Loreto. “Qui non confessioni ma dialogo e ascolto”
Che ne è della fede, se nella Casa di Maria le anime non
trovano balsamo celeste per le ferite, ma il pane raffermo della chiacchiera?
di Alessandro Gnocchi
di Alessandro Gnocchi
Se un giorno di fine estate un pellegrino si avventurasse
nel santuario di Loreto in cerca un confessore, si guardi bene dall’aggirarsi
tra i confessionali posti attorno alla Santa Casa. Tenti invece in qualche
cappella minore, prima o poi vedrà un frate accomodato su una sedia, un fedele
non sempre in ginocchio e un piccolo gruppo in frettolosa attesa: vorrà dire
che è arrivato.
Ma, soprattutto, il pellegrino si astenga dal frugare con lo
sguardo nella Cappella degli slavi, dove un laconico cartello ammonisce a
caratteri di scatola “Qui non confessioni ma dialogo e ascolto” e un’opportuna
locandina spiega che il “Punto d’ascolto” è attivo ogni giorno dalle 10,00 alle
12,00 e dalle 16,00 alle 18,00.
Lì, a due passi dalla casa in cui Maria disse il suo “Sì”
all’angelo che le annunciava l’incarnazione del Verbo, le anime non trovano
balsamo celeste che curi le loro ferite, ma il pane raffermo della chiacchiera
mondana. Un tavolino con un drappo rosso gettato sopra, due sediole e, dalle
10,00 alle 12,00 e dalle 16,00 alle 18,00, talvolta un frate, talvolta una
suora, talvolta forse un esperto: per parlare laddove bisognerebbe tacere, per
sistemarsi a proprio agio laddove bisognerebbe stare in ginocchio, per
sospirare e divagare laddove bisognerebbe contemplare. Infine, per lasciare che
ognuno se ne vada così com’era arrivato, senza che un sacerdote, per conto di
Cristo, ne abbia curato con misericordiosa durezza le piaghe che altrove non
possono trovare lenimento.
Eppure, il malinconico avviso posto sulla balaustra della
Cappella degli slavi vorrebbe dare a credere che nel cambio ci si possa
guadagnare. Il “Qui non confessioni” seguito da un “ma” avversativo promette di
offrire ben altro con “dialogo e ascolto”. Lascia intendere che lì, sotto lo
sguardo dei Santi Cirillo e Metodio che convertirono l’Europa orientale alla
fede in Cristo, si possa trovare nella comprensione di un essere umano qualcosa
in più del perdono di Figlio di Dio. Eloquente esibizione della voglia matta di
resa al mondo di una chiesa riottosa al dogma che trasmette la Verità e ai
sacramenti attraverso cui scorre la Grazia.
Ma laddove il dogma si oscura e il sacramento si eclissa,
rimane la nuda tecnica e la chiacchiera usurpa il ruolo della confessione. Fin
dentro gloriosi santuari visitati da migliaia di pellegrini si manifestano
l’oscuramento dell’essere e il dominio tecnocratico paventati da Heidegger
quando il sentore di una giovinezza cattolica tornava a carezzare le sue narici
intellettuali. “Il tempo è povero non soltanto perché Dio è morto, ma perché
(…) la morte si ritrae nell’enigmatico” lamentava il filosofo di Messkirch in
“Perché i poeti?”. “Il mistero del dolore resta velato. Non s’impara ad
amare (…). Povera è questa povertà stessa perché dilegua la regione essenziale
in cui dolore, morte e amore si raccolgono”.
Fedeli senza più fede, atei senza più ateismo che scorrono
dentro e attorno alla Santa Casa di Nazareth portano nel cuore lo stesso dolore
del filosofo tedesco. E, insieme, hanno la speranza nascosta di rendere meno
povera la povertà di un mondo in cui faticano a vedere le tracce di Dio. Non
cercano qualcosa o qualcuno che funzionino perfettamente in orari d’ufficio
poiché ne hanno fino alla nausea nella vita feriale. Almeno dentro il recinto
sacro vorrebbero potersi liberare dalla tirannia della tecnica che reclama la
spoliazione dell’uomo. Come l’Heidegger di “Ormai soltanto un Dio ci può
salvare” sono atterriti dal fatto che “Tutto funziona. Questo è appunto
l’inquietante, che funziona e che il funzionare spinge sempre oltre verso un
ulteriore funzionare e che la tecnica strappa e sradica l’uomo sempre più dalla
terra (…). Non c’è bisogno della bomba atomica: lo sradicamento dell’uomo è già
fatto. Tutto ciò che resta è una situazione puramente tecnica. Non è più la
Terra quella su cui oggi l’uomo vive”.
