Il linguaggio tradito
Le parole spezzate, prive di senso genuino, sono incapaci di salvare la ragione e le azioni degli uomini, proprio come il pane che non sia di frumento e il vino che non sia d’uva non possono essere consacrati nel Corpo e nel Sangue di Gesù Cristo per salvare le anime. C’è un legame evidente e insieme misterioso tra la Parola di Dio e la parola dell’uomo, così come tra le creature.
di Alessandro Gnocchi
Eppure gli innocenti continuano a morire e nascere secondo leggi che offendono Dio e umiliano l’uomo. Eppure oggi, ancora più di avantieri, la buona morte e la buona nascita sono lì per diventare moneta sonante anche dove avevano incontrato almeno un po’ di opposizione. Eppure l’eugenetica e gli altri mali che inquietavano Chesterton al principio del secolo scorso si stanno incarnando all’inizio di quello in corso. Si potrebbe riempire una pagina di “eppure” mettendo alla fine del conto il crescente massacro di cristiani. Eppure gli intellò cattolici e i pastori che solo un pontificato fa menavano vanto di “non negoziare” adesso sono altrove, oppure, se va bene, suonano un’ottava sotto e tirano sul prezzo.
Un epilogo per il quale non si può neanche evocare la grandezza romantica di una trahison, perché quei clercs così solerti nell’assecondare Benedetto XVI non si battevano per dei principi: difendevano una linea. Nel Paese che ospitava il Papa dei valori non negoziabili, si trattava di un segno tracciato appena un poco più avanti che in altre lande, ma nulla di più.
Cambiato il capo, è cambiata la linea. Oggi, intellò, pastori e pecorelle, salvo rare e lodevoli eccezioni, battono la nuova frontiera delle periferie esistenziali dove la valuta dottrinale e quella morale si assoggettano a un misericordioso cambio a tasso variabile. Domani chissà.
L’esito del referendum del 2005 sulla procreazione assistita, vinto con l’artificio dell’astensionismo e perso nel segreto dell’urna, aveva fatto gridare al genio politico italiano, un po’ machiavellico e un po’ clericale. Ma, come in tutte le vittorie politiche dei cattolici postomoderni, anche in quella della battaglia sulla legge 40 la fedeltà alla linea mascherava un’esiziale carenza dottrinale a cui nessuno voleva badare.
Per resistere agli assalti del mondo, ci vuole ben altro che una linea da difendere. Servono dottrina rigorosa, morale intransigente e preghiera fervorosa. Tutta merce introvabile in una Chiesa in cui nessuno ha gridato al lupo quando parole e concetti hanno preso a significare altro da quanto avevano detto fino a un momento prima. Una malattia incubata tra fine Ottocento e inizi del Novecento, esplosa con il nome di modernismo, mai completamente debellata e definitivamente conclamata dal Concilio Vaticano II in poi.
L’affermarsi di definizioni come “diversamente credente”, “fratello separato”, “comunione non piena”, “tradizione vivente”, solo per mostrare qualche esempio tra i più diffusi, evoca un’opera da Grande Fratello orwelliano. “E’ qualcosa di bello la distruzione delle parole” dice in “1984” un funzionario addetto alla costruzione della neolingua. “(…) E non mi riferisco solo ai sinonimi, sto parlando anche dei contrari. Che bisogno c’è di una parola che è solo il contrario di un’altra? Ogni parola già contiene in se stessa il suo contrario. Se hai a disposizione una parola come ‘buono’, che bisogno c’è di avere anche ‘cattivo’? ‘Sbuono’ andrà altrettanto bene”.
Oltre a “sbuono”, ci sarà quindi “plusbuono”, “arciplusbuono”, fino a un numero infinito di gradazioni. Con l’esito di violentare la parola ingravidandola con il seme del suo contrario e farle partorire l’esigenza della sua caducità, farle desiderare la sua stessa morte per manifesta insignificanza pur nella consapevolezza di non poter morire. Ma la violenza sulle parole è la fine degli uomini, è la chiusura dei Cieli, è la rinuncia a raddrizzare le creature piegate dal peccato. Se il “credente” non individua più il suo contrario nell’”ateo”, se non riconosce più i suoi antagonisti nell’”eretico” o nell’”idolatra”, ma può solo concepire diverse sfumature del credere, allora finisce per vezzeggiare una più comoda corruzione della fede invece che cercarne la purezza. E, allora, negoziare necesse est
Se nulla ha più il suo contrario, è segno che il principio di non contraddizione, che ha fondato la filosofia e la teologia cristiane, ha ceduto a quello che Orwell chiama bipensiero, “la capacità di accogliere simultaneamente nella propria mente due opinioni tra loro contrastanti, accettandole entrambe. L’intellettuale di Partito sa (…) di essere impegnato in una manipolazione della realtà, e tuttavia la pratica del bipensiero fa sì che egli creda che la realtà stessa non venga violata”.
