ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

sabato 14 dicembre 2013

La fine della monarchia papale

dmmnrl
Duomo di Monreale. Sullo sfondo, 
l’immagine del Cristo Pantocratore

Il 4 dicembre, nell’Aula Magna dell’abbazia di S.Giustina a Padova, Andrea Riccardi ha proclamato davanti ad un vasto uditorio la fine della monarchia papale.
Il suo ruolo di fondatore di un grande movimento “ecclesiale” nonché una intensa attività di mediatore in terra africana sarebbero bastati a dare autorevolezza al discorso, se lo stesso eletto al soglio pontificio non si fosse prodigato fin dal primo momento, come è noto, per soddisfare tante aspettative in materia.
Aspettative coltivate e propagandate, oltrechè naturalmente dai maitres à penser del progressismo “cattolico”, specialmente negli istituti di cultura religiosa.
Per questo, l’ambiente in cui la proclamazione ufficiale è avvenuta era sicuramente il più adatto alla definitiva liquidazione di quel modello di ministero petrino, che pure è stato costituito da Gesù Cristo con la consegna delle chiavi del Regno e la potestà di sciogliere e legare, senza obbligo di pareri preventivi o giri di consultazioni.
Ma la lettera evangelica, come è noto, è una fonte a cui attingere a piacimento e da interpretare come serve.
Pochi anni orsono, quando ancora non era stato riscoperto il vincolo dell’obbedienza, in una affollata conferenza organizzata ad hoc proprio a S.Giustina, il Summorum Pontificum venne presentato da un lato come la patetica espressione di una ubbia senile, dall’altro come il possibile allarmante segno di un possibile ritorno del sacro, capace di mettere in pericolo la secolarizzazione in via di compimento. Il tutto tra l’elegiaco rimpianto per Don Balducci e le beffarde esecrazioni della antica estetica liturgica (che a Santa Giustina è stata sostituita dalla estetica sterilizzata della filologia protocristiana).
Quando c’è da parlare di svolte storiche, bene o male a S.Giustina ci si avvale sempre di voci autorevoli: allora, per il commento al motu proprio, era stato chiamato Umberto Galimberti di Repubblica; ora, per la fine della monarchia, l’onnipresente rappresentante laico della chiesa universale.
Ha fatto da spalla al professor Riccardi l’alacre Andrea Tornielli, autore di approfondite (auto)biografie papali, che anni fa denunciava con oculatezza l’eccessiva attenzione concessa dalle gerarchie ecclesiastiche ai temi della bioetica. Preoccupazione che oggi, evidentemente, non ha più tanto ragion d’essere.
Ad una monarchia liquidata a forza succede, per antitesi, la democrazia, secondo quel modello originale greco di governo del popolo che prevede, sulle indicazioni di Erodoto, l’uguaglianza dei diritti, l’alternanza e la responsabilità delle cariche, la sottomissione al pubblico di tutte le deliberazioni che interessano la polis; ma che pone anche il problema della sapienza e della capacità di chi agisce quando ci sia un esercizio diffuso del potere, nonché quello dei limiti di tale potere. Dopo le tirannie del novecento che per ironia della sorte erano nate con la pretesa mai sconfessata di essere la più diretta espressione della volontà popolare, l’Europa ha potuto coniugare il principio democratico dei liberatori con quello autoctono dell’89 e lo ha assunto a proprio mito fondativo non più rivedibile.
La moderna teologia filoprotestante, ossessionata da decenni da quel mito, ne ha fatto un valore assoluto applicabile a qualunque realtà sociale, e quindi anche alla Chiesa, senza curarsi della istituzione divina di questa e del fatto che la democrazia nella Chiesa è anzitutto una aporia teologica perchè presuppone la opinabilità e la mutevolezza dei contenuti di fede, come ha sempre insistito Ratzinger in innumerevoli scritti.
Inoltre, quando si pretende di applicare il sistema “democratico” alle cose della fede, mentre viene messa in pericolo la sua essenza veritativa si va a spogliare autoritativamente anche il fedele di tutta una esperienza spirituale, morale ed intellettiva. Lo si va a spogliare, con arbitraria superbia, di una intera esperienza di vita.
Infatti una vera e propria spoliazione è stata quella realizzata a sorpresa già da mezzo secolo con una rivoluzione liturgica che, mentre cambiava d’autorità il rapporto con un Dio al quale non ci si doveva più inginocchiare, e che si poteva finalmente tenere in mano, sottraeva al quivis de populo anche la sua storia. Ma di questo aspetto i novatori non si diedero affatto pena, come tutti quelli che nuocciono al prossimo per il bene e senza il parere del beneficato. E quella che ne uscì spogliata fu la stessa vita cristiana.
