata dal light designer, gli spazi che si contraggono e si espandono attraverso la luce (sogno d’ogni barocco), che quell’arredamento piccolo borghese con le asimmetriche lanternine che dovrebbero evocare le catacombe e sono souvenir da bancarella dell’Appia antica. È qui che voleva arrivare il Concilio? A umiliare il gusto dei cristiani? A brutalizzare la bellezza per ascetismo che sconfina nel masochismo? Il fedele che non ama ridursi a spettatore, prova un senso di demoniaca depressione. Entrato in chiesa per pregare, si trova a essere pubblico di uno spettacolino da oratorio, a fare coro in canzonette assai povere di spirito. Tra teatro e liturgia c’è meno consonanza di quel che immagina lo sgraziato innovatore postconciliare quando guarda con sospetto ai cerimoniali ‘tridentini’. Non sanno, quei reverendi in sempiterna rincorsa dell’innovazione mondana, quei poveri imitatori del volto più cheap del moderno già tramontato, che il fascino del contemporaneo, che pur esiste, passa altrove.
Non è questione di sentimento, la mancanza della cogente forma latina, del vetus ordo, genera - anche con le più devote intenzioni - delle ridicolaggini mondane. Basta un microfono in mano, il cosiddetto «gelato» (per evidente somiglianza al cono di cialda), perché un piissimo parroco si trasformi in un presentatore televisivo, costretto dai linguaggi del mondo, dal suo discorso pubblico che è la pubblicità, ad atteggiarsi a uomo di spettacolo, a rigirarsi con cotta e stola mentre parla ai ragazzi, a scendere i gradini dell’altare, andare verso la platea, far domande al ‘pubblico’, aspettarsi le risate per le ironie che sparge predicando, intonare canzoni come nei riti festivalieri, dondolarsi, danzicchiare sui motivetti devozionali, dare ogni tanto le spalle al tabernacolo e ogni tanto al pubblico, fermarsi per un po’ su un gradino o scendere precipitosamente e correre verso il fondo della chiesa, senza altro motivo che attrarre l’attenzione sulla sua persona, sulla sua espressività, comportarsi insomma come un ‘conduttore’, leader del suo pubblico piuttosto che ministro di Dio. Il modello è sempre la televisione generalista, il web è troppo avveniristico (si arriva trafelati ai perpetui aggiornamenti e si resta perpetuamente indietro di una battuta, di una stagione). Piccoli scarti a parte, esultino gli aggiornatori, non c’è più differenza tra modo di parlare di chi celebra il sacrificio divino e quello dei conversatori del talk show, tra l’intonazione del canto solenne, che vuole pareggiare gli angeli, e la musica da bordello. Assai simili i prodotti, diversa la qualità. Al solito, inarrivabile il modello rispetto agli imitatori, meglio la star televisiva del pretino che prova a recitare, meglio gli abiti di scena che le casule in tessuto sintetico, meglio, mille volte meglio, il pezzo rock che il melenso jingle parrocchiale. Meglio anche la scenografia elettronica, l’architettura virtuale, che quei capannoni tristi tirati su in opposizione ideologica ai capolavori di Michelangelo o di Bernini, meglio l’illuminazione ideata dal light designer, gli spazi che si contraggono e si espandono attraverso la luce (sogno d’ogni barocco), che quell’arredamento piccolo borghese con le asimmetriche lanternine che dovrebbero evocare le catacombe e sono souvenir da bancarella dell’Appia antica. È qui che voleva arrivare il Concilio? A umiliare il gusto dei cristiani? A brutalizzare la bellezza per ascetismo che sconfina nel masochismo? Il fedele che non ama ridursi a spettatore, prova un senso di demoniaca depressione. Entrato in chiesa per pregare, si trova a essere pubblico di uno spettacolino da oratorio, a fare coro in canzonette assai povere di spirito. Tra teatro e liturgia c’è meno consonanza di quel che immagina lo sgraziato innovatore postconciliare quando guarda con sospetto ai cerimoniali ‘tridentini’. Non sanno, quei reverendi in sempiterna rincorsa dell’innovazione mondana, quei poveri imitatori del volto più cheap del moderno già tramontato, che il fascino del contemporaneo, che pur esiste, passa altrove.
Scorrere i titoli nel reparto ‘Religione’ di
una libreria è un’afflizione. Chi cerca spunti per riflettere
sull’Assoluto si deve accontentare delle agiografie dei «preti dei
trans» e dei porporati che incensano i pensieri dell’uomo della strada.