L’osceno spettacolo della “vita” che diventa il proprio contrario senza essere chiamata “morte”, dell’”uomo” manipolato in qualcosa di “diversamente uomo” senza suscitare almeno un fremito d’orrore può essere interrotto solo da chi chiami le cose con il loro nome. Ma una Chiesa votata a radunare credenti, diversamente credenti e non credenti al cospetto dell’immagine di un Dio sempre più evanescente si è da tempo privata dei mezzi per fare chiarezza.
È l’esito di un’operazione condotta per via esogena e per via endogena attraverso una metodica che ricalca quella descritta da Vladimir Volkoff nel “Montaggio”, un raro e quasi inosservato romanzo di spionaggio che, come tutti i capolavori del genere, cela un saggio acuminato sulla natura dell’uomo e sul mistero di Dio. Volkoff vi narra come, tra gli Anni Sessanta e Ottanta del secolo scorso, l’Unione Sovietica abbia manipolato, fino quasi spezzarla, l’intelligenza dell’occidente. Un’opera paziente e inesorabile fondata, come rivela l’emissario della misteriosa “Direzione” degli agenti di influenza a una promettente recluta, su tre archetipi: la Leva, il Triangolo e il Fil di ferro.
“La prima immagine” dice il reclutatore delle “Direzione” “è la Leva. Più grande è la distanza fra il punto d’appoggio e il punto d’applicazione, più grande è il peso che si può sollevare, mantenendo uguale la forza. Bisogna ben impregnarsi dell’idea che ciò che forma la Leva è la distanza stessa e, di conseguenza, cercare sempre di aumentarla, mai di diminuirla. Ne deriva che, nel campo dell’influenza, non bisogna mai agire da soli, ma sempre attraverso un intermediario o, ancor meglio, attraverso una catena di intermediari. (…) Ha visto quel manifesto che rappresenta una madre con il bambino in braccio e il motto ‘Lottiamo per la pace’? E’ un’idea della nostra Direzione. Nell’Unione Sovietica, per lanciare lo stesso appello, abbiamo un manifesto con lo stesso motto, ma sa cosa vi è raffigurato? Un soldato dell’Armata Rossa con il mitra sulla pancia”. E quando la recluta chiede se la Leva sia quel manifesto, il maestro risponde: “No! La Leva è l’ingenuo che contempla il manifesto e ne ripercuote il messaggio perché, credendo nelle virtù della pace, non può fare a meno di credere alla sincerità di chi la rivendica”.
Quanto al Triangolo, svela il maestro, “si tratta ancora di un’applicazione del principio di base: nulla di diretto, sempre degli intermediari, mai lottare sul proprio terreno o su quello dell’avversario, regolargli il conto altrove, in un altro paese, in un altro contesto sociale, in un altro campo intellettuale che non sia quello in cui vi è veramente conflitto. Questa concezione presuppone tre partecipanti: noi, l’avversario e un elemento di contrasto, cioè un elemento che riverbera la nostra manovra. (…) Supponiamo che io decida di estendere la mia influenza su un certo paese. Il Triangolo sarà composto da me, dalle autorità di quel paese e dal suo popolo, che è l’elemento di contrasto”.
Infine, “L’immagine del Fil di ferro deriva dal fatto che, per spezzarlo, bisogna torcerlo nelle due direzioni opposte. Ora lei tocca proprio il fondo della nostra arte, uso la parola a proposito. L’agente d’influenza è il contrario di un propagandista, o meglio è il propagandista assoluto, colui che fa propaganda allo stato puro, mai in favore, sempre contro, senz’altro scopo che dare gioco, allentare, tutto scollare, sciogliere, disfare, disserrare. (…) l’agente d’influenza sovietico non si farà mai passare per un comunista. Ora con la sinistra, ora con la destra, segherà sistematicamente l’ordine esistente. (…) Basta giocare il rosso e il nero, il pari e il dispari”.
