"Sanno tutto e non credono a niente". Incubo moderno e poesia cattolica
Attraverso due autori cattolici, entrambi grandi pur nella loro
diversità, può rivolgersi uno sguardo disincantato all’epoca
contemporanea. Se ne coglie, nella pars destruens narrata da Carl Schmitt nei suoi commenti giovanili al Nordlicht
di Theodor Däubler, l’incubo post-umano e post-cristiano (e
anticristico?) generato dai tentativi di realizzazione di progetto
politici e sociali rassomiglianti in modo inquietante alle peggiori
utopie negative. In questa devastazione, la pars construens diviene un
compito immane, di cui pareva avere consapevolezza John Ronald Reuel
Tolkien. La sua difesa della “santa evasione cristiana”, raccontata dal
discusso Elémire Zolla nella discussa Introduzione all’edizione italiana de Il signore degli anelli
del 1970, è una coraggiosa difesa militante dello spirito cattolico di
fronte alla militante “degradazione” della modernità. Incubo moderno e
poesia cattolica in questo modo si contrappongono senza possibilità di
superamento dialettico, dacché non esprimono altro che il dramma
realissimo ed attualissimo della Chiesa nel mondo. E tra lo spirito di
Cristo e lo spirito del mondo non è possibile alcun accordo.
«Come ogni cosa che abbia una cattiva coscienza, quest’epoca si è compiaciuta del ragionare sulle sue problematiche, fino a che non sono finite le critiche della coscienza ed essa ha potuto sentirsi a suo agio – essendo comunque interessante. L’epoca si è autodefinita capitalista, meccanicista, relativista, epoca delle comunicazioni, della tecnica e dell’organizzazione. Di fatto sembra che l’“industria” sia la sua firma, l’industria quale mezzo grandiosamente efficiente per raggiungere un qualsiasi miserabile o insensato scopo, l’universale prevalere del mezzo sullo scopo, l’industria, che annienta a tal punto il singolo che questi non sente nemmeno il suo annullamento e che si richiama in ciò non ad un’idea ma tutt’al più ad un paio di banalità e che afferma sempre e soltanto il principio secondo cui tutto deve svolgersi in maniera liscia e senza inutili attriti. Il successo della enorme ricchezza materiale, risultato della generale mediazione e calcolabilità, sorprendeva. Gli uomini sono diventati poveri diavoli: “sanno tutto e non credono a niente”. Si interessano di tutto e non si appassionano a nulla. Capiscono tutto, i loro studiosi registrano ogni cosa della storia, della natura, della loro stessa anima. Sono conoscitori degli uomini, psicologi e sociologi e scrivono infine una sociologia della sociologia. Lì dove qualcosa non si svolge in maniera del tutto liscia, un’analisi sottile e spedita o una organizzazione atta allo scopo appiana subito l’inconveniente. Persino i poveri di quest’epoca, la massa di miserabili che non è altro che “un’ombra che zoppica verso il lavoro”, i milioni che desiderano la libertà, anch’essi si dimostrano figli di questo spirito che riduce ogni cosa alla formula della sia coscienza e non lascia spazio al mistero e al trasporto dell’anima. Volevano il cielo in terra, a Berlino, a Parigi o a New York, un cielo con doppi servizi, automobili e poltrone in pelle, la cui bibbia sarebbe l’orario ferroviario. Non volevano un dio dell’amore e della grazia, avevano “realizzato” tante cose sorprendenti, perché non avrebbero dovuto “realizzare” la costruzione della torre di un cielo terreno? Le cose più importanti, quelle decisive, erano infatti già secolarizzate. Il diritto era diventato potere, la fedeltà calcolo, la verità una correttezza generalmente riconosciuta, la bellezza buon gusto, il cristianesimo un’organizzazione pacifista. Un equivoco e una falsificazione generale dei valori dominava le anime. Al posto della distinzione fra bene e male subentrarono utilità e danno differenziati in maniera sublime.»
CARL SCHMITT, Theodor Däublers “Nordlicht”. Drei Studien über di Elemente, den Geist und die aktualität des Werkes, 1916.
«Tolkien commise una lunga infrazione alle regole, specie a quelle che presiedono all'ancora (per poco?) vigente studio accademico delle letterature antiche. Esse vogliono che il filologo o lo storico del gusto partecipi per la parte riservata al suo ufficio all'opera di schedatura universale, nel quadro d'una Burocrazia-come-Essere-che-si-svela-a-se-stesso. Guai a far rivivere l'antico (uccidendo il moderno). In The Lord of the Rings Tolkien viceversa riparla, in una lingua che ha la semplicità dell'anglosassone o del medioinglese, di paesaggi che pare d'aver già amato leggendo Beowulf o Sir Gawain o La Mort Arthur, di creature campate tra il mondo sublunare ed il terzo cielo, di essenze incarnate in forze fantastiche, di archetipi divenuti figure. Naturalmente le infrazioni di Tolkien non potevano che suscitare le reazioni coatte, sonnamboliche e feroci che si sanno di prammatica. “Non è la sua un'opera staccata dalla realtà? Non è forse un'evasione?”. Vi sono momenti di noncuranza, di distrazione, nei quali si tralascia l'ottimo consiglio di Nietzsche, che la vera critica sia un distogliere lo sguardo, e si parla perfino alla massa dannata. Avvenne a Tolkien in un saggio sulla fiaba (Tree and Leaf, 1964) di replicare che, certo, una fiaba è un'evasione dal carcere e aggiunse: chi getta come un'accusa questa che dovrebbe essere una lode commette un errore forse insincero, accomunando la santa fuga del prigioniero con la diserzione del guerriero, dando per scontato che tutti dovrebbero militare a favore della propria degradazione a fenomeni sociali. “Non si possono ignorare le realtà presenti, impellenti, inesorabili!”, dicono ancora i custodi della degradazione. Realtà transitorie, corregge Tolkien. Le fiabe parlano di cose permanenti: non di lampadine elettriche, ma di fulmine. Autore o amatore di fiabe è colui che non si fa servo delle cose presenti. Esiste una fiaba suprema, che non è una sottocreazione, come altre, ma il compimento della Creazione, il cui rifiuto conduce alla furia o alla tristezza: la vicenda evangelica, in cui storia e leggenda si fondono.»
