Colloquio di Papa Francesco con i Superiori Generali
(La Civiltà Cattolica – 04 gennaio 2014)
ANNOTAZIONE
Il testo de La Civiltà Cattolica: Svegliate il mondo, sul quale ci basiamo per queste nostre considerazioni, è stato reso pubblico e accessibile sul sito della rivista, con in testa e in calce la seguente annotazione: “Questo articolo è sotto copyright de @ La Civiltà Cattolica e non può essere riprodotto, se non per brevi citazioni, senza permesso scritto.” Per questo, noi qui ci riferiremo al detto documento, riducendo al minimo le citazioni, e invitando i fedeli a scaricarlo direttamente dal sito della rivista. Sembra una contraddizione, se non fosse che si tratta di una cosa ordinaria nel mondo di oggi, che è ricco di contraddizioni e se ne vanta. |
All’adunata dei Superiori Generali che, incerti, disorientati gli chiedono come, dove e quando svolgere la propria vocazione, papa Bergoglio risponde consigliando la “testimonianza”.
“Io mi attendo la vostra testimonianza… dovete essere veramente testimoni di un modo diverso di fare e di comportarvi… la vita è complessa, è fatta di grazia e di peccato. Se uno non pecca, non è uomo”.
Che cosa c’è dietro simile generica indicazione? Quale il “modo diverso” di fare e di comportarsi? E quali proposte seguono a questa direttiva?
Nel seguito del colloquio il papa lascia il discorso inevaso trascurando anche quei temi, quelle modalità, quella metodologìa che, nel mondo contemporaneo, secondo l’ottica pastorale del Vaticano II, è necessario mettere a fuoco ed adottare, tanto per rispondere alle “sfide” che il mondo stesso lancia alla Chiesa. Tutto è generico.
Dietro a queste osservazioni vaghe ed indistinte c’è, lo dicemmo nel primo commento, la constatazione palese ed innegabile di un fallimento ecclesiale che data dal 1963. C’è la presa d’atto che, da quell’anno infausto, dal quale e per il quale dovevano sprillare acque sorgive di fede, sbocciare primavere, aleggiare aria finalmente fresca, irrompere una novella pentecoste, niente di tutta questa attesa s’è verificato.
Alla critica dei cardinali Ottaviani e Bacci, al grido di allarme di Mons. Marcel Lefebvre, alle profonde e serie analisi condotte da Mons. Brunero Gherardini, al poderoso scavo storico condotto dal prof. Roberto de Mattei, si aggiunge l’ottimo studio di Cristina Siccardi - L’Inverno della Chiesa dopo il Concilio Vaticano II – Sugarco Edizioni 2013 - che dimostra come e perché la crisi gelida che attanaglia la Katholika scaturisca da quell’evento. “ In molti, ormai, paragonano la nostra epoca a quella del IV secolo, quando sant’Atanasio pronunciava queste parole < Oggi, è l’intiera Chiesa che soffre. Il sacerdozio è vilipeso oltre ogni dire e – quel che è peggio! – il santo timore di Dio viene beffeggiato da un’empia irreligiosità… La fede non ha avuto il suo inizio da oggi, ma ci è venuta dal Signore, tramite i suoi discepoli. Che non si abbandoni, dunque, ai nostri giorni, quella tradizione, conservata nelle chiese fin dal principio; né siamo noi infedeli a ciò che ci è stato affidato!” (op. cit. 4a di copertina).
Tempi fieri, quelli del IV secolo che travolsero uomini di Chiesa, rischiando di naufragare per l’ottusa smania di “aggiornarsi”. Né più né meno di oggi, con in più l’aggressività dei massmedia che, consapevoli del proprio potere, sembrano dirigere la linea programmatica della Chiesa. Solo che allora, nel IV secolo, la fede e la chiara visione del ruolo missionario della Chiesa, presenti e vive nel cuore e nella mente di santi dottori, seppero resistere ai marasmi dell’eresìa.
Il papa chiede testimonianza. Di che? Come? Da chi? Quando?
