Dopo quanto pubblicato sembra ragionevole ritenere, a tutt’oggi, 12 maggio, che vi sia stato solo un breve incontro per un saluto informale, al termine del pranzo, che peraltro papa Bergoglio avrebbe consumato, come al solito, in un angolo della sala, mentre Mons. Fellay, i suoi due Assistenti e gli ufficiali dell’EcclesiaDei: Mons. Pozzo e Mons. Di Noia, avrebbero consumato per conto loro.
Un vaticanista solitamente bene informato, nel suo pezzo ha voluto aggiungere una nota di colore: “Quando Francesco si è alzato a fine cena, il superiore della Fraternità San Pio X ha fatto lo stesso ed è andato verso il Papa, inginocchiandosi per chiedere una benedizione.” (Vatican Insider)
Non sappiamo quanto sia attendibile questo particolare, poiché a parte l’irritualità, l’informatore è notoriamente portato a descrivere i fatti in modo che coincidano con il suo convincimento che la Fraternità San Pio X debba sottomettersi incondizionatamente a Roma.
Da parte sua, la Fraternità ha tenuto a precisare che si è trattato di un brevissimo saluto di cortesia, senza implicazioni di alcun genere, per di più del tutto casuale ed estemporaneo (DICI).
L’insieme delle notizie permette di comporre un quadro piuttosto attendibile di come siano andate le cose, e noi ci permettiamo di raccontarle a modo nostro, completandole con alcune considerazioni collaterali e attinenti, non solo per delineare un quadro più ricco e probante, ma per sviluppare poi alcune osservazioni che ci sembrano opportune e necessarie.
Dopo i mesi turbolenti del 2012 vissuti nella Fraternità, quando non andò in porto il tentativo d’accordo tra Mons. Fellay e la Curia romana, regnante Benedetto XVI, fu necessario ripristinare un clima più conciliante. Si moltiplicarono i richiami alla impossibilità di giungere ad una qualche soluzione; parola d’ordine: lasciamo le cose come sono.
Ciò nonostante, avendo definitivamente abbandonato il principio che ogni possibile regolarizzazione avrebbe dovuto seguire solo il ritorno di Roma alla Tradizione, per la Fraternità era giocoforza mantenere i contatti con Roma per cercare di trovare una scappatoia canonica in grado di placare gli animi al suo interno e di venire incontro in qualche modo all’istanza dell’accettazione del Vaticano II, sempre cocente in Vaticano.
Le discussioni proseguono, tramite gli uomini di collegamento, gli incontri informali, gli appuntamenti formali. Ogni tanto un sacerdote della Fraternità “cápita” in Vaticano; un altro va a prendere il caffè col monsignore; un vescovo viene convocato in Commissione; e in quasi due anni le cose vanno avanti, con qualche intoppo al tempo della nascita del “papa emerito” e nei primi mesi di vita del “vescovo di Roma”.
Addirittura si arriva al “rientro” in Commissione di Mons. Guido Pozzo: evidentemente papa Bergoglio vuole giuocare la carta della Fraternità… chissà forse per bilanciare la scoppola appioppata ai Francescani dell’Immacolata, patata bollente lasciatagli peraltro in dono dal “papa emerito”; il quale, da parte sua, non era riuscito a combinare nulla con Ecône, nonostante Ratzinger vorrebbe presentarsi al Creatore senza questo chiodo che lo tormenta dal 1988.
Sembrerebbe così che le cose abbiano finito col prendere una piega acconcia, tanto che sarebbe giunto il momento di un incontro formale. Ovviamente nulla trapela, perché la delicatezza della questione in ballo richiede la massima discrezione, perfino la segretezza: guai a mettere in allarme gli ambienti della Fraternità, sono già tanti i sacerdoti che se ne sono andati; né tampoco è il caso di dare spago alle mire dei progressisti che vorrebbero scomunicare anche i banchi delle cappelle della Fraternità. Silenzio, dunque, e se capita qualche accenno, minimizzare, magari lasciare intendere che Roma è disposta a qualche cedimento pur di risolvere l’annoso problema.
Inevitabilmente, le voci sulla prosecuzione degli incontri per giungere ad un accordo pratico, non smettono di circolare, ma Menzingen le smentisce più volte; intanto la capacità diplomatica degli interlocutori scelti porta pian piano a qualche risultato: si potrebbe evitare la trafila compromettente del 2012, non parlando più di “preambolo dottrinale” da sottoscrivere. Per il momento, la Congregazione per la Dottrina della Fede viene lasciata da parte, anche perché la Commissione Ecclesia Dei ormai fa parte della Congregazione stessa e per di più a Roma hanno in mano la dichiarazione che Mons. Fellay consegnò nell’aprile del 2012 al cardinale Levada: inutile ricominciare tutto da capo, si può benissimo partire da dove si era rimasti allora.