ELÉMIRE ZOLLA, Introduzione a J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli, 1970.
«Come ogni cosa che abbia una cattiva coscienza, quest’epoca si è compiaciuta del ragionare sulle sue problematiche, fino a che non sono finite le critiche della coscienza ed essa ha potuto sentirsi a suo agio – essendo comunque interessante. L’epoca si è autodefinita capitalista, meccanicista, relativista, epoca delle comunicazioni, della tecnica e dell’organizzazione. Di fatto sembra che l’“industria” sia la sua firma, l’industria quale mezzo grandiosamente efficiente per raggiungere un qualsiasi miserabile o insensato scopo, l’universale prevalere del mezzo sullo scopo, l’industria, che annienta a tal punto il singolo che questi non sente nemmeno il suo annullamento e che si richiama in ciò non ad un’idea ma tutt’al più ad un paio di banalità e che afferma sempre e soltanto il principio secondo cui tutto deve svolgersi in maniera liscia e senza inutili attriti. Il successo della enorme ricchezza materiale, risultato della generale mediazione e calcolabilità, sorprendeva. Gli uomini sono diventati poveri diavoli: “sanno tutto e non credono a niente”. Si interessano di tutto e non si appassionano a nulla. Capiscono tutto, i loro studiosi registrano ogni cosa della storia, della natura, della loro stessa anima. Sono conoscitori degli uomini, psicologi e sociologi e scrivono infine una sociologia della sociologia. Lì dove qualcosa non si svolge in maniera del tutto liscia, un’analisi sottile e spedita o una organizzazione atta allo scopo appiana subito l’inconveniente. Persino i poveri di quest’epoca, la massa di miserabili che non è altro che “un’ombra che zoppica verso il lavoro”, i milioni che desiderano la libertà, anch’essi si dimostrano figli di questo spirito che riduce ogni cosa alla formula della sia coscienza e non lascia spazio al mistero e al trasporto dell’anima. Volevano il cielo in terra, a Berlino, a Parigi o a New York, un cielo con doppi servizi, automobili e poltrone in pelle, la cui bibbia sarebbe l’orario ferroviario. Non volevano un dio dell’amore e della grazia, avevano “realizzato” tante cose sorprendenti, perché non avrebbero dovuto “realizzare” la costruzione della torre di un cielo terreno? Le cose più importanti, quelle decisive, erano infatti già secolarizzate. Il diritto era diventato potere, la fedeltà calcolo, la verità una correttezza generalmente riconosciuta, la bellezza buon gusto, il cristianesimo un’organizzazione pacifista. Un equivoco e una falsificazione generale dei valori dominava le anime. Al posto della distinzione fra bene e male subentrarono utilità e danno differenziati in maniera sublime.»
CARL SCHMITT, Theodor Däublers “Nordlicht”. Drei Studien über di Elemente, den Geist und die aktualität des Werkes, 1916.
«Tolkien commise una lunga infrazione alle regole, specie a quelle che presiedono all'ancora (per poco?) vigente studio accademico delle letterature antiche. Esse vogliono che il filologo o lo storico del gusto partecipi per la parte riservata al suo ufficio all'opera di schedatura universale, nel quadro d'una Burocrazia-come-Essere-che-si-svela-a-se-stesso. Guai a far rivivere l'antico (uccidendo il moderno). In The Lord of the Rings Tolkien viceversa riparla, in una lingua che ha la semplicità dell'anglosassone o del medioinglese, di paesaggi che pare d'aver già amato leggendo Beowulf o Sir Gawain o La Mort Arthur, di creature campate tra il mondo sublunare ed il terzo cielo, di essenze incarnate in forze fantastiche, di archetipi divenuti figure. Naturalmente le infrazioni di Tolkien non potevano che suscitare le reazioni coatte, sonnamboliche e feroci che si sanno di prammatica. “Non è la sua un'opera staccata dalla realtà? Non è forse un'evasione?”. Vi sono momenti di noncuranza, di distrazione, nei quali si tralascia l'ottimo consiglio di Nietzsche, che la vera critica sia un distogliere lo sguardo, e si parla perfino alla massa dannata. Avvenne a Tolkien in un saggio sulla fiaba (Tree and Leaf, 1964) di replicare che, certo, una fiaba è un'evasione dal carcere e aggiunse: chi getta come un'accusa questa che dovrebbe essere una lode commette un errore forse insincero, accomunando la santa fuga del prigioniero con la diserzione del guerriero, dando per scontato che tutti dovrebbero militare a favore della propria degradazione a fenomeni sociali. “Non si possono ignorare le realtà presenti, impellenti, inesorabili!”, dicono ancora i custodi della degradazione. Realtà transitorie, corregge Tolkien. Le fiabe parlano di cose permanenti: non di lampadine elettriche, ma di fulmine. Autore o amatore di fiabe è colui che non si fa servo delle cose presenti. Esiste una fiaba suprema, che non è una sottocreazione, come altre, ma il compimento della Creazione, il cui rifiuto conduce alla furia o alla tristezza: la vicenda evangelica, in cui storia e leggenda si fondono.»
ELÉMIRE ZOLLA, Introduzione a J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli, 1970.
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