Domande niente affatto oziose perché lo spettacolo, che purtroppo ci scorre davanti, conferma lo stato volatile di taluni valori – santità, zelo, esempio, catechesi, spiritualità – di nulla consistenza. Intanto: chi è il testimone, dov’è il pastore, colui che deve “guidare Giuseppe come un gregge” (Ps. 79, 1)? Come riconoscerlo tra tanti volti e tra tante figure? Non ci si prenda per superficiali nostalgici – anzi, sì! – ma l’elemento primario, visibile che identificava il sacerdote, quale testimone, era la sacra talare che, ad onta di quel becero detto secondo cui l’abito non fa il monaco, gli ricordava, invece, la propria consacrazione davanti a Dio e davanti agli uomini. E lo distingueva.
Ci piace, a questo proposito, raccontare ai lettori un episodio di cui fu parte interessata un sacerdote il quale, anni or sono ce ne parlò. Trovàvasi, costui, in fine mese di luglio e in piena canicola, in un ristorante parigino e, naturalmente, l’abbigliamento era coordinato al clima: pantaloni leggeri e camicia. A poca distanza da lui, seduto davanti a un tavolo, sostava un anziano sacerdote vestito di quelle talari antiche, nere e con la fila anteriore di bottoni rossi. Sudava e, ad intervalli, si asciugava col fazzoletto quando, ad un certo momento, gli si avvicinò un uomo, di età inoltrata e in evidente stato di sofferenza interiore. Cominciò, tra i due, un dialogo, con il sacerdote paternamente proteso verso l’altro e questi a testa china, docilmente ascoltando. Finito che fu e andatosene l’uomo, il giovine sacerdote si avvicinò e, con cortese sorriso, presentatosi quale “collega”, gli chiese perché mai, in un luglio così afoso, se ne stesse nella talare che il Concilio, con decisione al passo dei tempi, aveva ritenuto di renderla facoltativa, di fatto eliminandola. L’anziano prete gli ripose: “Vedi, caro amico e collega. Io non voglio che quel giorno, andato su e trovandomi davanti a Lui, Egli mi chieda: dov’eri quando avevo bisogno di te?”.
Il giovane, capito il significato di quella risposta rimase in silenzio. Da quel giorno egli indossa l’abito tradizionale, la talare, perché, ci confessò, essa “mi distingue come persona consacrata” e perché c’è sempre qualche anima, in treno, per la strada, al ristorante, nel supermercato, per il mondo e per le sue “periferie”, bisognosa della parola di un buon sacerdote, e solo l’abito talare lo rivela.
Testimonianza è l’esercizio santo del confessionale, luogo di sofferenza e di ristoro, di dolore e di resurrezione, ridottosi a mobile polveroso, chiuso, inespressivo fatto oggetto di sguardi curiosi e non per carenza di preti, ché invece affollano “concelebranti” le sante Messe, specialmente quelle televisive, ma per assimilata cultura relativistica, per assenza di catechesi. Imposta l’immagine di Dio esclusivamente misericordioso ed eliminato il concetto di giustizia divina, la cattolicità – clero e fedeli - ha, lentamente, assimilato la convinzione luterana dell’autoassoluzione, del diretto rapporto personale Dio/peccatore senza l’intermediazione del confessore. Diversamente non si spiega come mai la più parte di coppie conviventi, di divorziati risposati e, addirittura, noti massoni accedano alla Santa Eucaristia senza scrupolo alcuno. In tal caso testimonianza sarebbe l’intervento perentorio del sacerdote che, invece di perdersi, durante l’omelia, in sociologiche analisi, in disquisizioni economiche, in ragguagli su libertà/uguaglianza/fraternità, parlasse finalmente di peccato, di grazia, di sacrificio, di morte, di giudizio, di inferno e di paradiso.
La parola convince, l’esempio trascina, afferma un detto popolare. Ed infatti, la indecorosa scena di un cardinale – Angelo Bagnasco – che, per colmo di oscenità, amministra la santa Eucaristia a un transessuale dichiarato, praticante ed impenitente nonché buddista, nella gazzarra di un funerale “politico” – le esequie del prete Andrea Gallo – altro non fa che indurre il fedele nella convinzione che chiunque, e in qualunque stato interiore, può accedere al Sacramento.
Non è certo testimoniare la fede quando papa Bergoglio dichiara di avvertire, quale “mia sofferenza, la mancanza degli amici e il costo altissimo di fare il papa” (Il Messaggero – 20 gennaio 2014 ).
