Papa Francesco: la Pasqua sociale e impegnata di Bergoglio con lo sguardo già rivolto al viaggio in Terra Santa
Dopo una veglia temporalesca, il cielo di Roma si è affacciato su San Pietro terso e tirato a lucido, ma per il Papa sembrava già sera. L’ora della Pasqua di Francesco, Pontefice refrattario alla folla e sensibile ai volti: “Io riesco a guardare le singole persone, una alla volta, a entrare in contatto in maniera personale con chi ho davanti. Non sono abituato alle masse”, confidò al confratello padre Spadaro.
Così, al momento della benedizione, l’Urbe e l’Orbe hanno lasciato il posto ai due discepoli di Emmaus, protagonisti dell’epilogo pomeridiano, descritto da Luca nel suo Vangelo. Il mondo si è fermato in un villaggio a sette miglia da Gerusalemme. Assumendo i contorni geografici e il tratto somatico di nazioni straziate: l’Africa con i suoi demoni, anzitutto, il virus dell’ebola e quello della violenza, tribale e terroristica, efferata e incontrollabile. A seguire, il vicolo cieco della Siria e dell’Iraq, unitamente all’ennesimo, flebile bagliore in fondo al tunnel israelo-palestinese. Infine i due crateri che rischiano di esplodere nel cuore delle Europe e delle Americhe, l’Ucraina e il Venezuela.
Come il Cristo nella locanda, il suo vicario sa tuttavia che per farsi riconoscere, alla tavola esigente dell’umanità globalizzata, non bastano gli appelli e le breaking news. Insieme alla parola di salvezza occorre spezzare il pane della concretezza: “…la buona notizia”, Bergoglio l’ha ribadito nel messaggio, “non è soltanto una parola, ma è una testimonianza di amore gratuito e fedele: è uscire da sé per andare incontro all’altro, è stare vicino a chi è ferito dalla vita, è condividere con chi manca del necessario, è rimanere accanto a chi è malato o vecchio o escluso…Venite e vedete!”
Perciò Venerdì notte, mentre il Papa ricordava “le persone abbandonate sotto il peso della croce”, il suo elemosiniere si chinava uno per uno, in tempo reale, sui clochard delle stazioni ferroviarie. Non si capisce la Pasqua di Francesco, la più sociale e impegnata degli ultimi anni, senza questo bisogno fisico, da risurrezione dei corpi, che la tormenta, e senza lo slancio visionario, da risurrezione del mondo, che la proietta verso il prossimo appuntamento con la storia: Gerusalemme.
Sulla spinta di un sogno che si avvera, il Pontefice in effetti è partito per la Terra Santa con un mese di anticipo. Il triduo pasquale ha offerto la pista di decollo all’immaginazione del Papa stanziale, che detesta gli aeroporti ma prende quota sulle ali della liturgia. In questi tre giorni, la chimica dei simboli ha prodotto una reazione spaziotemporale, trasfigurando momenti e luoghi e trasportandolo a Gerusalemme, “nell’oggi del Giovedì Santo”, come ha detto nella Messa Crismale, buttando lì una frase inosservata e rivelatrice.
Di conseguenza, le alture del suburbio di Casal del Marmo sono diventate per la seconda volta il Monte Sion, con i loro cenacoli fuori porta, dove la via del calvario si dirama nelle strade di periferia: dodici mesi fa il carcere minorile, quest’anno una comunità di disabili. Sentieri che si sono moltiplicati nelle meditazioni del Venerdì di Passione, in una caput mundi del dolore divino e umano, tra storia sacra e cronache contemporanee: boat people e schiave del sesso, maddalene e cirenei, bambini soldato e centurioni pentiti, stipendi d’oro e tuniche tirate a sorte.
Agli occhi di Bergoglio, nel paesaggio della memoria e nelle suggestioni antico-romane, l’Anfiteatro Flavio ha fatto tutt’uno con le mura della Città Santa, distrutte dallo stesso imperatore che, dieci anni dopo, avrebbe messo mano e dato nome al Colosseo. Davanti a Gerusalemme, di nuovo riedificata, il Papa si trova idealmente e non smette di sostare, con il pensiero e il desiderio, dal primo giorno del pontificato. Esitando però ad entrarvi. L’epicentro della sua Pasqua infatti non si colloca in città, presso il sepolcro, e nemmeno al mattino della domenica, nell’ora e nei luoghi canonici. Francesco va oltre, trasgressivo e creativo.