Ecumenismo di nuovo conio e buonismo interreligioso diffusi fin nell’ultima sacrestia: e così è piantata nel cuore della Chiesa la Leva che ne scardinerà l’ordine. Una pastorale votata a vanificare la dottrina sul terreno della prassi, per il bene del popolo di Dio che tutto e tutti sussume: e il Triangolo è chiuso a dovere. Un conservatorismo flaccido che se un tal documento, un tal gesto, un tal rituale vengono torti po’ troppo verso sinistra, invece di denunciare che sono divenuti un’altra cosa, mostra volentieri che li si può raddrizzare torcendoli anche verso destra: e il Fil di ferro del rigore si spezza assieme all’intelligenza di chi abbia assecondato il gioco.
Le intelligenze spezzate sono le piaghe più profonde e dolorose lasciate sulla carne della Chiesa dal colpevole oblio dell’essere. Una volta tolto lo sguardo dalla Grecia di Socrate, Platone e Aristotele, si è rinunciato all’unica via attraverso la quale può parlare a tutti gli uomini di tutti i luoghi e di tutti tempi. “La Chiesa” dice Marshall Mc Luhan è nata quando la scrittura fonetica greca stava muovendo ancora i suoi primi passi. La cultura greco-romana viveva ancora la sua infanzia quando la Chiesa già era costituita. Credo bene che ciò non sia un semplice accidente storico, bensì il frutto di una disposizione provvidenziale. (…) la Chiesa si è trovata incarnata fin dagli inizi nell’unica cultura che andava elaborando delle posizioni solide e fisse. (…) La cultura greco-romana, che sembra essere stata imposta alla Chiesa come la corazza alla tartaruga non offriva nessuna possibilità a una teoria (…) del cambiamento. Tutto ciò si è interposto tra la Chiesa e le altre culture del mondo, le quali vivono di forme accomodanti, flessibili ed evolutive”.
Nella Grecia classica, la Chiesa ha colto l’emergere immutabile dell’essere e gli strumenti per dirlo. E ha trovato la via per conoscere nell’intimo quell’universo che Sant’Agostino chiamava Verbum prolatum, Parola proferita, quasi voce della Parola di Dio, articolazione delle Sue sillabe dette una volta per sempre. Per questo le parole e il loro significato non possono essere mutati. Tanto il linguaggio, quanto il pensiero razionale, si fondano sull’ineffabile: per indicare una cosa nello spazio, basta l’urlo di un animale, ma per definirlo nel tempo serve il parlare articolato dell’uomo, espressione piccola e limitata del Verbo inesauribile nel pensiero umano.
Le parole spezzate, prive di senso genuino, sono incapaci di salvare la ragione e le azioni degli uomini, proprio come il pane che non sia di frumento e il vino che non sia d’uva non possono essere consacrati nel Corpo e nel Sangue di Gesù Cristo per salvare le anime. C’è un legame evidente e insieme misterioso tra la Parola di Dio e la parola dell’uomo, così come tra le creature. Fu forse il monaco carolingio Rabano Mauro, abate benedettino di Fulda e arcivescovo di Magonza, a chiamare per primo questo legame “analogia”, che è una delle caratteristiche dell’essere. Nel “De rerum naturis et verborum proprietatibus” Rabano dice che tutto l’universo si regge sulla legge dell’anologia.
“La legge dell’analogia” scrive Attilio Mordini in “Verità del linguaggio”, un saggio tanto prezioso quanto sconosciuto “che ci mostra le creature come simboli, non in un convenzionale e rigido allegorismo, bensì come la vita stessa delle cose veramente amate, è il linguaggio di Dio nella creazione; e non vi sarebbe il linguaggio dell’uomo se la legge del simbolo fosse soltanto un’astrazione. Infatti la parola umana è proprio un simbolo, il primo e l’ultimo simbolo dell’uomo, il simbolo da cui muove tutta l’esperienza del mondo esteriore, e il simbolo a cui l’esperienza stessa torna per farsi giudizio, preghiera, linguaggio d’amore”.