Forse è per questa “mancanza di testimonianza” che è nata la salottiera questione della “solitudine del prete”. Quando abbiamo letto tale notizia ci siamo ricordati di quel monito forte e severo di Cristo che, a una domanda dei discepoli, risponde: “Non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi a causa mia e del vangelo, che non riceva già al presente cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e padri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e nel futuro la vita eterna” (Mc. 10, 29/30 ), “Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, sua moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo” (Lc. 14,26/27 ).
Noi, tuttavia, crediamo che un sacerdote possa avvertire il sentimento della nostalgìa, lo stesso che avverte, ad esempio, chi lascia per motivi varii il luogo natìo, l’emigrante o, nella fattispecie, il giovane seminarista che rinuncia al mondo per dedicarsi al Signore. E’ un sentimento che poi, nel seguito di una vita vissuta al servizio di Dio e degli uomini, si attutisce per dar luogo all’entusiasmo di sentirsi in comunione con Lui, di sentirsi “eletti”. Probabilmente anche papa Bergoglio avverte questa amarulenta sensazione così come sente il peso della sua missione. Ne parlò, a suo tempo, Dante quando, per bocca di Adriano IV affermava: “ Un mese e poco più prova’io come/pesa il gran manto a chi dal fango il guarda/ che piuma sembran tutte le altre some” (Purg. XIX, 103/105) a dimostrazione che taluni incarichi – in questo caso il papato – non van presi come avanzamenti di carriera ma come oneri aggiunti di servizio. E che oneri!
Avremmo, però, gradito che il papa ci avesse confessato, tuttavia, di vivere la pienezza di vita nel Signore, avremmo preferito che avesse, poi, espresso la propria più acuta sofferenza per la incessante persecuzione a che son fatti segno i cristiani nel mondo. Avremmo preferito che un suo messaggio avesse recato sollievo e conforto ai cattolici dell’India ove, nel 2013, si son verificati oltre 4000 casi di persecuzione, “abusi e percosse su 1000 donne, su 500 bambini e 400 preti, oltre 100 attacchi a chiese e luoghi di culto cristiano” (Avvenire 24 gennaio 2014 ), avremmo preferito che avesse espresso la condanna più aspra contro gli autori di queste gesta e non avesse sprecato tempo a salutare e ad adulare i papaveri dell’alta finanza, riuniti a Davos (Svizzera ), per il 44° incontro annuale del World Economic Forum auspicando un’equa quanto utopistica redistribuzione della ricchezza “che sia al servizio dell’umanità e non la governi” (O. R. 22 gennaio 2014).
Qualche lettore potrebbe obiettare che compito del pontefice cattolico è anche quello di dare direttive di dottrina sociale. Certamente, siamo d’accordo, ma a noi sta più a cuore un intervento deciso contro le persecuzioni che non il blandimento verso potentati finanziarii che, guarda caso, a Davos esprimono la cifra della più netta lobby ingorda e vorace dei plutocrati.
Chi è il WEF e chi si riunisce a Davos? Cosa discutono? Quali scopi si prefiggono? In nome di chi e di che cosa si muovono?
Il WEF è un club, fondato da Klaus Schwab, personaggio legato ai vari Bilderberg, Trilateral, CFR, Earth Council, B’nai B’erith, Fabian Society, Round Table, Pilgrim’s Society, Lucis Trust, radicato e nutrito, come le predette istituzioni, nel brodo di cultura massonica e che “ha come (fumosa) missione dichiarata di supportare e mettere in grado la gente di costruire un futuro più sicuro, equo e sostenibile” (Epiphanius – Massoneria e sètte segrete – Ed. Controcorrente 2008 - pag. 615 ) e ai cui incontri annuali, a Davos appunto, si ritrovano tutti gli esponenti del così detto “Big Business”: i Rockefeller, i Rothschild, gli Oppenheimer, i Soros, i Monti – quello benedetto dalla CEI - la banca Lazard; gente che gestisce l’ideale della sinarchia e a cui non importa uno iota delle necessità vive e reali del popolo.
