Una misera risposta ad una grande domanda
L'articolo che commentiamo è stato riportato dal sito Tradinews, Actualité(s) du Traditionalisme Catholique
di Belvecchio
Se non si fosse trattato dell’ex Superiore del Distretto italiano della Fraternità San Pio X, non ci saremmo presi la briga di chiosare l’articolo che Don Michele Simoulin ha scritto per il n° di aprile de Le Seignadou, il bollettino della Scuola Saint-Joseph-des-Carmes, a Montréal de l’Aude, Francia.
Dopo tutto quello che abbiamo pubblicato su questo sito a proposito della crisi nella Fraternità San Pio X, abbiamo pensato che non fosse il caso di scrivere un apposito articolo, le osservazioni di Don Michele ci sono sembrate talmente indicative di uno stato d’animo poco rassicurante, che abbiamo deciso di riportare per intero il suo articolo, in neretto, intercalandolo con le nostre note, così da dare al lettore la possibilità di un confronto immediato.
La grande domanda che si pone a noi, e principalmente ai nostri Superiori, è senza alcun dubbio la seguente, ben formulata da un amico: «Non v’è alcun pericolo per la fede, ad accettare di mettersi sotto un’autorità, Papa o vescovo, che da 50 anni, senza discontinuità, lavora alla distruzione di questa fede, e questo senza prima mettersi d’accordo sulle questioni dottrinali in ballo?»
È vero. È la domanda che da qualche anno ci poniamo in tanti tra i fedeli legati alla Fraternità San Pio X. Ed è la domanda a cui aveva già risposto la stessa Fraternità in occasione del Capitolo generale del 2006: «i contatti che essa mantiene sporadicamente con le autorità romane hanno per unico scopo di aiutarle a riappropriarsi della Tradizione che la Chiesa non può perdere senza rinnegare la propria identità, e non la ricerca di un vantaggio per se stessa, o di giungere ad un impossibile “accordo” puramente pratico».
Stranamente, otto anni dopo, siamo ancora alle prese con i problemi sorti dal tentativo di un “accordo puramente pratico”. Sembrerebbe inspiegabile.
La prima risposta è evidente: Certo, il pericolo è grande e reale, noi ne siamo tutti coscienti e l’abbiamo sempre detto ed anche esplicitato. È facile riferirsi a tutti gli studii che abbiamo fatto sul Concilio, il nuovo catechismo, Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II, tra gli altri. È evidente che se non è ancora intervenuto alcun «accordo», come ha chiaramente detto Mons. Fellay è perché non vogliamo sottometterci incondizionatamente ad un’autorità di cui non siamo sicuri che ci voglia bene e ci permetta di continuare a servire la Tradizione e la Chiesa, senza costringerci ad accettare il Vaticano II senza discussione.
Dalla lettura della dichiarazione del Capitolo del 2006, sembrerebbe che l’unico scopo della Fraternità, nei suoi contatti con Roma, fosse di aiutare le autorità romane a “riappropriarsi della Tradizione”, sembra invece che oggi Don Michele Simoulin si accontenti di sottomettersi a Roma a certe condizioni, e sembra anche che egli parli per conto dei “nostri Superiori”, lasciando intendere che il suo pensiero rifletta quello degli attuali capi della Fraternità.
Non vogliamo essere costretti ad accettare il Vaticano II senza discussione, dice Don Michele, quindi, se non ci costringono in questo senso, il Vaticano II possiamo accettarlo, perché possiamo discuterne.
A noi sembra che l’interrogativo di partenza continui a sussistere, anzi si fa più pressante e più tormentato.
Detto questo, si può parlare di un’autorità che lavora alla distruzione della fede? Sembra più giusto parlare di un’autorità che non professa la fede o non la professa nella sua integralità, e che professa delle verità pericolose o anche contrarie alla fede. Poiché bisogna distinguere tra l’intenzione di distruggere la fede e un effetto non voluto direttamente. Che questa perdita della fede sia una conseguenza delle dottrine conciliari professate da 50 anni, è cosa evidente, ma possiamo dire che fosse questa e resti questa l’intenzione dei promotori? Se fosse così, queste autorità non avrebbero più la fede e non sarebbero più formalmente cattoliche, e credo che questo significhi essere implicitamente sedevacantisti? Absit.
Ha ragione Don Michele, non si può fare il processo alle intenzioni, quindi non è corretto, né caritatevole accusare l’autorità di “lavorare alla distruzione della fede”, ma lui stesso conferma che questa stessa autorità, non solo non professa la fede, in tutto o in parte, ma professa l’errore, e addirittura lo professerebbe inconsciamente, senza rendersi conto di realizzare la distruzione della fede.
A noi sembra che questa incoscienza che intende accreditare Don Michele, sia ancora più pericolosa della manifesta volontà di distruggere la fede. Ci chiediamo: ma la Chiesa non ha sempre condannato duramente tutti gli eretici che tuttavia erano convinti di possedere ancora la fede, e non li ha condannati proprio per questo?
Se uno si presenta e dice che la fede è un errore, io posso fuggirlo come un demonio, ma se uno si presenta come cattolico e tuttavia col suo dire e il suo fare arreca danno alla fede, io ho più difficoltà a difendermi dall’errore e il rischio di perdere la mia anima aumenta a dismisura. È esattamente quello che è accaduto in questi ultimi cinquant’anni e continua ad accadere, così che non solo si deve dire che l’autorità “lavora alla distruzione della fede”, ma la si deve fuggire come la peste se si vuole aiutare il fedele a non cadere nella trappola del possibilismo e degli inutili distinguo tra volontà reale ed affetti reali non voluti.