Private del loro significato le parole, non smettono di parlare, divengono simboli impazziti che distruggono la ragione. Divengono strumenti di un rito blasfemo che produce gli echi dell’inferno già qui sulla terra. Un esito evocato da Thomas Mann nel “Doctor Faustus” in una pagina in qualche punto teologicamente eccepibile, ma letterariamente potente: “Questa è, precisamente, la gioia segreta, la sicurezza dell’inferno: che non è enunciabile, che è salva dal linguaggio, che esiste semplicemente, ma non la si può mettere nel giornale, non la si può rendere pubblica, non se ne può dare una nozione critica con parole, poiché le parole sotterraneo, cantina, mura spesse, silenzio, oblio, mancanza di salvezza sono solo deboli simboli (…) là tutto finisce, ogni pietà, ogni grazie, ogni riguardo e fino all’ultima traccia di comprensione per l’obiezione incredula e scongiurante: ‘Questo voi potete, eppure non potete fare di un’anima’. E invece sì, lo si fa e avviene senza il controllo della parola, in cantine afone, laggiù in fondo dove Dio non ode, e per tutta l’eternità”.
Il riflesso divino nel linguaggio dell’uomo che salva la ragione da quest’inferno trova sublimazione nelle parole che perpetuano il sacrificio del Logos sulla Croce. Inchiodate là sul simbolo dei simboli, epilogo dell’incarnazione del Verbo, riportano in asse la creazione intera. “Hoc est enim Corpus meum”: se il sacerdote si sostituisce in qualche modo simbolicamente alla persona di Gesù nel pronunciare queste parole, proprio in quel momento il simbolo si fa realtà sostanziale nelle specie del pane, e poi del vino. Realtà e simbolo si incontrano come una retta verticale che vada a trafiggere quella orizzontale al centro di una croce. E il mondo, popolato dai tanti legami dell’analogia ma sfigurato dal peccato, può continuare a reggersi.
Alla fine, è questo il bersaglio ultimo di chi ha corrotto il linguaggio fino quasi a farne l’inferno del “Doctor Faustus”, nell’illusione che Dio più non oda e più non parli.
“Impossibile che la Direzione non sia passata di qui” dice fra sé il protagonista del “Montaggio” assistendo a una Messa cattolica riformata. “Fu di una povertà sconcertante, la volgarità della musichetta sottolineava l’insulsaggine delle strofe. Aleksandr, che ricordava le austere magnificenze del rito gregoriano e, talvolta, frequentava le chiese ortodosse dove ‘il Signore si veste di splendore’, non capì nulla di quella parodia d’ufficio protestante, con ritornelli numerati e letture in una lingua grossolana se non plebea. ‘Impossibile’ disse fra sé ‘che la Direzione non sia passata di qui. Impossibile che la Chiesa abbia rinunciato spontaneamente alla bellezza di un servizio che dà agli uomini della terra un’idea del Regno dei Cieli. Quas vult perdere Directoratus dementat”.
È per questo che intellò e pastori hanno cessato parlare.
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(pubblicato su Il Foglio del 13 agosto 2014)
http://www.riscossacristiana.it/il-linguaggio-tradito-di-alessandro-gnocchi/
Luca Signorelli – La predica dell’Anticristo
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Un epilogo per il quale non si può neanche evocare la grandezza romantica di una trahison, perché quei clercs così solerti nell’assecondare Benedetto XVI non si battevano per dei principi: difendevano una linea. Nel Paese che ospitava il Papa dei valori non negoziabili, si trattava di un segno tracciato appena un poco più avanti che in altre lande, ma nulla di più.
Cambiato il capo, è cambiata la linea. Oggi, intellò, pastori e pecorelle, salvo rare e lodevoli eccezioni, battono la nuova frontiera delle periferie esistenziali dove la valuta dottrinale e quella morale si assoggettano a un misericordioso cambio a tasso variabile. Domani chissà.
L’esito del referendum del 2005 sulla procreazione assistita, vinto con l’artificio dell’astensionismo e perso nel segreto dell’urna, aveva fatto gridare al genio politico italiano, un po’ machiavellico e un po’ clericale. Ma, come in tutte le vittorie politiche dei cattolici postomoderni, anche in quella della battaglia sulla legge 40 la fedeltà alla linea mascherava un’esiziale carenza dottrinale a cui nessuno voleva badare.
Per resistere agli assalti del mondo, ci vuole ben altro che una linea da difendere. Servono dottrina rigorosa, morale intransigente e preghiera fervorosa. Tutta merce introvabile in una Chiesa in cui nessuno ha gridato al lupo quando parole e concetti hanno preso a significare altro da quanto avevano detto fino a un momento prima. Una malattia incubata tra fine Ottocento e inizi del Novecento, esplosa con il nome di modernismo, mai completamente debellata e definitivamente conclamata dal Concilio Vaticano II in poi.