Dal suo avvento sul soglio di Pietro, il Pontefice argentino ha traversato veloce la notte e l’alba, la crisi e la rinascita della Chiesa. Ha rovesciato la pietra che la schiacciava, resuscitandola dall’ombra della morte mediatica. L’ha caricata, e gravata, dei problemi del mondo, schierandola “irrevocabilmente dalla parte delle vittime”. L’ha sollevata, e reintegrata, sul podio della leadership, nel ruolo profetico di “Città sopra il Monte”, attore planetario e catalizzatore di speranza.
Poi però, dopo avere occupato il proscenio, è sceso al crepuscolo verso l’ostello di Emmaus, oscuro e trascurato nei percorsi dei pellegrini. L’orizzonte del suo pontificato, pertanto, nella cornice autentica, non si coglie dalla loggia delle benedizioni, dove conquista copertine di tendenza e folle festose, ma lungo le vie secondarie, dove accosta le anime in fuga e le storie tese, inseguite dal sinedrio delle proprie paure. La sua Pasqua non si compie a mezzogiorno, nello zenit della mondovisione, ma la sera della domenica, quando cala il sole. Fu allora e fu lì, racconta Luca, che il Risorto avvicinò senza rivelarsi due discepoli usciti sul tardi, per non dare nell’occhio, assecondandone i passi decisi e i discorsi incerti, la frenesia del procedere e la fatica dell’argomentare.
Una icona, quella di Emmaus, che Francesco ha evocato a luglio a Rio de Janeiro, nel suo discorso più intenso e programmatico, assurto a “chiave di lettura del presente e del futuro”, nell’intento di spiegare il mistero più difficile: “il mistero della gente che lascia la Chiesa, di persone che dopo essersi lasciate illudere da altre proposte ritengono che ormai la Chiesa, la loro Gerusalemme, non possa offrire più qualcosa di significativo e importante. E allora vanno per la strada da soli, con la loro delusione. Forse la Chiesa è apparsa troppo debole, forse troppo lontana dai loro bisogni…forse prigioniera dei propri rigidi linguaggi…”
Non è la prima volta, sulla scia di una scuola millenaria, che un Papa esce dalle mura e assume il linguaggio dei lontani, barbari o intellettuali che siano, nella gradualità del dialogo e del cammino, per farsi capire da loro. Rischiando però, di rimando, di non essere compreso dai suoi e risultare “comunista”, “relativista”, “esistenzialista”, nelle diverse e controverse stagioni storiche. Succede agli incroci epocali e nei tramonti delle civiltà, quando il Vangelo si mischia, si unisce con il mondo e dà origine a nuove sintesi.
Ed è comunque una partita aperta, dove il mondo, dal canto suo, cerca di arruolare i pontefici nei propri panteon e promuoverli nuovi idoli: un rischio “omeopatico” che Francesco è consapevole di correre. Ma è altrettanto cosciente che si tratta dell’unico metodo, dell’unica cura per non rimanere chiusi nel sepolcro e saltare il turno, violando il copione e rinviando la risurrezione. “Oggi, serve una Chiesa in grado di far compagnia, di andare al di là del semplice ascolto; una Chiesa che accompagna il cammino mettendosi in cammino con la gente; una Chiesa capace di decifrare la notte contenuta nella fuga di tanti fratelli e sorelle da Gerusalemme…”
Nello sguardo immaginifico e intraprendente del Papa, dunque, le piazze dell’Urbe e dell’Orbe si spezzano e scompongono in milioni di storie individuali. Gerusalemme si svuota e fluisce in una miriade di singoli cammini. E il triduo pasquale allunga il proprio nastro fino alla sera della domenica, per poi riavvolgersi rapidamente in flashback, nell’“oggi del Giovedì Santo”: dove la Città sopra il Monte attende, paziente, l’arrivo del successore dell’apostolo Pietro, fermo all’imbrunire nel cenacolo di Emmaus, emblema della sua scommessa e frontiera del suo pontificato.
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