Ed è strano che un sacerdote cattolico che difende la Tradizione dimentichi di ricordare a se stesso il monito di Nostro Signore: dai loro frutti li riconoscerete!
Si ha voglia a dire che sarebbero frutti non espressamente voluti, resta il fatto che se sono avvelenati vanno fuggiti insieme a coloro che li producono, fossero pure delle anime candite!
Questo è un fatto, riconosciuto anche da Don Michele, non un’opinione senza riflessione, e contro questo fatto non si può avanzare la scusa che non sia stato voluto. Anche se non si tratta di omicidio premeditato, ma di semplice omicidio preterintenzionale, sempre omicidio è, e l’omicida va condannato, non scusato.
Né si può essere così irresponsabili da trovare una scusante per l’omicida, che in questo caso è più corretto chiamare “animicida”, perché porta alla morte eterna milioni di anime, per evitare di cadere nel supposto abisso del sedevacantismo.
Se l’autorità, sia pure senza volerlo, demolisce la fede e arreca danno alla salvezza delle anime, il cattolico ha il dovere di dirlo e di denunciarlo, e se il compimento di questo suo dovere comporta il rischio di dare l’impressione di essere un “sedevantista”, nonostante continui a professare il massimo rispetto per l’istituzione del Papato, questo non può e non deve comportare la gravissima mancanza di tacere la verità sulla reale situazione in cui versa la Chiesa a causa del Vaticano II e degli attuali uomini che impersonano l’autorità.
E anche qui, è strano che un sacerdote cattolico che difende la Tradizione dimentichi di ricordare a se stesso il monito di Nostro Signore: il vostro parlare sia sì sì, no no, il resto viene dal maligno!
Se passiamo alla necessità di «mettersi prima d’accordo sulle questioni dottrinali», siamo tutti d’accordo nel dire che si tratta di un ideale verso il quale tendiamo con tutta la nostra anima. È lo scopo ultimo della nostra resistenza e di tutti i nostri passi. Possiamo chiamare questo la «conversione» di Roma o il suo ritorno alla Tradizione piena ed intera. Si, «quando si tratta del fine, non c’è misura da mantenere», ma questa misura va mantenuta quando si tratta di ciò che è relativo al fine, dice Aristotele. (S. Tommaso, II, II, 184, 3). Ed è la prudenza che ci ispirerà la scelta dei mezzi da impiegare per raggiungere questo fine. Bisogna dunque essere realisti o pragmatici! Non è utopico, per esempio, immaginare (e chiedere) che la Roma odierna ristabilisca da subito l’obbligo del giuramento antimodernista, rinnovi le condanne emesse da Quanta Cura, dalSyllabus, da Pascendi, da Humani Generis, o riaffermi la dottrina diQuas Primas sulla Regalità sociale di Nostro Signore Gesù Cristo? Possiamo immaginare che questo si faccia nell’immediato? Certo, sarebbe l’ideale, e noi lo desideriamo tutti, ma possiamo sperare che questo possa avvenire prima di diverse generazioni, ed anche che questo possa farsi se il movimento non è condotto da dei membri riconosciuti e accettati, la cui fede ed obbedienza non sono messi in dubbio?
Il ragionamento svolto da Don Michele ha una sua logica e in qualche modo anche una sua giustificazione, ma esso non risponde alla domanda di partenza, l’aggira semplicemente, insinuando che un accordo pratico senza preventivo accordo dottrinale rientrerebbe tra le scelte prudenziali atte a raggiungere il fine, e cioè la “conversione di Roma”.
In effetti, questo stesso ragionamento si rivolta contro Don Michele, perché se ci vorranno generazioni perché Roma “ritorni alla Tradizione”, non si capisce cos’è che impedisca alla Fraternità di aspettare il tempo necessario perché questo avvenga; tanto più che se Roma è pressata a tornare alla Tradizione dal pungolo incessante di una Fraternità che “dall’esterno” la stimola e la incalza come ha fatto in questi 40 anni, far cessare questo pungolo, facendo un accordo pratico che lo trasformerebbe in semplice fastidio passeggero, significherebbe vanificare questo stesso possibile “ritorno alla Tradizione”.
L’unica cosa che giustifica il ragionamento di Don Michele è che lui, e altri sacerdoti della Tradizione, compresi i “nostri Superiori”, sono stanchi di stare fuori dall’ufficialità e anelano a superare lo stato di “sospensione a divinis” in cui li mantiene ancora questa autorità che in teoria non vorrebbe demolire la fede, ma in pratica non fa altro che questo. E questo stato d’animo, che è umanamente comprensibile, sembra alimentarsi dell’illusione che una Fraternità ufficialmente “regolarizzata”, sarebbe in grado di perseguire il suo fine della “conversione di Roma”, anche stando “all’interno”, e questo perché, e non si comprende bene per quale recondito motivo, essa sarebbe in grado di farlo a differenza delle altre comunità «Ecclesia Dei». Infatti, Don Michele lo precisa espressamente, dicendo:
Questo non possiamo aspettarcelo dalle comunità «Ecclesia Dei», poiché esse, per essere riconosciute, hanno accettato il Vaticano II e si sono impegnate a non sollevare alcuna obiezione dottrinale alle tesi in corso. Noi restiamo i soli e gli ultimi testimoni della Tradizione della Chiesa nella sua integralità, ma noi non possiamo conservare questi tesori solo per noi. Dobbiamo invece aspirare a rimetterli nelle mani della Chiesa, e dunque del Papa, quando questo sarà possibile.