La Commissione adombra la possibilità che si possa lavorare sulla stessa falsa riga del 2009: perché non ripristinare lo status quo ante il 1975? Tanto più che ormai non è più in ballo la “scomunica”, revocata nel 2009 da Benedetto XVI?
Dal punto di vista canonico la cosa è possibile e potrebbe venire incontro alle esigenze di Mons. Fellay, che non è più disposto a sottoscrivere un qualche documento che lo comprometterebbe definitivamente di fronte ai suoi sacerdoti.
Si profila la possibilità di un atto unilaterale di Roma, una sorta di revoca della revoca del 1975, ed un ritorno allo status quo ante.
Mons. Fellay trova la cosa praticabile e non esita ad accennarne ai suoi, parlando di un “riconoscimento di garanzia”, che sarebbe una cosa buona, dice ai seminaristi di Zaitkofen. Insomma, La scomunica è stata tolta, l’impegno dottrinale di Mons. Fellay è già in Vaticano dal 2012, la Fraternità è nata come un’opera della Chiesa, basta attenersi a questo e lasciare che si provi a considerare la Fraternità come canonicamente in regola… quanto meno in via sperimentale (“riconoscimento di garanzia”?), così da misurarne l’obbedienza a Roma “da dentro”.
Non è male come soluzione, … parliamone.
Mons. Pozzo convoca a Roma, per il 13 dicembre 2013, Mons. Fellay e i suoi due Assistenti, Don Pfluger e Don Nély.
DICI, organo ufficiale d’informazione della Fraternità, a maggio, dice che si è trattato di un “incontro informale”, formula diplomatica per dire nulla, che però la dice lunga sull’incontro stesso: non ci si mette a tavolino, due anni dopo il fallimento della trattativa del 2012, senza aver prima condotto in questi due anni un certosino lavoro di ricucitura; e solo dopo che questo lavoro ha portato a dei risultati concreti, si può decidere di passare ad un incontro “formale” e non “informale”: si convocano al completo i vertici della Fraternità per un incontro con i vertici della Commissione: si passa alla messa a punto.
Tale passo esige che non vi sia preventiva pubblicità, per i motivi detti prima, ma ha bisogno di un qualche riconoscimento almeno simbolico, con tanto di ufficialità implicita in un luogo pubblico del Vaticano.
Si decide di usare il ristorante della Casa Santa Marta, frequentato da monsignori del Vaticano e da monsignori ospiti, così che l’ufficialità possa essere sancita senza alcuna dichiarazione formale. Per di più, si tratta dello stesso ristorante frequentato da papa Bergoglio, a cui accedere nella stessa ora in cui pranza Bergoglio. Simbolicamente, il Papa, i responsabili dell’Ecclesia Dei e i capi della Fraternità, hanno pranzato insieme.
Tecnica finemente diplomatica: qui lo dico e qui lo nego.
Tuttavia, non si può predisporre un tale incontro “informale”, che nasconde la formalità, senza avvertire preventivamente papa Bergoglio: se non è un caso che questi usa la Casa Santa Marta per evitare tutte le pastoie protocollari, è altrettanto voluta la possibilità di dare veste informale anche a tanti incontri formali, così da poter sempre dire che non v’è stata premeditazione.
Mons. Fellay trova ottima la soluzione, potrà incontrare il Papa mentre è a pranzo con l’Ecclesia Dei, con la quale ha predisposto la soluzione della questione canonica della Fraternità: la presenza del Papa sarà una garanzia, a condizione che il Papa sia preventivamente al corrente della cosa. Ovviamente, il Papa, non solo è al corrente, ma ha dato il suo benestare, la cosa si può fare, ed è disposto ad incontrare “davanti a tutti” Mons. Fellay, per la classica “stretta di mano” fra uomini d’onore.
La prassi è del tutto consona alla tenuta comportamentale di papa Bergoglio: poco protocollo e arrivare al sodo.
Un bel giorno, “stabilito da tempo”, tutti a pranzo al Santa Marta, “casualmente”; si mangia e si beve; ad un certo punto, mentre il Papa sta per uscire dopo aver pranzato, ecco che Mons. Fellay si alza e gli va incontro, Mons. Pozzo fa da chaperon:
- Santità, questo è Mons. Fellay, della Fraternità San Pio X – Ah, sì, bene, piacere di conoscerla – Santità, bacio l’anello. Io prego per Lei – Sì, grazie, ne ho bisogno.