Le guerriglie ormai spente nella narrativa e nella saggistica
sopravvivono pateticamente nell’editoria di questi scaffali. Anche
graficamente riappaiono le copertine ‘gridate’ di stagioni lontane
decenni, si rincorrono le declinazioni della frusta parola rivoluzione,
ci aggrediscono con le piccole violenze verbali di teologi che ancora
dialogano con il marxismo (forse sarebbe più preciso dire: che invidiano
il marxismo). Adesso si è aggiunta l’orda dei volumi sul vescovo
argentino di gran moda. I libri che parlano di lui si confondono con
quelli direttamente attribuiti a lui. Mai si vide un illetterato pastore
divenire in poche settimane autore di così prolifica letteratura. A
raccogliere e rilegare gli sciatti opuscoli di intervistine, chiacchiere
varie, telefonate e sms, insomma una catena di instant books (il
massimo della mercificazione nel settore), si supererebbe agevolmente
per numero di volumi l’opera omnia del magistero pacelliano. Se a
tutt’oggi c’è qualcuno che non ha capito granché della faciloneria
imperante nella cultura contemporanea potrebbe meditare sul fatto che il
papa tedesco e fine teologo non conquistò mai le librerie, gli editori
non pensando di far soldi pubblicando per esempio le sue lezioni
universitarie, mentre oggi, essendo più vendibile la ciancia vuota, la
frase fatta, la carezza all’ovvietà, ogni battuta di questo nuovo attore
protagonista dell’apparato giornalistico viene stampata. Avevano
proprio ragione i frati quattrocenteschi di cui si faceva cenno
nell’«Almanacco» del 16 ottobre di quest’anno: la stampa ricorre agli
adescamenti delle cortigiane.
Eppure non è soltanto questione di mercato.
Impressionante nella visita a questi reparti è la scomparsa dei grandi
nella cultura cattolica. Piuttosto una sottocultura che colora con il
misticismo solidaristico la logica laica. Non è la prima volta ma le
dimensioni della sconfitta attuale fanno paura. La tradizione sembra
confinata ai blog, ai commenti stizziti. E non soltanto per persecuzione
editoriale. Salvo le solite, striminzite, eccezioni, che cosa offre più
l’Italia cattolica? E il resto dell’Europa se la passa meglio?
Per fortuna che la tradizione cattolica
affascina ancora i veri letterati, cosicché sfogliando gli scritti di un
sapiente contemporaneo, esplicitamente gnostico, si trovano perle ormai
rare, almeno di non scandalizzarsi per i sincretismi eretici: non ci si
può sostituire al Sant’Uffizio, che non c’è più, e nel mare delle
approssimazioni teologiche, nelle parodie clericali delle parole
d’ordine politicanti, si sappia scegliere un verbo che almeno si nutre
di intelligenza ed eleganza. Aprendo dunque un pesante tomo vagamente
reclamistico, Adelphiana (1963-2013), testé uscito per celebrare
con quasi mille pagine il mezzo secolo della casa editrice, si legge un
passo di Guido Ceronetti dedicato alla sua amica Cristina Campo: «Delle
conversazioni con lei ricordo un tema che le bruciava: i riti violati,
la sua repulsione implacabile per lo stravolgimento dei riti cattolici,
voluto dal Concilio attuato definitivamente da Papa Montini. Repulsione
anche mia; e non si è addolcita con l’assuefazione e con gli anni.
L’abolizione della Messa tridentina, la sparizione del predicatore sui
pulpiti, il gregoriano ammutolito, degradato ad attrazione per turisti
acustici, anch’io, quantunque fuori dalla Chiesa, li ho patiti come un
sinistro sfregio. Quei riti erano dei protettori e dei messaggeri.
Potevi pensare: “non voglio quella protezione non è quello il messaggio”
e tuttavia vederli imbarcare per il Nulla creò, tra i non indifferenti,
tutto un popolo di orfani… Non fu la Chiesa soltanto, a perderci, in
questa automutilazione atroce.
«Proseguendo con la geniale interlocutrice,
al di là dei confini materiali e visibili, quei nostri commenti di
allora, questo direi, oggi: in grandi prove di demenza c’è un senso
nascosto e lo spirito del tempo non risparmia niente e nessuno. Che
abbia subito, la Messa occidentale, una contraffazione snaturatrice,
questa è la pura evidenza. Ma è anche per mistero di iniquità diventata introvabile,
ha cambiato la propria realtà reale di simbolo sacrificale in
un’innominata realtà virtuale. Quante cose non sono ormai che delle
realtà virtuali?
«A poco a poco si farà strada la luce. Quel
latino rituale non era un addobbo, un contenitore sonoro, un abito
logorabile: era quel che, nello spazio spirituale occidentale tratteneva
la Messa all’interno del reale, la sua casa dell’essere, era quel che la faceva, in occasioni prescritte, trovare; era il rito stesso, la stessa Messa. E tra parole-substantia
e parole di vento c’è un bel tratto di abisso… Potrei anche dire a
Cristina (approvante, senza dubbio): il Cristo Sofferente nella materia,
che comprese e incarnò l’apostolo Mani, doveva passare per tale prova
di abiezione come dentro a una chiodatura impensata della sua Passione
perpetua (Isaia 53), ed è perciò al Verbo perpetuamente violato e non al
rito stoltamente tradito che dev’essere addirizzato il nostro
bendaggio, offerto il nostro sudario di malcerte, improvvisate (provvide
però, sempre) Veroniche» (pp. 356-357).
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