Non se la prenderà Don Michele, ma siamo costretti a tirargli le orecchie, perché qui egli afferma una cosa inesatta, con una mancanza di carità e di verità che certo non gli fa onore. Ci rendiamo conto che egli debba far quadrare il suo ragionamento, ma non si può far questo con una bugia, perché questo significa demolire il proprio ragionamento invece di farlo quadrare.
In realtà, le comunità «Ecclesia Dei» non hanno fatto altro che accettare la stessa cosa che Don Michele stesso auspica per la regolarizzazione della Fraternità: accettare il Vaticano II a condizione di poterne discutere. Non è vero che, come dice lui, “si sono impegnate a non sollevare alcuna obiezione dottrinale alle tesi in corso”. Tutt’altro, a queste comunità è stato riconosciuto il “diritto” di portare avanti una cosiddetta “critica costruttiva”, cioè quella strana cosa che pretenderebbe coniugare due azioni contraddittorie: criticare e costruire, come se criticare non significasse rifiutare e come se costruire non significasse edificare l’inesistente.
Certo che con questa premessa incoerente le comunità «Ecclesia Dei» non hanno combinato alcunché di minimamente serio, e ancor meno un possibile ritorno di Roma alla Tradizione, ma è esattamente quello che capiterebbe alla Fraternità se accettasse un accordo pratico senza preventivo accordo dottrinale; perché il problema della crisi che attanaglia la Chiesa e del ritorno dell’autorità alla Tradizione, non si risolve con l’accettazione del Vaticano II a condizione di discuterne, ma col rifiuto del Vaticano II.
E questo non lo diciamo noi, che siamo nessuno, ma lo disse e lo ribadì Mons. Lefebvre dopo il 1988 e fino alla sua morte. Ed è curioso, se non sospetto, che Don Michele e con lui i “nostri Superiori”, l’abbiano dimenticato, insinuando perfino che Monsignore avesse affermato il contrario. E non staremo qui a perdere tempo a ricordare tutte le volte che Monsignore si è espresso in tal senso, ci limitiamo ad invitare Don Michele e i “nostri Superiori” a rileggere quanto abbiamo ultimamente riprodotto su questo sito, non per una miracolosa rivelazione, ma perché lo abbiamo ricopiato degli stessi siti della Fraternità: dalle conferenze alle lettere pubbliche di Mons. Lefebvre.
Ed è ancora più curioso che Don Michele pretenda di svolgere il suo ragionamento ricordando subito dopo:
Questo desiderio è il senso delle decisioni e delle dichiarazioni dei nostri Capitoli generali del 2006 e del 2012: «Se, dopo la loro realizzazione (dei due preliminari), la Fraternità aspetta la possibilità di discussioni dottrinali, è solo al fine di far risuonare più fortemente nella Chiesa la voce della dottrina tradizionale. Infatti, i contatti che essa mantiene sporadicamente con le autorità romane hanno per unico scopo di aiutarle a riappropriarsi della Tradizione che la Chiesa non può perdere senza rinnegare la propria identità, e non la ricerca di un vantaggio per se stessa, o di giungere ad un impossibile “accordo” puramente pratico. Il giorno in cui la Tradizione ritroverà tutti i suoi diritti, “il problema della riconciliazione non avrà più alcuna ragione di essere e la Chiesa ritroverà una nuova giovinezza”» [Dichiarazione del Capitolo generale del 2006]. Il preliminare delle discussioni dottrinali è stato aggiunto, nel 2001-2002, agli altri due stabiliti da Mons. Lefebvre alla ripresa degli scambi con Roma. Iniziate dopo la realizzazione dei primi due preliminari, nel 2007 e nel 2009, queste discussioni, condotte per un anno, non hanno sortito alcun accordo. Senza alcun dubbio, le condizioni necessarie per ristabilire delle relazioni normali sono ancora lungi dall’essere realizzate, ed è vero, il pericolo di un accordo canonico senza previo accordo dottrinale è sempre reale. Ma dobbiamo aspettare il miracolo senza fare niente perché la Chiesa ritrovi una nuova giovinezza?
È curioso perché l’incoerenza di Don Michele sembra fluire senza che lui se ne renda conto. Ora, se come sta scritto nella dichiarazione del 2006, «Il giorno in cui la Tradizione ritroverà tutti i suoi diritti, “il problema della riconciliazione non avrà più alcuna ragione di essere e la Chiesa ritroverà una nuova giovinezza”», che senso ha tutto questo discutere di Don Michele, dal momento che è del tutto evidente che a tutt’oggi la Tradizione non ha minimamente ritrovato tutti i suoi diritti?
Non si può pretendere di propugnare la pratica di una possibilità, supposta seria, basandola sulla dichiarata infondatezza di essa: o si sragiona o si tenta di ingannare.
