Papa Francesco incassa le prime sconfitte politiche del suo Pontificato
Bergoglio, che come ogni gesuita ospita in sé un filosofo della storia, diffida per istinto dei trattati fra gli uomini, quando inventano nazioni sulla carta e tracciano confini artificiali, destinati a non reggere “nemmeno con la colla”. Deve sembrargli questa la sorte imminente dell’Iraq, concepito un secolo fa in laboratorio: al pari della vecchia Jugoslavia, ormai “ex” e citata espressamente a mo’ di esempio da non ripetere,nell’intervista di giugno su La Vanguardia.
Tuttavia lo sfratto esecutivo, che il califfo dello Stato Islamico Al - Baghdadi ha intimato ai cristiani di Mossul, agli occhi del Papa non infrange soltanto gli accordi tra Sykes e Picot, che in nome di Londra e Parigi si spartirono il Medio Oriente, ma il patto millenario tra Dio e Abramo, padre comune delle tre fedi monoteiste.
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Nella geografia “economica” del Pontefice argentino, la terra fra il Tigri e l’Eufrate conserva un asset più importante del petrolio, per il futuro dell’umanità. Se all’analisi geopolitica il paesaggio iracheno risulta infatti teatro di una infinita odissea d’Oriente, da cui l’Occidente ancora non fa ritorno, all’anamnesi religiosa offre invece il background di un ritorno alle origini, quando Est e Ovest costituivano una sola civiltà. Nel nome di Abramo.
È questa la radice che Al - Qaeda in definitiva punta a estirpare, separando e serrando i ranghi confessionali. Un disegno che Francesco d’Arabia credeva di avere scongiurato con la campagna di Siria, in una corsa contro il tempo, sbarrando la strada di Obama sulla via di Damasco e concentrando le “divisioni del Papa” sul fronte orientale. Dove però, a un anno di distanza, conosce e subisce la prima sconfitta del pontificato.
Il viaggio kennediano in Terra Santa e il summit successivo in Vaticano lo hanno esposto troppo e troppo personalmente, in veste di protagonista, per sottrarlo al bilancio negativo di queste ore, che fanno registrare un generale peggioramento delle condizioni e un ulteriore arretramento delle posizioni della Chiesa, nonostante l’attivismo del suo leader.
Invece di aprire un “buco nel tetto”, immagine proposta da Bergoglio per sollevare il processo di pace dalle dispute sulle planimetrie, il confronto è finito sotto terra, letteralmente, nei tunnel della Striscia, rovesciando l’auspicio del Papa e completando una involuzione che parte da lontano. Nel 1996.
Sul finire di quell’anno, entravo nella stanza di Benjamin Netanyahu a Gerusalemme, la stessa dove un giorno mi ero trovato faccia a faccia con Yitzhak Rabin e gli avevo chiesto di raccontare il suo sogno di pace, in una lunga intervista testamento.
“Molti ritengono che sarebbe inutile fare a Lei la stessa domanda, signor primo ministro, perché Netanyahu non sogna...", buttai là provocatorio al nuovo premier, vincitore a sorpresa su Shimon Peres nella battaglia delle urne, contro le aspettative di Karol Wojtyla.
Anche per Jorge Bergoglio, diciotto anni dopo, l’utopia di una visione politica “alta” costituisce la barriera invisibile, l’unico e autentico “protective edge” o margine protettivo che dir si voglia, oltre il quale la storia scivola nella barbarie.
Anche per Jorge Bergoglio, diciotto anni dopo, l’utopia di una visione politica “alta” costituisce la barriera invisibile, l’unico e autentico “protective edge” o margine protettivo che dir si voglia, oltre il quale la storia scivola nella barbarie.
Nella sua lettura gesuitica e sofisticatamente manichea degli eventi, come luoghi dell’eterna contesa tra il bene e il male, non esiste la terra di mezzo. L’assenza di sogni materializza gli incubi. La realpolitik è l’anticamera dei mostri.
È questo in filigrana il senso del comunicato con cui la Santa Sede, di fatto, ha condannato l’azione di Netanyahu, confermando lo spirito di “condivisione” con Peres e Abu Mazen, “uomini di pace che vogliono la pace”. Ma che oggi si trovano sul ciglio di un conflitto. Il quinto tra arabi e israeliani. A quarant’anni dal Kippur.
Nel grande Medio Oriente di Bergoglio, che dalle spiagge di Gaza si estende ai contrafforti del Kurdistan, esiste una rete di significati reconditi, un collegamento “sotterraneo” di stati d’animo, per rimanere in tema di metafora, fra l’esodo dei cristiani che risalgono le montagne, in fuga da Mosul, e i corpi d’assalto di Tsahal, che scendono nei cunicoli di Hamas.
Si tratta di una ramificazione profonda, di una mappa per ora indecifrata di sensazioni che penetrano l’immaginario del mondo arabo e sfuggono all’infrarosso delle forze speciali, come pure agli specialisti dell’analisi. Ma che potrebbero riportare in Terra Santa, per la prima volta dopo un millennio, il virus e il contagio della guerra di religione.
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