Ma poi, giunti in cerca di radici vive nei pressi della Casa
in cui il Verbo si fece carne, questi cercatori dolenti si trovano al cospetto
delle povere chiacchiere di un tecnico poste in mostra sul bancone in nome di
una mercantile pluralità dell’offerta.
Quando Charles de Foucauld si convertì al cattolicesimo,
nell’ottobre del 1886, lo fece per mezzo di un sacerdote che non concesse
alcuno spazio al dialogo e all’ascolto. Lo narra lui stesso nei suoi ricordi,
parlando con il Signore ricordandogli le quattro grazie che gli concesse in
quei momenti: “La terza grazia fu di suggerirmi: poniamoci a studiare, dunque
questa religione; assumiamo un professore di religione cattolica, un prete
istruito, e vediamo cosa ne scappa fuori e se sarà il caso di credere a quello
che dice. La quarta fu la grande grazia incomparabile di indirizzarmi, per
queste lezioni di religione, a M. Huvelin. Facendomi entrare nel suo
confessionale, uno degli ultimi giorni di ottobre, tra il 27 e il 30, penso,
Tu, mio Dio, mi hai davvero colmato di ogni bene (… ). Io chiedevo lezioni di
religione: lui mi fece mettere ginocchioni e mi fece confessare, e mi spedì a
comunicarmi, seduta stante…”.
L’abbé Henry Huvelin, vicario parrocchiale Saint Augustin a
Parigi, intuì che il momento era arrivato e non bisognava cedere oltre ai
desideri di ricerca intellettuale di quel giovane inquieto. Bisognava solo
indurlo con decisione a un atto di umile confessione e di richiesta di perdono
a Dio. “Vorrei che mi istruiste nella fede”, chiese il giovane Charles.
“Inginocchiatevi. Confessatevi a Dio e crederete”: e il giovane Charles si
inginocchiò, si confessò, credette e si comunicò. Accogliere la fede dentro la
propria intelligenza dopo un atto di assenso della volontà, come fece de
Foucauld è ciò che San Giovanni, nel Vangelo, descrive dicendo in un meraviglioso
rigo “Chi fa la verità, viene alla luce”.
Non fu altrettanto fruttuoso il destino di Simone
Weil, morta nel 1943 a 34 anni, al termine di una vita fatta di austerità, di
dedizione al prossimo, di studio, di dolorosa contiguità con la mistica, di attenzione
per la Chiesa cattolica senza decidersi al passo definitivo. Cristina Campo,
nella splendida introduzione alla sua “Attesa di Dio”, vede all’origine del
mancato abbraccio con il Corpo Mistico di Cristo l’indecisione del domenicano
padre Joseph Marie Perrin, “la timidezza apostolica, la carità molto più
sentimentale che spirituale del religioso che tentò di istruirla. (…) La
rivelazione di una Chiesa pura perché tremenda, pietosa perché inflessibile, in
totale contraddizione con il mondo, tetragona e bruciante, non era certo per
atterrire Simone Weil”.
Ciò che aveva ben presente l’abbé Huvelin, e invece sfuggiva
a padre Perrin, è narrato con fare quasi didascalico da Manzoni nella
conversione dell’Innominato. Paride Zaiotti, astioso letterato ottocentesco,
lamentava che nei “Promessi sposi” la nascita a nuova vita dell’inquieto
signorotto non fosse riconosciuta al giusto tramite. “Se l’Innominato” diceva
Zaiotti “come racconta il Rivola suo primo biografo, si convertì dopo il
colloquio col Cardinal Borromeo, perché togliere il merito al Cardinale per
darlo a Lucia, ai suoi occhi, alla sua voce soave, alle sue parole, al voto?”.