Ed è la seconda ipotesi ad affacciarsi con maggiore probabilità, perché non si può affermare che i due primi preliminari siano stati realizzati, nel 2007 e nel 2009, e non si può semplicemente perché non è vero.
Il primo, nel 2007, e cioè la liberalizzazione della S. Messa tradizionale, non solo non è stato realizzato, ma è perfino stato stravolto. Non staremo qui a ricordare quanto abbiamo già scritto sulle inaccettabili amenità del famoso Motu Proprio Summorum Pontificum, richiamiamo solo l’attenzione su quello che abbiamo sotto gli occhi: la S. Messa tradizionale è ormai un balocco per cattolici eruditi e ideologici, come dice il nuovo Papa, senza la minima incidenza sulla crisi della Chiesa e senza che abbia spostato di una virgola il rifiuto della Tradizione che continua ad essere il segno distintivo dell’attuale autorità della Chiesa.
Solo una forma mentale più o meno interessata non si accorge che la falsa liberalizzazione della S. Messa tradizionale, peraltro mai abrogata, è il grimaldello per scardinare la porta della resistenza alla nuova Messa e a tutte le deviazioni anticattoliche del Vaticano II e delle riforme conseguenti.
Quanto al secondo preliminare che sarebbe stato realizzato nel 2009, e cioè la remissione delle “scomuniche”, anche qui è oltremodo curioso che Don Michele, e con lui i “nostri Superiori”, cerchino di far passare come seria una solenne turlupinatura.
Intanto quelle famose “scomuniche”, un tempo nulle e mai avvenute per la Fraternità, dal 2009 sono valide e legittime, con tanti saluti alla legittimità della resistenza portata avanti fino alla morte da Mons. Lefebvre, che morì scomunicato e scomunicato rimane. Poi, come si può parlare seriamente di questa grottesca vicenda, quando ancora i vescovi e i sacerdoti della Fraternità sono “sospesi a divinis”, cioè impediti ad esercitare qualsiasi ministero sacerdotale, e questo per espressa dichiarazione pubblica dello stesso Papa che volle la famosa “remissione”, non tanto delle “scomuniche”, quanto degli “effetti giuridici” derivati dal decreto di scomunica che, pertanto, fu e rimane valido?
Che l’autorità della nuova Chiesa conciliare, come l’ha sempre chiamata fino alla morte Mons. Lefebvre, possano ritenere serio e coerente che cinquecento tra vescovi e sacerdoti cattolici non patiscano più gli “effetti giuridici” di un decreto di scomunica e quindi non siano più “scomunicati”, cioè fuori dalla comunione ecclesiale, ma al tempo stesso siano, inspiegabilmente, in attesa di essere riconosciuti come facenti parte della comunione ecclesiale, è cosa comprensibile solo per una mentalità moderna che accetta la coesistenza pacifica della verità e dell’errore, gabellandola per “tradizione vivente”; ma è cosa che un cattolico che si sente difensore della Tradizione dovrebbe respingere come inaccettabile, impedendosi di affermare che il secondo preliminare è stato realizzato.
La domanda conclusiva di questo paragrafo, poi, è la ciliegina su questa torta infarcita di dolce incoerenza.
«Ma dobbiamo aspettare il miracolo senza fare niente perché la Chiesa ritrovi una nuova giovinezza?», chiedendosi questo, Don Michele sembra rispondersi: intanto facciamo un accordo pratico senza preventivo accordo dottrinale! Che in quanto a logica lascia davvero a desiderare, soprattutto perché rivela che il vero assillo di Don Michele e dei “nostri Superiori” è sempre e solo il conseguimento del riconoscimento canonico, anche a costo di un “accordo pratico”, nonostante la loro stessa decisione del 2006, in sede di Capitolo generale, lo escludesse in quanto “impossibile” di per sé, lesivo della dignità della Fraternità, improprio per il bene della Chiesa.
Cos’è accaduto dal 2006 ad oggi, perché Don Michele i “nostri Superiori” si siano convinti che sia necessario e possibile oggi, ciò che era inidoneo e impossibile ieri?
E in qualche modo la risposta è nel seguito del ragionamento di Don Michele.
E attualmente, cosa possiamo aspettarci e reclamare ragionevolmente in materia di accordo dottrinale? La sola cosa che possiamo sperare e chiedere, sembra, è la libertà di discutere il Vaticano II. Che si smetta di volerci imporre il preliminare di un’accettazione incondizionata del Vaticano II. Che si ammetta che questo Concilio è stato ed è «pastorale» e non dogmatico, e che quindi esso possa essere legittimamente oggetto di discussioni. Smettere di imporci d’accettare il Vaticano II senza possibile discussione, e accordarci questa libertà sarebbe già una tappa importante, poiché significherebbe riconoscere implicitamente che i nostri argomenti hanno un valore. Un’autorità che consentisse questo sarebbe già un’autorità non ostile alla Tradizione, cioè desiderosa di ristabilirla nella Chiesa, e sarebbe già una vera conversione di Roma. Noi non siamo ancora a questo, ed è per questo che non s’è fatto niente. Ma se Roma accettasse di non fare più del Vaticano II un super-dogma, questo sarebbe già una grande vittoria della grazia e allora potrebbe permettere di considerare di stabilire un certo legame canonico. Quando arriverà questo giorno? Nessuno lo sa, ma noi l’aspettiamo con fiducia.