L’affermarsi di definizioni come “diversamente credente”, “fratello separato”, “comunione non piena”, “tradizione vivente”, solo per mostrare qualche esempio tra i più diffusi, evoca un’opera da Grande Fratello orwelliano. “E’ qualcosa di bello la distruzione delle parole” dice in “1984” un funzionario addetto alla costruzione della neolingua. “(…) E non mi riferisco solo ai sinonimi, sto parlando anche dei contrari. Che bisogno c’è di una parola che è solo il contrario di un’altra? Ogni parola già contiene in se stessa il suo contrario. Se hai a disposizione una parola come ‘buono’, che bisogno c’è di avere anche ‘cattivo’? ‘Sbuono’ andrà altrettanto bene”.
Oltre a “sbuono”, ci sarà quindi “plusbuono”, “arciplusbuono”, fino a un numero infinito di gradazioni. Con l’esito di violentare la parola ingravidandola con il seme del suo contrario e farle partorire l’esigenza della sua caducità, farle desiderare la sua stessa morte per manifesta insignificanza pur nella consapevolezza di non poter morire. Ma la violenza sulle parole è la fine degli uomini, è la chiusura dei Cieli, è la rinuncia a raddrizzare le creature piegate dal peccato. Se il “credente” non individua più il suo contrario nell’”ateo”, se non riconosce più i suoi antagonisti nell’”eretico” o nell’”idolatra”, ma può solo concepire diverse sfumature del credere, allora finisce per vezzeggiare una più comoda corruzione della fede invece che cercarne la purezza. E, allora, negoziare necesse est
Se nulla ha più il suo contrario, è segno che il principio di non contraddizione, che ha fondato la filosofia e la teologia cristiane, ha ceduto a quello che Orwell chiama bipensiero, “la capacità di accogliere simultaneamente nella propria mente due opinioni tra loro contrastanti, accettandole entrambe. L’intellettuale di Partito sa (…) di essere impegnato in una manipolazione della realtà, e tuttavia la pratica del bipensiero fa sì che egli creda che la realtà stessa non venga violata”.
L’osceno spettacolo della “vita” che diventa il proprio contrario senza essere chiamata “morte”, dell’”uomo” manipolato in qualcosa di “diversamente uomo” senza suscitare almeno un fremito d’orrore può essere interrotto solo da chi chiami le cose con il loro nome. Ma una Chiesa votata a radunare credenti, diversamente credenti e non credenti al cospetto dell’immagine di un Dio sempre più evanescente si è da tempo privata dei mezzi per fare chiarezza.
È l’esito di un’operazione condotta per via esogena e per via endogena attraverso una metodica che ricalca quella descritta da Vladimir Volkoff nel “Montaggio”, un raro e quasi inosservato romanzo di spionaggio che, come tutti i capolavori del genere, cela un saggio acuminato sulla natura dell’uomo e sul mistero di Dio. Volkoff vi narra come, tra gli Anni Sessanta e Ottanta del secolo scorso, l’Unione Sovietica abbia manipolato, fino quasi spezzarla, l’intelligenza dell’occidente. Un’opera paziente e inesorabile fondata, come rivela l’emissario della misteriosa “Direzione” degli agenti di influenza a una promettente recluta, su tre archetipi: la Leva, il Triangolo e il Fil di ferro.
“La prima immagine” dice il reclutatore delle “Direzione” “è la Leva. Più grande è la distanza fra il punto d’appoggio e il punto d’applicazione, più grande è il peso che si può sollevare, mantenendo uguale la forza. Bisogna ben impregnarsi dell’idea che ciò che forma la Leva è la distanza stessa e, di conseguenza, cercare sempre di aumentarla, mai di diminuirla. Ne deriva che, nel campo dell’influenza, non bisogna mai agire da soli, ma sempre attraverso un intermediario o, ancor meglio, attraverso una catena di intermediari. (…) Ha visto quel manifesto che rappresenta una madre con il bambino in braccio e il motto ‘Lottiamo per la pace’? E’ un’idea della nostra Direzione. Nell’Unione Sovietica, per lanciare lo stesso appello, abbiamo un manifesto con lo stesso motto, ma sa cosa vi è raffigurato? Un soldato dell’Armata Rossa con il mitra sulla pancia”. E quando la recluta chiede se la Leva sia quel manifesto, il maestro risponde: “No! La Leva è l’ingenuo che contempla il manifesto e ne ripercuote il messaggio perché, credendo nelle virtù della pace, non può fare a meno di credere alla sincerità di chi la rivendica”.