Se promuovere campagne per l’aborto, per l’eutanasìa, per l’uso libero della droga, per la legalizzazione della sodomia, per la famiglia dissolta, sostenute con un flusso finanziario senza limiti è qualcosa di cattolico, allora fa bene il papa ad indirizzare a costoro il suo messaggio. Ma, siccome, lapalissiana è la connotazione luciferina di questi convegni, sarebbe il caso che la Santa Sede si astenesse dal dedicare melliflui e irenici appelli, tanto più che nel messaggio inviato il 17 gennaio scorso, chi volesse trovare il nome di Dio e di Gesù o una gagliarda presenza cattolica, esclusi due accenni all’Evangelii Gaudium e all’enciclica Caritas in veritate di Benedetto XVI, e un breve pistolotto a pro’ dei poveri annegato in un mare di circonlocuzioni convenzionali, rimarrebbe deluso.
Rispetto, diplomazia, consapevole distinzione laicità/religione, reverenza o viltà? Dal che si comprende come in nulla, siffatto messaggio, si discosta da un altro di stampo laicista- onusiano ove le cure e le apprensioni sono rivolte all’uomo nella specificità materiale, immanente e presente.
Notiamo poi come, per questo evento, papa Bergoglio abbia impartito la “benedizione divina sui partecipanti al Forum, come pure alle famiglie ed attività” (O. R. cit. ), invertendo quel criterio che, nella sua prima udienza alla stampa del 16 marzo 2013 – cfr. www.unavox.it – Papa Francesco: Udienza alla stampa – lo aveva indotto a limitarsi ad una benedizione silenziosa in segno di rispetto verso quei giornalisti non credenti. I partecipanti del Forum di Davos, diciamolo chiaramente, non sono cattolici, eppure hanno lucrato una pontificia e divina benedizione “scriptis et apertis verbis”, altro che in silenzio!
Da ciò si ricava che, come afferma il papa, la vita è complessa e cangiante nelle sue varie continue evoluzioni, circostanze e cambi di prospettiva. Ciò che non valeva lo scorso anno, vale per questo e viceversa. Ma, soprattutto, “la vita è fatta di grazia e di peccato”. Del che non abbiamo dubbio, consapevoli come siamo della condizione di precarietà in cui il peccato di Adamo ha gettato la natura umana. Dissentiamo, però, da quel falso sillogismo con cui papa Bergoglio afferma che “se uno non pecca non è uomo”. Dissentiamo, perché la cosa non è così apodittica come sembra in quanto, pur consapevoli che lo stato degradato della natura porta l’uomo a peccare, diverso è il ragionamento corretto: poiché la natura umana è corrotta dalla macchia d’origine, essa può cadere in peccato se Dio non la soccorre. Nel Pater Noster si prega, infatti, affinché Egli non ci induca in tentazione. Tentato, l’uomo che non si provveda dell’aiuto di Dio, potrebbe peccare facilmente proprio perché la sola sua volontà non sarebbe sufficiente a resistere. Ma il sillogismo, così come emesso dal papa, sta a dire che il peccato è la condizione necessaria per realizzare l’essere uomo. Cosa che ci ricorda molteplici dottrine, di matrice gnostica, che fanno dell’esperienza volontaria del male un metodo di purificazione. Valgano, a titolo di informazione: il sabbatismo, il frankismo, il catarismo, i moderni esoterismi di Crowley, Wirth, Doinel, i Fratelli del Libero Spirito dei quali, ad esempio, si narra che “dopo anni di neofitato durissimo, attraverso la pratica dell’atarassìa raggiunta per mezzo di asperrime penitenze, ottenevano la condizione psichica desiderata. A quel punto tutto era loro permesso perché si consideravano superiori perfino a Dio stesso. La coscienza dell’onnipotenza raggiunta trasformava l’adepto in un essere perfettamente amorale (turlupin)… menzogna, furto, omicidio, incesto, sodomia e altro: tutto questo era vissuto e incoraggiato come atto <santo>” (Norman Cohn, I fanatici dell’apocalisse - cit. in Rino Cammilleri: I mostri della ragione 2 – ed. Ares 2005, pag 131).