Ma, a ben guardare, l’Innominato non è “stato convertito” ma “si è convertito”
prima di arrivare alla presenza del Borromeo. Il cardinale lo sostiene nel
riconoscere il mutamento nel suo cuore e nella sua intelligenza: “Dio! Dio!
Dio! Se lo vedessi! Se lo sentissi! Dov’è questo Dio?”, “E chi più di voi l’ha
vicino? Non lo sentite in cuore che vi agita?”. E pare di leggere Pascal: “Tu
non mi cercheresti, se già non mi avessi trovato”. Il sacerdote è colui che
rivela la conversione, come alter Christus è lì per sancire ciò che Dio ha
operato. “E’ lì” commenta monsignor Cesare Angelini “per ricevere la
legittimità di quanto è avvenuto, e a guarire un passato”.
L’Innominato non chiede “solo dialogo e ascolto”, ma che
l’Unico in grado di farlo guarisca il suo passato. Chiede la giustizia e
carezza che Sant’Agostino descrive nel sermone sull’adultera salvata dalla
lapidazione: “E tutti uscirono di scena. Soli restarono Lui e lei; restò il
Creatore e la creatura; restò la miseria e la misericordia; restò lei
consapevole del suo reato e Lui che ne rimetteva il peccato. (…) Ella si
accusò. Gli altri non avevano potuto portar le prove e se ne erano fuggiti.
Essa invece confessò; il suo Signore non ignorava la colpevolezza, ma ne
ricercava la fede e la confessione”.
Ma per imitare il Maestro, per prestargli la propria
persona nel sacramento, serve un profondo e perfetto senso del peccato che,
nella chiesa di oggi, è moneta sempre più rara. “Come mai” chiedeva Cristina
Campo in una lettera a Marìa Zambrano nella III domenica d’Avvento del 1965 “si
celebra ancora la festa dogmatica dell’Unica Immacolata, mentre implicitamente
si nega, in mille modi, la maculazione di tutti gli altri? In un mondo dove non
è più riconosciuto non dico il sacrilegio, l’eresia, la blasfemia, la
predestinazione al male – ma il puro e semplice concetto di peccato?”.
Privata di questo concetto, la confessione può solo
diventare chiacchiera, “ascolto e dialogo” che occuperanno un altare dopo
l’altro, una cappella dopo l’altra, una chiesa dopo l’altra. Non è un caso se i
confessionali sono ormai caduti in disuso. Reperti di una religione in cui
molti si confessavano e pochi osavano presentarsi alla comunione, sono
incomprensibili là dove si pratica una religione in cui quasi nessuno si
confessa e tutti corrono a comunicarsi.
Al cospetto di tale mutazione, bisogna vere il coraggio di
chiedersi se si tratta sempre della stessa religione. E sorge più di un dubbio,
a non voler parlare di certezza, se si pensa che, dove ora si trova con
difficoltà un prete in stola viola su uno strapuntino, una volta si ergevano
grandiose opere d’arte erette alla misericordia e alla giustizia divine.
Occorre solo pensare allo splendore dei confessionali di Andrea Fantoni, nati
nel severo e stringato cattolicesimo bergamasco a cavallo tra Seicento e Settecento,
per provare nostalgia di una fede ormai in ritirata anche nelle vallate delle
ex cattolicissime Orobie.
Oggi non più, ma fino a una cinquantina d’anni or sono,
persino le paolotte e silenti anime bergamasche trovavano la favella nella
confessione che, secondo San Tommaso, come parte del sacramento, ha il suo
determinato atto che è quello di manifestare le proprie colpe dicendole con la
propria bocca. Una confessione fatta a perfezione, dice ancora il dottore di
Aquino, esige molte condizioni: che sia integra, semplice, umile, discreta,
fedele, vocale, mesta, pura e pronta all’obbedienza. Tutta merce che poco o
nulla ha a che fare con la tecnica “ascolto e dialogo”.
Certe confessioni, certe chiacchierate di oggigiorno
sembrano fatte apposta per dar ragione al Machiavelli della “Mandragola” che ne
mette in scena la parodia ad opera di fra Timoteo e Madonna Lucrezia. Pura
tecnica burlesca che serve al tremendo fiorentino per presentare il sacramento
come subdolo strumento di controllo sociale ad uso del clero.