Questa tiritera palesemente strumentale e interamente fondata su una realtà che esiste solo nell’immaginazione interessata e neanche tanto dissimulata di Don Michele e presumibilmente dei “nostri Superiori”, esprime semplicemente un concetto facile facile: l’accordo dottrinale non ci interessa più!
Sinceramente e onestamente, bastava solo dirlo, basta solo dirlo, invece di girarci intorno arrampicandosi sugli specchi e provando a far credere ai fedeli che nulla sia cambiato nella Fraternità, quando invece nel convincimento dei responsabili della Fraternità è chiaramente cambiato il presupposto stesso dell’esistenza dell’opera iniziata da Mons. Lefebvre.
L’unico accordo dottrinale possibile, dice Don Michele, “è la libertà di discutere il Vaticano II”, perché, sostiene sempre Don Michele, “un’autorità che consentisse questo sarebbe già un’autorità non ostile alla Tradizione, cioè desiderosa di ristabilirla nella Chiesa, e sarebbe già una vera conversione di Roma.”
Ci perdonerà l’impudenza, il nostro Don Michele, ma allora Mons. Lefebvre non aveva capito niente, ma allora Mons. Fellay fino al 2009 non aveva capito niente, ma allora la Fraternità fino a qualche mese fa non aveva capito niente, ma allora almeno in questi ultimi dodici anni i fedeli legati alla Fraternità e tutti i fedeli cattolici che hanno guardato alla Fraternità come all’unico riferimento capace di resistere di fronte all’aggravarsi della crisi della Chiesa… allora tutti questi fedeli non avrebbero mai capito niente!
Ma davvero si può essere così impudenti e pensare di farla franca?
Se la “vera conversione di Roma” coincidesse con “la libertà di discutere il Vaticano II”, scusi, caro Don Michele Simoulin, ma allora Roma è convertita da anni, è convertita per lo meno dal 2002, da quando ha concesso pubblicamente e formalmente “la libertà di discutere il Vaticano II” all’Unione Sacerdotale San Giovanni Maria Vianney di Campos.
Perché allora tanto gridare allo scandalo, tanto bollare come “traditori” questi confratelli brasiliani, perché la successiva cacciata di Don Paul Aulagnier e di Don Philippe Laguérie che dicevano la stessa cosa e proprio questo hanno ottenuto da Roma nel 2006 per il loro nuovo Istituto del Buon Pastore?
Perché questa farsa, caro Don Michele?
Si farsa! Farsa grottesca, perché delle due l’una: o Lei e i “nostri Superiori” vi siete sbagliati allora o vi sbagliate adesso. Da qui non si scappa! E gli unici che ricevono manciate di fango in faccia, siamo noi fedeli che veniamo indotti a leggere cose come quelle che scrive Lei.
Don Michele Simoulin e i “nostri Superiori” hanno una sola giustificazione per sostenere cose incredibili e offensive per l’intelligenza come queste che leggiamo qui. E questa giustificazione sembra essere la seguente: la libertà di discutere il Vaticano II data a tutti gli altri, non è una cosa seria, perché è risaputo che gli altri sono in parte cretini e in parte asserviti alla Roma modernista, mentre invece la stessa libertà data a noi rivolterebbe la Chiesa da cima a fondo e la Tradizione finalmente trionferebbe azzerando la terribile crisi che da cinquant’anni affligge la Chiesa.
Per quanto da noi presentato in modo volutamente provocatorio, è esattamente questo il senso delle cose affermate da Don Michele, e se qualcuno pensasse che noi sbagliamo, ci faccia sapere, per favore, in cosa si distinguano in meglio, Don Michele Simoulin e i “nostri Superiori”, rispetto ai Brasiliani di Campos e ai Francesi di Bordeaux, dopo articoli come questo che stiamo leggendo e documenti come quelli che abbiamo letti negli ultimi due o tre anni.
E qui bisogna aprire gli occhi su un altro grande pericolo, che non è ipotetico, ma molto attuale: quello di non aspirare più a riprendere il nostro posto legittimo tra le società riconosciute da Roma, quello di perdere il desiderio della Chiesa e di Roma. Non desiderare più il normale legame con Roma e la Chiesa, adombra lo spirito scismatico. Noi viviamo da troppo tempo indipendentemente dal Papa e dai Vescovi, come se questo fosse normale. Noi pretendiamo di difendere la dottrina, ma rischiamo di fissare per noi una dottrina a piacimento, abbandonando certi dogmi, quelli che ci dispiacciono, in particolare quelli che sono legati al primato di Pietro. Rischiamo di abituarci all’anormale, di vivere in una situazione confortante, come se questo fosse giusto e conforme allo spirito della Chiesa. Il Papa e i vescovi sarebbero pian piano messi da parte nell’ordine delle cose pensate, senza ripercussione sulla vita concreta; Roma diventerebbe solo un luogo di pellegrinaggio e la Chiesa un corpo mistico il cui capo sarebbe Gesù Cristo, l’anima lo Spirito Santo e i membri dei «traditi». I nostri sacerdoti potrebbero diventare presto dei guru. Ognuno potrebbe diventare papa, Denzinger alla mano, e ogni padre di famiglia sarebbe allora il papa della sua famiglia. In queste condizioni, i nostri figli non avrebbero più alcun senso di cosa sia la Chiesa reale nella sua totale incarnazione, dalla cima fino ai membri, in tutte la realtà della vita quotidiana.