Infatti, per descrivere lo stesso cristianesimo si poteva persino prescindere dal suo inarrivabile patrimonio di pensiero. In qualche modo a renderne l’essenza bastava quella esperienza famigliare di cui J. Ratzinger ha disegnato ne “La mia vita” un quadro esemplare. Una esperienza che si dipanava tra il dover essere della vita cristiana quotidiana, e la bellezza del sacro: questa ti veniva incontro e abbracciava il tuo piccolo essere nel raccoglimento della antica pieve come nello spazio magnifico della grande chiesa. Il bambino veniva protetto nel buio dall’angelo custode, e le campane di Pasqua sollevavano l’anima ad una altezza indicibile. Dopo la tensione sospesa del Venerdì Santo.
Dalle mie parti, terra di colline, in città come nei paesi di campagna, c’era uno spazio erboso in posizione elevata, un luogo deputato in cui, per tradizione, allo scioglimento delle campane di Pasqua, che avveniva a mezzogiorno del Sabato Santo, bambini e adulti andavano a rotolarsi in segno di gioia. Un gesto antico che faceva sorridere i colti, ma mostrava in sé tutto il senso vissuto del mistero pasquale. Una gioia lontana da quella che ogni giorno viene con insistenza proclamata e assicurata a chi non sa più bene in cosa deve credere e confidare.
C’era una dote che ciascuno aveva ricevuto e poteva trasmettere magari inconsapevolmente, magari fra la tentazione della ribellione e il disconoscimento di quei legami antichi. C’erano gli infiniti spazi e la profondissima quiete della cattedrale eterna che ti rapiva, ti ammaliava, ti commuoveva.
Quel patrimonio di fede non veniva intaccato dalla cattiva professione dei suoi uomini, consacrati o meno che fossero, perché li sovrastava. Il cristianesimo ti sosteneva anche quando, per una qualche vicenda interiore, credevi di averlo abbandonato. Esso era pronto a riceverti di nuovo, e lo ritrovavi senza averlo ricercato tra i muri secolari di quella antica abbazia, intrisi di rispetto, di speranza dolente e di silenzio, o nelle altezze vertiginose delle cattedrali erette da tante mani d’uomini. In quella storia eterna che ti aveva preceduto e che sarebbe continuata dopo di te, perché, come diceva Ratzinger, eterno non è ciò che non ha limiti di tempo, ma ciò che è fuori del tempo.
Eppure di questa storia eterna alcuni uomini, come cavalieri dell’apocalisse, ci hanno spogliati. Non hanno usato il linguaggio forte e arrogante del nemico, contro il quale puoi prendere le armi per difenderti mantenendo così anche la dignità della sconfitta. Sono venuti armati di parole senza contenuto, e il povero cristiano è stato immerso da allora in un mare di parole la cui insignificanza doveva essere appagante perchè intelligibile da tutti. Hanno spogliato gli altari e trasformato le chiese in sale da concerto. Che hanno spezzato il mio legame di fede con quelli che mi hanno preceduto e mi hanno sottratto la loro eredità e hanno consegnato la mia storia alla macina del nulla. Il tutto per il mio bene e per il bene del popolo.
Volenti o nolenti tutti, fedeli e sacerdoti, siamo stati deportati in un altra religione dove, tutto potendo essere messo in discussione, comandamenti, dogmi e morale, piano piano si è cominciato ad onorare la tirannia della libertà in nome della carità.
In nome della democrazia e della libertà si è annullata d’autorità l’esperienza individuale e la storia comune, in nome della povertà è stata abrogata la bellezza, in nome di una gioia senza oggetto ci si è privati della speranza dell’eternità, in nome dell’esistere è stato appannato il dover essere.
E’ stata spezzata la catena che legava ogni esistenza alle generazioni passate e la saldava a quelle successive.
Ecco perchè è necessario chiudere la parabola con la trasformazione ufficiale della monarchia papale in democrazia rappresentativa. Un processo iniziato quarant’anni fa con qualche esitazione, interrotto dalle velleità assolutistiche di due pontefici ancien régime, e finalmente rimesso in moto energicamente da un nuovo e sincero rappresentante del popolo tout court.
Ora, sempre per amore del popolo, il pastore si è già messo dietro al gregge perchè le pecore sanno andare da sole verso lupi indisturbati. E non possono neppure cantare come i cristiani nell’arena, che guardavano in alto, confortati perchè si sentivano guidati e custoditi in eterno.
Chiunque abbia lavorato ottusamente alla distruzione della monarchia papale e pensa oggi di poter portare a compimento un buon lavoro, con singolare orgoglio pretende anche di assolvere un compito evangelico. E lo fa anzitutto in nome del popolo sovrano e della sua nuova Chiesa. Che democraticamente si è investita del potere di mangiare, come Crono, i propri figli.

– di Patrizia Fermani

Riscossa Cristiana
di Patrizia Fermani
.

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.