Quanto al Triangolo, svela il maestro, “si tratta ancora di un’applicazione del principio di base: nulla di diretto, sempre degli intermediari, mai lottare sul proprio terreno o su quello dell’avversario, regolargli il conto altrove, in un altro paese, in un altro contesto sociale, in un altro campo intellettuale che non sia quello in cui vi è veramente conflitto. Questa concezione presuppone tre partecipanti: noi, l’avversario e un elemento di contrasto, cioè un elemento che riverbera la nostra manovra. (…) Supponiamo che io decida di estendere la mia influenza su un certo paese. Il Triangolo sarà composto da me, dalle autorità di quel paese e dal suo popolo, che è l’elemento di contrasto”.
Infine, “L’immagine del Fil di ferro deriva dal fatto che, per spezzarlo, bisogna torcerlo nelle due direzioni opposte. Ora lei tocca proprio il fondo della nostra arte, uso la parola a proposito. L’agente d’influenza è il contrario di un propagandista, o meglio è il propagandista assoluto, colui che fa propaganda allo stato puro, mai in favore, sempre contro, senz’altro scopo che dare gioco, allentare, tutto scollare, sciogliere, disfare, disserrare. (…) l’agente d’influenza sovietico non si farà mai passare per un comunista. Ora con la sinistra, ora con la destra, segherà sistematicamente l’ordine esistente. (…) Basta giocare il rosso e il nero, il pari e il dispari”.
Ecumenismo di nuovo conio e buonismo interreligioso diffusi fin nell’ultima sacrestia: e così è piantata nel cuore della Chiesa la Leva che ne scardinerà l’ordine. Una pastorale votata a vanificare la dottrina sul terreno della prassi, per il bene del popolo di Dio che tutto e tutti sussume: e il Triangolo è chiuso a dovere. Un conservatorismo flaccido che se un tal documento, un tal gesto, un tal rituale vengono torti po’ troppo verso sinistra, invece di denunciare che sono divenuti un’altra cosa, mostra volentieri che li si può raddrizzare torcendoli anche verso destra: e il Fil di ferro del rigore si spezza assieme all’intelligenza di chi abbia assecondato il gioco.
Le intelligenze spezzate sono le piaghe più profonde e dolorose lasciate sulla carne della Chiesa dal colpevole oblio dell’essere. Una volta tolto lo sguardo dalla Grecia di Socrate, Platone e Aristotele, si è rinunciato all’unica via attraverso la quale può parlare a tutti gli uomini di tutti i luoghi e di tutti tempi. “La Chiesa” dice Marshall Mc Luhan è nata quando la scrittura fonetica greca stava muovendo ancora i suoi primi passi. La cultura greco-romana viveva ancora la sua infanzia quando la Chiesa già era costituita. Credo bene che ciò non sia un semplice accidente storico, bensì il frutto di una disposizione provvidenziale. (…) la Chiesa si è trovata incarnata fin dagli inizi nell’unica cultura che andava elaborando delle posizioni solide e fisse. (…) La cultura greco-romana, che sembra essere stata imposta alla Chiesa come la corazza alla tartaruga non offriva nessuna possibilità a una teoria (…) del cambiamento. Tutto ciò si è interposto tra la Chiesa e le altre culture del mondo, le quali vivono di forme accomodanti, flessibili ed evolutive”.
Nella Grecia classica, la Chiesa ha colto l’emergere immutabile dell’essere e gli strumenti per dirlo. E ha trovato la via per conoscere nell’intimo quell’universo che Sant’Agostino chiamava Verbum prolatum, Parola proferita, quasi voce della Parola di Dio, articolazione delle Sue sillabe dette una volta per sempre. Per questo le parole e il loro significato non possono essere mutati. Tanto il linguaggio, quanto il pensiero razionale, si fondano sull’ineffabile: per indicare una cosa nello spazio, basta l’urlo di un animale, ma per definirlo nel tempo serve il parlare articolato dell’uomo, espressione piccola e limitata del Verbo inesauribile nel pensiero umano.