Questo che sembra essere un accorato lamento di fronte al pericolo mortale di diventare degli scismatici senza speranza e senza salvezza, in realtà è un capzioso ricatto morale: Don Michele si rivolge ai fedeli, è evidente, e li ammonisce implicitamente dicendo loro: “o stipuliamo un accordo pratico senza preventivo accordo dottrinale, che come vi ho detto non ha più ragion d’essere, o diventeremo tutti dei protestanti o peggio dei sedevacantisti, che, come tutti sanno e come hanno ripetuto i “nostri Superiori”, è la peggior disgrazia che possa capitare ad un vero cattolico.”
C’è una sola cosa che si può dire di fronte ad un ragionamento come questo, ed è una domanda che sorge spontanea dopo aver letto il paragrafo precedente: Ma caro Don Michele, dove è andata a finire la tanta ostentata superiorità che Lei ha appena accreditata ai vescovi e ai sacerdoti della Fraternità rispetto agli altri di Campo e di Bordeaux? Ma come, tutta quella chiarezza di mente e fortezza di cuore, senza la firma di un accordo pratico si trasformerebbero di colpo in vuoto mentale e debolezza d’animo?
Forse è meglio che Lei si metta d’accordo con se stesso, prima di offrire considerazioni e consigli ai fedeli!
Quanto all’autorità… col riconoscere un principio, senza ammetterlo nei fatti quando si tratta del Papa, si rischia che esso non possa più essere ammesso a qualsivoglia grado. Ogni superiore corre il rischio di essere contestato, criticato perfino pubblicamente… e le stesse famiglie si disgregheranno. Perché obbedire ad un padre che non si obbedisce al Papa, al Vescovo, al prete?
Ed era inevitabile! Perché quando ci si abbandona su una china, inevitabilmente si viene trascinati a fondo. Ora, è da 40 anni che la Fraternità, con i suoi vescovi, i suoi sacerdoti e i suoi fedeli, disobbedisce al Papa, e allora, secondo Don Michele Simoulin, sarebbe da 40 anni che egli stesso e i “nostri Superiori” educherebbero i fedeli cattolici e condurrebbero loro stessi all’anarchia!
Questa non la sapevamo! Ma adesso che la sappiamo, forse è il caso di lasciare a se stessi tanto i Don Simoulin quanto i “nostri Superiori”. Noi non vogliamo più essere anarchici!
Chi dice linea di cresta dice pericolo di questi due lati. Uno è quello del riconoscimento male assicurato, l’altro è il pericolo interno appena descritto. E mentre il primo resta molto ipotetico, il secondo non è relativo al domani, e non è neanche alle porte… esso è già presente all’interno della città e delle nostre famiglie!
Eccola la linea di cresta sgombra dalle nebbie della retorica: quando si è sulla cresta si corre il rischio di cadere o di qua, in un accordo pratico, o di là, nell’anarchia; e siccome l’anarchia è già dentro le nostre case, per salvarci non ci resta altro che l’accordo pratico senza preventivo accordo dottrinale.
Caspita! Che acume profondo!
Peccato che Don Michele non riesca a vedere la soluzione più semplice, seppure apparentemente più difficile: se ci siamo salvati per quarant’anni, se per quarant’anni siamo cresciuti e abbiamo influenzato positivamente milioni di cattolici, se per quarant’anni niente è riuscito a portarci danno, se per quarant’anni il Buon Dio non ci ha fatto mancare il suo sostegno e la sua grazia, nonostante questa paventata la linea di cresta, perché non continuare? Perché non rimanere sulla cresta, invece di buttarci nel dirupo dell’asservimento alla Roma modernista, che sta distruggendo la fede, sia pure, come dice lui, senza neanche saperlo e volerlo? Perché?
E se poi alcuni non se la sentono più di continuare così, se sono stanchi e vogliono scendere a terra, nessun problema. Non sarebbero i primi ad andar via, che se ne vadano dunque, e ci lascino in pace nel nostro splendido isolamento, fuori dalla pestifera infezione che da cinquant’anni continua ad emanare dalle stanze vaticane.
E allora, abbiamo ragione a temere il primo pericolo? Senza dubbio, ma non al punto di perdere la speranza e la fede nella grazia della Chiesa. E noi potremo affrontare questo pericolo, e trionfare, solo se sapremo unire le nostre forze invece di dividerci, per far fronte sotto la saggia e prudente direzione dei capi che Dio ci dati. «Ogni regno diviso contro se stesso sarà devastato» e la dialettica diffusa dai «resistenti» non ha altro effetto che di indebolirci nella nostra vera resistenza alle malattie che mordono la Chiesa, e nella nostra fedeltà alla linea saggiamente seguita e definita da Mons. Lefebvre. C’è da credere che questi «resistenti» non abbiano più altri nemici che Mons. Fellay e la Fraternità. Essi hanno palesemente rigettato ogni riferimento a Roma e restiamo solo noi a giustificare la loro resistenza! E se ci si viene a dire che questi «resistenti» sono stati trattati ingiustamente, potremmo consigliare la lettura e la meditazione della vita dei santi e delle grandi figure della Chiesa, che sapevano cos’è la virtù dell’obbedienza e sapevano presentare le loro difficoltà ai superiori senza prendere a testimone l’intero pianeta con la scusa di salvare la fede, la giustizia e la verità. Chi è più ingiusto, fra un’autorità che può essere severa, anche troppo severa, e un soggetto che diffonde tutti i suoi rancori senza la minima prudenza e non esita a insozzare pubblicamente i suoi superiori?