Poche battute, sotto gli occhi di tutti. … La cosa, però deve restare segreta!
Tanto segreta che, passate le feste di Natale, la voce già circola nella Fraternità e gli Assistenti ne parlano qua e là già a gennaio: tranquilli, nessun accordo in vista… piuttosto si parla di “riconoscimento unilaterale”… nessuna firma… tranquilli. Appena si sparge la voce, Menzingen smentisce: nessun accordo… ma non smentisce il “riconoscimento unilaterale”… anzi, Mons. Fellay lo riferisce con il commento che si tratta di una cosa buona.
Tutto è ancora tra il riservato e il segreto. Tutto può essere detto e tutto può essere smentito. Se non fosse che ai primi di maggio ne parla, in tutte le lingue, Mons. Williamson, facendo notare come la cosa sia un po’ subdola, perché permetterebbe di far passare in maniera indolore il rientro della Fraternità San Pio X sotto la giurisdizione di Roma: all’ubbidienza dei modernisti.
A questo punto, tra imbarazzo e disappunto, inutile aspettare oltre, tanto vale dire a tutti che c’è stato un incontro “informale”, che più formale di così si muore, … con tanto di stretta di mano col Papa.
Parte quindi l’indiscrezione… diventa una rivelazione… ne scrivono tutti… perfido Internet!… Menzingen conferma tutto, minimizzando al punto che si capisce subito che l’accordo è stato raggiunto.
***
La prima cosa che colpisce è lo stridente contrasto tra quanto pubblicato dai diversi organi d’informazione della Fraternità, a proposito dell’insegnamento e della pastorale di questo nuovo Papa, e il fatto che il Superiore si rechi, quasi in visita ad limina, a rendergli omaggio. Non v’è dubbio che il Superiore di una congregazione religiosa cattolica, com’è la Fraternità, debba andare a incontrare il Papa dopo la sua elezione, ma in questo caso la cosa appare alquanto irrituale, sia per la posizione canonica della Fraternità, sia perché non sappiamo se l’iniziativa del ristorante sia venuta dal Papa o da Mons. Fellay.
Quando, nel 2005, venne eletto il cardinale Ratzinger, Mons. Fellay incontrò in Vaticano Benedetto XVI in un incontro concordato, e in quell’occasione, intervistato, ci tenne a dichiarare che “se il Papa chiama, io corro!”.
Sarà stato anche così questa volta? Ha chiamato il Papa?
Non lo sappiamo, ma di certo sappiamo che l’elezione del cardinale Ratzinger, nell’aprile, aveva suscitato molte aspettative in seno alla Fraternità, tanto che fu visto come un buon auspicio il successivo incontro con Mons. Fellay, svoltosi subito in agosto. E le aspettative non furono nutrite solo all’interno della Fraternità, ma in quasi tutto il mondo della Tradizione. I segni manifestati dal cardinale negli anni precedenti lasciavano ben sperare. Tale buona disposizione, se così si può dire, venne rafforzata dagli atti posti da Benedetto XVI in direzione di una normalizzazione della posizione canonica della Fraternità; al punto tale che Mons. Fellay perseguì con decisione e con “sprezzo del pericolo” l’obiettivo di un possibile accordo col Vaticano, pieno di fiducia, com’era, insieme ad altri membri della Fraternità, nella buona volontà del Papa.
Il progetto non andò in porto, sia per l’opposizione sorta all’interno della Fraternità, sia e soprattutto perché a Roma ci si rese conto che non era possibile “normalizzare” la Fraternità, tutta intera, e che quindi, regolarizzata canonicamente la Fraternità “ufficiale”, sarebbe rimasta fuori dall’accordo ancora una Fraternità, quella che non avrebbe accettato l’accordo firmato da Mons. Fellay e che logicamente avrebbe proseguito con maggiore decisione la battaglia contro la corruzione della Fede attuata da Roma, battaglia iniziata da Mons. Lefebvre e oggi ancora in atto.
Recuperando lo spirito di questa battaglia, l’anno di pontificato di papa Bergoglio è stato caratterizzato da una serie di puntualizzazioni e di critiche che la Fraternità ha espresso in vario modo, fino alla totale disapprovazione delle avvenute canonizzazioni di Giovanni XXIII e di Giovanni Paolo II. La benevola disposizione nei confronti di Benedetto XVI si è mutata, a causa dei detti e dei fatti del nuovo Papa, in una critica e in una presa di distanza che tutto lasciava immaginare, tranne l’incontro tra Mons. Fellay e papa Bergoglio.