Non vorremmo essere irriguardosi ed impudenti, ma aver, papa Bergoglio, dichiarato ad alcuni giovani sacerdoti, d’aver fatto uso di marijuana, nel lontano 1954 quando esercitava il ruolo di “buttafuori in un locale malfamato di Cordoba” (Il Corriere del Mattino 05 gennaio 2014 ), sembra dare forza al suo sillogismo di cui s’è detto per cui, ben conoscendo la strategìa dei massmedia, siffatta notizia darà maggiore impulso alla cultura moderna che predica la liberalizzazione delle droghe così dette “leggere”.
Domanda: chi non fuma marijuana, è un uomo/uomo o non lo è?
Risposta: chi non fuma marijuana è un uomo che ha resistito alla trasgressione e tale resta, e chi fuma, o ha fumato, marijuana è un uomo che non saputo tener testa alla tentazione e tale resta. In entrambi i casi l’uomo è uomo ma con le differenze etiche legate alla circostanza.
Dovremmo dare credito all’ottimo Don Ennio Innocenti, che ci invita a non soffermarci troppo sulle parole di papa Bergoglio connotate di “modestia culturale”, a non preoccuparci per le tante contorsioni e rettifiche a cui padre Federico Lombardi deve ricorrere proprio in seguito alle tirate banali o paradossali del pontefice, o c’è dell’altro che ancora non appare?
Tornando al tema della testimonianza, apprendiamo che uno dei sistemi più idonei a realizzarla e a viverla è quello di “lasciare tutto per seguire il Signore. Non, non voglio dire <radicale>. La radicalità evangelica non è solamente dei religiosi, è richiesta a tutti”. Il papa ribadisce quanto Gesù stesso chiede a chi intende seguirlo e, perciò, niente di nuovo sotto l’aspetto della vera metodologia da seguire. Ciò che suona forte, e pienamente condivisibile, è l’accenno alla “radicalità” evangelica quale tensione richiesta a tutti, anche ai laici. Ora, però, se le parole hanno un loro significato inalterabile, radicalità indica un atteggiamento, una condotta, un modus vivendi che si attuano perseguendo dottrina, regole e linee di profondo livello, radicali cioè, nel segno dell’intransigenza. Queste regole, queste norme, questa dottrina sono i fondamenti inconcussi di ogni sistema culturale, politico, religioso. Papa Bergoglio accenna alla radicalità evangelica indicando, con ciò, l’impossibilità di seguire il Signore senza aderire a queste sue condizioni.
Sorprendentemente, qualche riga dopo, leggiamo che è necessario “ evitare il fondamentalismo ed illuminare il futuro” continuando col dire che “per me questo è importante davvero: bisogna conoscere la realtà per esperienza, dedicare un tempo per andare in periferia per conoscere davvero la realtà e il vissuto della gente. Se questo non avviene, allora ecco che si corre il rischio di essere astratti ideologi o fondamentalisti, e questo non è sano”.
Intanto è da dimostrare che la realtà e il vissuto siano esclusivo titolo delle periferie dacché anche nel centro delle città vive un’umanità che soffre, gioisce, pecca e prega. E, ad onor del vero, la Chiesa, e i suoi uomini, anche nei secoli passati e soprattutto in quelli e dopo, sono andati, per evangelizzare, tanto nei centri che nelle periferie del mondo – come ama ciclicamente ripetere il papa – affrontando rischi e pericoli, affermando la radicalità del Vangelo e ponendo i fondamenti del vivere civile e cristiano. Questo richiamo - lo ripetiamo - significa che lo spirito del Concilio non ha saputo infiammare gli uomini di Dio. Ma il papa non vuole il fondamentalismo cattolico segnalato e segnato come astrazione e ideologia, e tuttavia nutre una strana, ecumenica speciale attenzione e reverenza verso quello islamico a cui riconosce virtù e abbondanza di grazia. Noi sospettiamo che, sotto questa cautela, si nasconda l’ostracismo definitivo per ogni testimonianza alla Tradizione e per ogni cattolico che ad essa si riferisca.