Ed ecco ribadita la volontà di un accordo pratico senza preventivo accordo dottrinale, ecco ribadita la volontà di diventare una delle tante comunità «Ecclesia Dei», lasciando che la crisi della Chiesa si aggravi anche con l’avallo di quella che era un tempo la gloriosa Fraternità San Pio X: l’unico baluardo posto dal Buon Dio a salvaguardia della Sua Rivelazione.
Ed ecco ancora la supponenza di poter cavalcare la tigre senza che questa ci disarcioni e ci divori… perché noi siamo i più furbi!
Basta andare tutti uniti al macello e così potremo “trionfare”; basta andare tutti uniti nella bocca della bestia “sotto la saggia e prudente direzione dei capi che Dio ci dati”; che sarebbero poi quegli stessi molto più furbi e scaltri dei Brasiliani di Campos e dei Francesi di Bordeaux.
Guai a chi resiste a questa offerta di cavalcare la tigre!
Perché “la dialettica diffusa dai «resistenti» non ha altro effetto che di indebolirci … nella nostra fedeltà alla linea saggiamente seguita e definita da Mons. Lefebvre.”
E qui, invitiamo di nuovo a rileggere le dichiarazioni di Mons. Lefebvre che abbiamo pubblicato da poco, per capire quanto sia falso e capzioso questo improvvido richiamo, che costituisce di fatto un altro piccolo e vano tentativo di ricatto psicologico e morale, visto che, una volta riletto ciò che ha scritto e detto Mons. Lefebvre, tutto il discredito piomba come un macigno su quelli come Don Michele Simoulin e i “nostri Superiori”.
Guai a chi resiste a questa catastrofica lusinga, perché verrà colpito duramente con tutta la forza di cui sono capaci i “saggi e prudenti capi che Dio ci ha dati”: dall’espulsione semplice alla illegittima “sospensione a divinis”, dal moderno istituto paracanonico dell’“auto-esclusione” all’accusa di tradimento e di lesa maestà. Una gragnola di colpi che non risparmia nessuno e che tutto distrugge e frantuma in nome dell’unità e della obbedienza cieca e assoluta, di staliniana memoria.
“E se ci si viene a dire che questi «resistenti» sono stati trattati ingiustamente, potremmo consigliare la lettura e la meditazione della vita dei santi e delle grandi figure della Chiesa, che sapevano cos’è la virtù dell’obbedienza e sapevano presentare le loro difficoltà ai superiori senza prendere a testimone l’intero pianeta con la scusa di salvare la fede, la giustizia e la verità.”
Altro colpo di maglio, che stavolta vorrebbe colpire nel più profondo esaltando la funzione santificante delle punizioni inflitte dai “saggi e prudenti capi che Dio ci ha dati”.
Per chi non l’avesse capito, finora, la severità di questi capi non aveva in vista la difesa ad ogni costo dei loro errati convincimenti e della loro ingiustificata supponenza, NO!, aveva in vista solo la santificazione dei «resistenti», i quali non avrebbero capito che venivano cacciati, sospesi, criminalizzati, perché col loro eroico silenzio potessero santificarsi.
Ci viene il sospetto che certi componenti della Fraternità abbiano perso l’uso della ragione, e che davvero abbiano buttato alle ortiche la loro stessa educazione ed esperienza sacerdotale.
Ma si rende conto Don Michele che lui stesso non sarebbe qui a scrivere queste assurdità, senza la resistenza di Mons. Lefebvre contro l’autorità del Papa, la quale è un’autorità ecclesiastica di gran lunga più alta di quella dei capi della Fraternità?
Si rende conto che neanche esisterebbe la Fraternità, e lui stesso come sacerdote, senza che Mons. Lefebvre avesse preso “a testimone l’intero pianeta con la scusa di salvare la fede, la giustizia e la verità”?
O dobbiamo pensare che quando Mons. Lefebvre alzava pubblicamente la voce contro il Papa e ordinava i sacerdoti resistendo all’ingiustizia del Papa, e consacrava i vescovi resistendo all’abuso del papa, Don Michele si sia dissociato, abbia ripreso Mons. Lefebvre e abbia abbandonato questo da lui supposto impenitente vescovo resistente che osava ribellarsi ai soprusi dei capi che Dio aveva dato alla Chiesa?
E questo che ci vorrebbe far credere Don Michele Simoulin?
E quando si chiede: “Chi è più ingiusto, fra un’autorità che può essere severa, anche troppo severa, e un soggetto che diffonde tutti i suoi rancori senza la minima prudenza e non esita a insozzare pubblicamente i suoi superiori?”; non lo sfiora il sospetto che si sia data la risposta da solo?
Ma come chi è più ingiusto! Ma caspita, è evidente! Più ingiusta è quell’autorità severa, “troppo severa”, che colpisce pesantemente e ripetutamente chi la osteggia dopo averla preavvisata e pretende che i colpiti se ne stiano zitti e buoni per il semplice fatto che sono dei sottoposti, il cui unico dovere sarebbe quello di subire in silenzio qualunque sopruso, magari con la speranza di santificarsi!