Ma l’incontro c’è stato, informale quanto si voglia, ma c’è stato, e c’è stato con la preventiva consapevolezza che sarebbe stato reso noto a tutti… è stato quindi un incontro programmato ed espressamente voluto in vista dell’effetto mediatico che avrebbe prodotto.
La cosa che colpisce è la casualità temporale tra la notizia pubblicata il 3 maggio da Mons. Williamson (Commenti Eleison n° 355), nella quale si rendeva noto che Mons. Fellay avrebbe detto: «Non si tratta di firmare un qualche accordo, … Ma se Roma ci propone un riconoscimento di tolleranza per noi, la cosa è diversa e sarebbe una cosa molto buona»; e la “rivelazione”, il 10 maggio, dell’avvenuto incontro del 13 dicembre 2013, tra Mons. Fellay e papa Bergoglio; “rivelazione” che in realtà ha permesso di sapere, ad opera della stessa Fraternità, che dal 2012 in poi ci sono stati ripetuti incontri con l’Ecclesia Dei, fino a quest’ultimo, che sarà pure “informale”, ma di certo ha tutta l’aria di essere invece un incontro conclusivo.
Il tipo di soluzione sembrerebbe essere un atto unilaterale di Roma, con esclusione di un “accordo” e di un “preliminare di accordo”. Soluzione che fin dal 2009 venne suggerita da molti, noi compresi, ma che allora non venne neanche adombrata perché la preoccupazione principale di Roma era di far sì che la Fraternità rinunciasse alla sua pregiudiziale d’origine e accettasse l’insegnamento e la pastorale del Vaticano II e delle riforme da esso scaturite.
Se oggi sembrerebbe che si profili ciò che Mons. Fellay chiama “riconoscimento di tolleranza”, questo potrebbe significare che Roma abbia rinunciato alla pregiudiziale mantenuta dallo stesso Benedetto XVI fino alla famosa lettera a Mons. Fellay giunta proprio a ridosso dello svolgimento del Capitolo, il 9 luglio 2012.
La cosa appare del tutto inverosimile, ma anche a voler ammettere che Roma voglia dare un taglio netto ad ogni trascorsa controversia e voglia ridare alla Fraternità la veste canonica che le spetta, il problema del Vaticano II resta intatto, anzi, si ripresenta oggi aggravato dal fatto che la sua applicazione è andata ben oltre le stesse riforme prodottesi dal 1969 in poi.
Oggi, dopo la nascita del “papa emerito” e l’avvento dell’insegnamento e della pastorale del “vescovo di Roma”, la problematica suscitata dalla eterodossia dei documenti del Vaticano II è divenuta cosa quasi di secondo ordine, riservata agli specialisti, poiché la pratica della fede in seno alla Chiesa cattolica ulteriormente “aggiornata”, ha ormai scavalcato a pie’ pari, e di gran lunga, i limiti dell’eterodossia: oggi ci troviamo al cospetto di una compagine ecclesiale che conserva solo nominalmente il titolo di cattolica.
In questo contesto così ulteriormente mutato, in peggio, la stessa ipotesi di un riconoscimento unilaterale di Roma, concepibile come possibile nel 2009, oggi è divenuta illogica e cattolicamente impraticabile, poiché non è pensabile che una congregazione religiosa cattolica, con tutti i suoi membri e i suoi fedeli, possa minimamente confondersi con il caravanserraglio romano che ogni giorno che passa appare sempre più lanciato verso la definitiva rinuncia alla pratica della vera fede cattolica.
Non si tratta neanche più di un problema legato alla Fraternità, ma di un problema legato alla Chiesa stessa.
Se il Signore suscitò nel 1970 l’opera di Mons. Lefebvre, non è possibile pensare che Egli non avesse presente la deriva a cui sarebbe andata incontro la Sua Chiesa per colpa degli stessi uomini di Chiesa. Ne deriva che quest’opera suscitata dal Signore, qualunque possa essere la sua eventuale connotazione nel corso del tempo, in base all’azione degli uomini che la compongono, assolve una funzione provvidenziale: mantenere viva la pratica della vera fede, nonostante la deriva dell’istituzione ufficiale, rendere testimonianza alla vera fede, nonostante il Vaticano attuale.