Nel momento di concludere questa seconda ricognizione, ci vien dato di leggere, su giornali e sulla rete, le cronache degli esiti scaturiti dalla visita del presidente francese, Francesco Hollande, in Vaticano. L’argomento tocca il tema della “testimonianza”, quella che Gesù chiese ed ordinò ai suoi discepoli quale ferma condizione per dirsi e conformarsi tali. Ebbene, stando alla stampa laica e a quella cattolica, le notizie collimano a tal punto da non creare, in chi scrive, esagerazioni, equivoci o false attribuzioni. Infatti, si dice e si legge che l’incontro si è svolto nel classico e scontato clima cordiale e che “nel corso dei cordiali colloqui, è stato rilevato il contributo della religione al bene comune” (Radio vaticana – 24 gennaio 2014). Anche se “una lettera aperta al papa firmata da 110 mila cattolici francesi aveva espresso <profondo malessere> per le posizioni dell’Eliseo anche sulla bioetica… la tappa in Vaticano si è svolta in un clima cordiale. Lo scambio di doni, Hollande che saluta papa Francesco con un <à bientot>, a presto, è stato certamente utile a distendere le piccole tensioni della vigilia” (Il Giornale 25 gennaio 2014 pag. 12 ).
Si comprende come lo strumento del dialogo, che dura da 60 anni, non abbia prodotto, nelle nazioni laiche come la Francia, alcunché in termini di resipiscenza se ancora oggi la Chiesa si deve confrontare con le realtà dell’aborto, dell’omosessualità, dell’ateismo. E si continua, ottimisticamente, in climi di simpatia e di cordialità a darsi la baia nell’ipocrito gioco della comprensione reciproca, con l’evidente scivolamento della cattolicità verso posizioni laicistiche e mondane. Che cosa, infatti, ha generato quella lettera di 110 mila cattolici francesi? Soltanto un “profondo malessere”, che profondo quanto si voglia sempre è malessere a cui basta un’aspirina per lenirsi. Ci si sarebbe aspettati una rivolta, ma cosa volete: vada pure in malora l’etica e la dottrina ma si salvi il dialogo. Ed è, infatti, questo il risultato dell’incontro “tra papa Francesco e Hollande: Impegno a mantenere dialogo regolare tra Stato e Chiesa” (Radio Vaticana, cit.) Diciamolo chiaramente, senza perifrasi e reverenze: un fallimento, ma è bastato uno scambio di doni, un “a presto” per creare un’atmosfera di cameratismo. Hollande abortista, Hollande sostenuto dalla massoneria (Le Point - Le nouvel Observeur), Hollande che annovera nel suo governo 6 ministri massoni, Hollande che è il padre della nuova legge sui matrimoni omosessuali, Hollande poligamo? Ma che volete che sia! Egli ha convenuto, con l’omonimo Francesco papa, che, a dispetto di questi abissi etici che dividono la Chiesa di Cristo dal mondo, emerge dal dialogo, e si rileva, il positivo contributo della religione “al bene comune”. Paradossale!!!!!
Si può scommettere che, fra dieci anni, in una prossima visita in Vaticano, si avrà lo stesso scenario, lo stesso copione e la stessa vagonata di buone intenzioni, di ottimi proclami e di ipocrisia.
Si consiglia agli scodinzolanti Radio Vaticana, Avvenire, L’ Osservatore Romano di mantenere il cliché del titolo perché sarà lo stesso come forma e come contenuto.
Cosa doveva fare papa Francesco, in questa situazione ? domanderete.
Affermare e proclamare, a viso aperto, la condanna delle aberranti leggi che, nella fattispecie, la libertina Francia ha varato ed è in procinto di varare contro la volontà di Dio. Già, una parola! dopo che dal 1963 vige, nella Chiesa, l’ordine di non condannare l’errore ma di provvedere con la misericordia.
Ambrogio, santo e tosto vescovo di Milano, affrontò l’imperatore Teodosio autore di una carneficina in quel di Tessalonica, additandolo quale pubblico peccatore, lasciandolo fuori dalla chiesa ed esigendo aspra penitenza; Gregorio VII, a Canossa, fece attendere 3 giorni, all’addiaccio e sulla neve, l’impenitente imperatore Enrico IV; san Pio X non si abbandonò a dichiarazioni diplomatiche e velate per individuare ed estirpare la mala pianta del modernismo, ma la fulminò senza se e senza ma.
Esempi di forza della Chiesa Cattolica, e nitido tono di un parlare secondo “Si si no no” (Mt.5, 37).
Voi direte: altri tempi. Sì, ma anche: altri Papi!.
di L. P.
- parte seconda -(alla parte prima)
(segue)
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