Ecco chi è più ingiusto! E non certo chi denuncia pubblicamente a giusta ragione, non i suoi rancori, ma il comportamento inaccettabile di un’autorità che ha voluto essa stessa rendere pubblici i suoi soprusi, per cercare di applicare il vecchio adagio rivoluzionario: colpirne uno per educarne cento!
E in questa pubblica denuncia di chi viene colpito proditoriamente non c’è niente che “insozzi pubblicamente” i superiori, più di quanto non si siano già insozzati da sé. Perché, come diceva Mons. Lefebvre: «È chiaro che in questi casi e in altri simili, è dovere di ogni chierico e laico cattolici resistere e rifiutare l’obbedienza. L’obbedienza cieca è un controsenso, e nessuno è esente da responsabilità per aver obbedito agli uomini piuttosto che a Dio (DS 3115), e questa resistenza dev’essere pubblica se il male è pubblico ed è oggetto di scandalo per le anime (S. Th. II, II, 33, 4). Questi sono dei principii elementari di morale, i quali regolano i rapporti dei soggetti con tutte le autorità legittime.» (Lettera aperta di Mons. Lefebvre e Mons. de Castro Mayer a Giovanni Paolo II, presentata pubblicamente alla stampa all’aeroporto Charles de Gaulle il 21 novembre 1983).
Forse Don Michele Simoulin e i “nostri Superiori” farebbero bene a ripassarsi questo ed altri testi di Mons. Lefebvre, prima di avventurarsi in dichiarazioni, azioni e punizioni che non fanno loro onore e che rivelano solo l’estrema debolezza delle loro posizioni e la disastrosa incongruenza del loro esercizio dell’autorità.
E questo soprattutto quando Don Michele si permette, con fare perfino impudico, di scrivere:
Che si legga e mediti, tra gli altri, l’esempio di Mons. Lefebvre. Quando lasciò la sua congregazione dei Padri dello Spirito Santo che si sfaldava, quanti padri chiamò a seguirlo? Nessuno. Quanti opuscoli e libri redasse per denunciare la deriva della sua congregazione? Nessuno. Egli non si presentò più al Capitolo generale e se ne andò con una semplice valigia.
Come se nessuno conoscesse Mons. Lefebvre e quello che ha fatto per il bene della Chiesa e delle anime, contrastando e denunciando a gran voce con le parole e con le azioni le più alte autorità della Chiesa, fino alla fine, a costo di morire col marchio infamante dello “scomunicato”. Altro che andarsene in silenzio con una valigia. Altro che non chiamare a raccolta nessuno. Egli fece di tutto per ampliare la sua protesta contro la disastrosa conduzione romana della fede, chiamò a raccolta l’intero mondo cattolico e si adoperò in tutti i modi perché quello che aveva iniziato potesse continuare dopo la sua morte.
E se i «resistenti» seguono il suo esempio, pagando di persona, a volte anche pesantemente, la loro scelta di coerenza con la fede, Don Michele dovrebbe essere uno dei primi a comprenderli e ad appoggiarli, lui che è stato ordinato da Mons. Lefebvre per servire Dio e non gli uomini.
Che si legga anche la vita di Santa Teresa Couderc, fondatrice e prima superiora delle Suore del Cenacolo, destituita e rimpiazzata da una ricca vedova entrata da poco nella congregazione e alla quale fu dato il titolo di fondatrice e superiora. Santa Teresa, che non aveva commesso alcuna mancanza, si ritirò senza mormorare contro l’ingiustizia flagrante, mentre la congregazione sprofondava a poco a poco. Quale differenza con le partenze roboanti di questi ultimi mesi, che dimostrano che le preoccupazioni di alcuni non assomigliano certo a quelle di questi uomini e donne innamorati di Dio.
Che Don Michele Simoulin vada a rileggersi, non solo la vita, ma anche gli scritti di Santa Caterina da Siena, perché da come scrive e da cosa scrive si ha l’impressione che abbia dimenticato tutto quello che ha appreso quand’era in seminario, e si ha l’impressione che le sue preoccupazioni non assomiglino affatto a quelle di tanti santi e sante come Santa Caterina.
Col pretesto della crisi nella Chiesa, dovremmo rassegnarci a non voler più imitare i santi?
No di certo, caro Don Michele, ma è bene essere innanzi tutto onesti con se stessi e non suggerire i santi o gli esempi della vita di Mons. Lefebvre che fanno più comodo, secondo uno stile da comiziante che non si addice ad un sacerdote.
Dovremmo lasciare che questa crisi annienti la speranza nei nostri cuori?
No di certo, caro Don Michele, ma è bene che si abbiano chiari nella mente e nel cuore i connotati di questa speranza, perché sperare il bene della Fraternità, sperare il bene della Chiesa, sperare il bene delle anime, non significa consegnare armi e bagagli e fedeli e sacerdoti alla Roma conciliare e modernista, come la chiamava Mons. Lefebvre, stabilendo un accordo pratico senza preventivo accordo dottrinale.
Nostra Signora della Santa Speranza, convertici.
D’accordo, almeno su questo siamo d’accordo: Madonna Santa Benedetta, aiutaci a purificare le nostre menti e i nostri cuori, ut digni efficiamur promissionibus Christi.
http://www.unavox.it/ArtDiversi/DIV781_Belvecchio_Misera_risposta.html
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