In altre parole, se la fede si manterrà ancora nel mondo, via via che i tempi si faranno più bui e più si avvicinerà l’ora del “ritorno del Figlio dell’Uomo”, questo lo si dovrà alla Provvidenza di Dio che, mentre permetterà la deriva dell’istituzione, provvederà a suscitare continuamente le guide per il “piccolo resto”, il quale realizzerà, con la sua esistenza e la sua perseveranza, la promessa di Cristo: “non prevalebunt”.
La Fraternità è nata per questo, e per questo Nostro Signore ha permesso che durasse. Essa non è nata per redimere gli uomini di Chiesa che hanno voltato le spalle a Cristo, né per salvare la Chiesa, che è compito di Cristo stesso, ma è nata per rendere testimonianza a Cristo, nel modo consentito da questi tempi di apostasia, nei quali non sono più valide le impostazioni teologiche e le disposizioni canoniche di tutt’altro tempo.
In tempi siffatti e nelle condizioni che sono sotto gli occhi di tutti, ogni opera suscitata da Nostro Signore per perseguire la persistenza della fede nella residua compagine cattolica – sia essa la Fraternità o altro -, non può permettersi di “confondersi” con l’istituzione attuale, anzi ha la necessità e il dovere di distinguersi: sia per non procurare confusione negli animi dei fedeli, sia per preservare la sua stessa esistenza, da durare per tutto il tempo previsto dalla Divina Provvidenza.
Per finire e a scanso di equivoci, sentiamo il dovere di prevenire un’obiezione che sappiamo quanto assilli certi ambienti tradizionali: prescindere dal Vaticano attuale può solo significare scadere nel sedevacantismo, di principio o di fatto, perché non si può pretendere di rimanere cattolici senza la dovuta sottomissione al Papa.
Il principio è corretto, ma è errata la sua applicazione. Nessuno ha il potere di prescindere dal Papa, ma tutti hanno il dovere di ubbidire a Dio, e se sottomettersi al Papa dovesse significare venir meno, anche solo in parte, agli insegnamenti e ai comandi di Dio, non è concepibile che possa esserci qualcuno, sano di mente, che pensi che si debba comunque ubbidire ad un papa prescindendo da Dio.
Al Papa si ubbidisce quand’egli è il Vicario di Cristo, non quando agisce, si comporta e insegna prescindendo da Cristo o deviando da Cristo. E se si verifica quest’ultima evenienza, come accade in modo sempre più accentuato ormai da quarant’anni, questo non significa che il Papa non è più Papa, come sostengono i sedevacantisti, ma molto semplicemente che il Signore permette che questo avvenga per mettere alla prova i “suoi”. Non sta scritto da nessuna parte che questo non è possibile o che non sarebbe possibile, tanto più che nessuno può entrare nella mente di Dio, e nessuno può negare che questo semplicemente accade… come accade il male perché Dio lo permette.
D’altronde, se “verranno tempi” nei quali la fede non ci sarà quasi più sulla terra, in che modo si verificherà questo, se non con la constatazione che la fede è venuta meno proprio là dove avrebbe dovuto essenzialmente continuare a sussistere, e cioè in Vaticano? E se la fede viene meno in Vaticano, come la si potrà mai far persistere se non fuori dal Vaticano?
Come ha già scritto il nostro Servodio su questo sito:
«Oggi ci troviamo in una fase accentuata del processo di decadimento e ciò che occorre è una tenuta quanto mai radicale della fede, indipendentemente da come si svolgono le cose della Chiesa ufficiale. Una tenuta che, per quanto difficile da definire e da praticare, per quanto complicata da giustificare in termini comuni, permetta di salvare il salvabile, in ordine alla pratica della fede e al mantenimento dei mezzi soprannaturali per la salvezza delle anime. E per far questo è importante che si giunga a considerare che il perdurare della fede nel mondo fino alla Parusia è cosa che può avvenire, sempre secondo i piani di Dio, anche indipendentemente dalle vicende della Chiesa ufficiale, della neo-Chiesa nata dal Vaticano II. E a chi, a questo punto, ci volesse richiamare ad un maggiore sensus Ecclesiae, rispondiamo, sulla base di quanto dicevamo prima a proposito della reale consistenza della Chiesa di Cristo in questi tempi ultimi, che è proprio il sensus Ecclesiae che ci spinge a considerare che la permanenza della fede e dei mezzi soprannaturali per la salvezza delle anime deve e può continuare a sussistere cum Petro et sub Petro, si necesse obstante Petro - con Pietro e sotto Pietro, se necessario nonostante Pietro.»
(1988-2012: 24 anni di miglioramenti?).
di Giacomo Devoto
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