Ma è un altro il fiorentino a cui attingere per capire che
cosa sia davvero e dove conduca la confessione. Nel IX canto del Purgatorio,
Dante descrive tale sacramento con amorevole e paziente minuziosità tenendo
quale fonte rituali e manuali come gli “Ordo reconciliationis poenitentium” e
gli “Ordo ad dandam poenitentiam”.
Giunto al cospetto di un angelo guardiano armato di spada,
che rappresenta il confessore, il viaggiatore penitente scorge tre gradini. Il
primo, “bianco marmo era sì pulito e terso” rappresenta l’accusa sincera del
peccato commesso. Il secondo, “tinto più che perso/ d’una petrina ruvida e
arsiccia,/ crepata per lo lungo e per traverso”, come spiega L’Anonimo
fiorentino chiosatore di Dante, simboleggia la vergogna nel dire il proprio
peccato a voce alta. Il terzo, che “porfido mi parea sì fiammeggiante/ come
sangue che fuor di vena spiccia” designa l’ardore di carità verso Dio che
spinge a espiare il peccato anche a costo del martirio, morale o materiale.
L’angelo, i cui piedi poggiano sul terzo gradino, siede su
una soglia “che mi sembiava pietra di diamante”, allegoria della forza con cui
il penitente deve mantenere i suoi propositi.
“Divoto mi gittai a’ santi piedi/ misericordia chiesi e
ch’el m’aprisse/ ma tre volte nel petto pria mi diedi”. “Mea culpa, mea culpa,
mea maxima culpa” recita ancora oggi battendosi il petto nel “Confiteor” chi
voglia professare anche nella confessione la stessa fede di Dante, con le
stesse parole. Poi l’angelo traccia con la punta della spada sette “P” sulla
fronte del penitente a ricordargli i sette vizi capitali e l’inclinazione al
peccato contro cui dovrà combattere, cominciando dalla pratica della penitenza
imposta dal confessore.
La misericordia di Dio non si concretizza in “ascolto e
dialogo”, nello spianare i gradini che il penitente deve salire nella
confessione. Piuttosto, si trova nell’insegnamento ricevuto dall’angelo
guardiano direttamente da San Pietro: che si sbaglierebbe più facilmente
negando che non concedendo l’assoluzione, ma patto che sia chiesta con sincera
umiltà, “pur che la gente a’ piedi mi s’atterri”.
Che non vuol dire, come suonerebbe a orecchie moderne,
umiliare la creatura umana, ma amarla fin nel suo intimo, desiderando la
salvezza di cui però ciascun uomo decide in proprio con pensieri, parole e
opere. “Quia peccavi nimis cogitazione, verbo et opere, mea culpa, mea culpa,
mea maxima culpa”. E spesso sono sempre gli stessi pensieri, parole e opere a
far cadere in tentazione. Per questo l’angelo si rivolge a Dante e alla sua
guida dopo l’assoluzione ammonendo “Intrate; ma facciovi accorti/ che di fuor
torna chi ‘n dietro si guata”, chi commette di nuovo lo stesso peccato ritorna
di nuovo allo stato di inimicizia con Dio.
Un ammonimento che ricorda il nono capitolo del Vangelo di
San Luca: “Nemo mittens manum ad aratrum et respiciens retro aptus est regno
Dei”, nessuno tra chi mette mano all’aratro e guarda indietro è fatto per il
Regno di Dio. Ma, dopo una seduta di “ascolto e dialogo”, in cui nulla viene
dato e nulla viene chiesto, non si capisce proprio dove il pellegrino che un
giorno di fine estate si sia avventurato in certe chiese possa trovare la forza
di guardare avanti.
fonte: Il Foglio 10 settembre 2014
vogliono abolire dopo il senso del peccato il peccato stesso....quest'inverno useranno i confessionali x riscaldarsi.....grande vittoria del demonio....ma il clero sta a guardare?GESU' FIGLIO DI DAVIDE ABBI PIETA' DI NOI !!!!
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