Le parole spezzate, prive di senso genuino, sono incapaci di salvare la ragione e le azioni degli uomini, proprio come il pane che non sia di frumento e il vino che non sia d’uva non possono essere consacrati nel Corpo e nel Sangue di Gesù Cristo per salvare le anime. C’è un legame evidente e insieme misterioso tra la Parola di Dio e la parola dell’uomo, così come tra le creature. Fu forse il monaco carolingio Rabano Mauro, abate benedettino di Fulda e arcivescovo di Magonza, a chiamare per primo questo legame “analogia”, che è una delle caratteristiche dell’essere. Nel “De rerum naturis et verborum proprietatibus” Rabano dice che tutto l’universo si regge sulla legge dell’anologia.
“La legge dell’analogia” scrive Attilio Mordini in “Verità del linguaggio”, un saggio tanto prezioso quanto sconosciuto “che ci mostra le creature come simboli, non in un convenzionale e rigido allegorismo, bensì come la vita stessa delle cose veramente amate, è il linguaggio di Dio nella creazione; e non vi sarebbe il linguaggio dell’uomo se la legge del simbolo fosse soltanto un’astrazione. Infatti la parola umana è proprio un simbolo, il primo e l’ultimo simbolo dell’uomo, il simbolo da cui muove tutta l’esperienza del mondo esteriore, e il simbolo a cui l’esperienza stessa torna per farsi giudizio, preghiera, linguaggio d’amore”.
Private del loro significato le parole, non smettono di parlare, divengono simboli impazziti che distruggono la ragione. Divengono strumenti di un rito blasfemo che produce gli echi dell’inferno già qui sulla terra. Un esito evocato da Thomas Mann nel “Doctor Faustus” in una pagina in qualche punto teologicamente eccepibile, ma letterariamente potente: “Questa è, precisamente, la gioia segreta, la sicurezza dell’inferno: che non è enunciabile, che è salva dal linguaggio, che esiste semplicemente, ma non la si può mettere nel giornale, non la si può rendere pubblica, non se ne può dare una nozione critica con parole, poiché le parole sotterraneo, cantina, mura spesse, silenzio, oblio, mancanza di salvezza sono solo deboli simboli (…) là tutto finisce, ogni pietà, ogni grazie, ogni riguardo e fino all’ultima traccia di comprensione per l’obiezione incredula e scongiurante: ‘Questo voi potete, eppure non potete fare di un’anima’. E invece sì, lo si fa e avviene senza il controllo della parola, in cantine afone, laggiù in fondo dove Dio non ode, e per tutta l’eternità”.
Il riflesso divino nel linguaggio dell’uomo che salva la ragione da quest’inferno trova sublimazione nelle parole che perpetuano il sacrificio del Logos sulla Croce. Inchiodate là sul simbolo dei simboli, epilogo dell’incarnazione del Verbo, riportano in asse la creazione intera. “Hoc est enim Corpus meum”: se il sacerdote si sostituisce in qualche modo simbolicamente alla persona di Gesù nel pronunciare queste parole, proprio in quel momento il simbolo si fa realtà sostanziale nelle specie del pane, e poi del vino. Realtà e simbolo si incontrano come una retta verticale che vada a trafiggere quella orizzontale al centro di una croce. E il mondo, popolato dai tanti legami dell’analogia ma sfigurato dal peccato, può continuare a reggersi.
Alla fine, è questo il bersaglio ultimo di chi ha corrotto il linguaggio fino quasi a farne l’inferno del “Doctor Faustus”, nell’illusione che Dio più non oda e più non parli.
“Impossibile che la Direzione non sia passata di qui” dice fra sé il protagonista del “Montaggio” assistendo a una Messa cattolica riformata. “Fu di una povertà sconcertante, la volgarità della musichetta sottolineava l’insulsaggine delle strofe. Aleksandr, che ricordava le austere magnificenze del rito gregoriano e, talvolta, frequentava le chiese ortodosse dove ‘il Signore si veste di splendore’, non capì nulla di quella parodia d’ufficio protestante, con ritornelli numerati e letture in una lingua grossolana se non plebea. ‘Impossibile’ disse fra sé ‘che la Direzione non sia passata di qui. Impossibile che la Chiesa abbia rinunciato spontaneamente alla bellezza di un servizio che dà agli uomini della terra un’idea del Regno dei Cieli. Quas vult perdere Directoratus dementat”.
È per questo che intellò e pastori hanno cessato parlare.
- di Alessandro Gnocchi
(pubblicato su Il Foglio del 13 agosto 2014)
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