L’Italia ha dato francesi alla Francia ed Americani all’America, uomini che si sono inseriti con lealtà e con creatività nella vicenda dei Paesi di adozione, e che tuttavia molto – pur con i mezzi limitati di un tempo – hanno fatto per mantenere il legame con il Paese di origine.
Di questa eredità vogliamo ricordare il senso della famiglia, ma anche il riflesso – fino nella gente più umile -  dell’universalità del genio italiano, della nostra capacità di rielaborare gli apporti più diversi per rifonderli in una sintesi più ampia: quella, appunto, della cultura italiana.
Nella figura del Papa risaltano entrambi questi tratti: ora lo attende un lungo confronto, una lunga collaborazione con il nostro Capo dello Stato, per il bene delle anime, ma anche per il bene materiale dei concittadini: il Presidente viene dalla Regione che ha subito il maggior numero di domini stranieri, tanti che non ci riesce neppure di enumerarli, e che li ha trasfusi tutti nella sua anima collettiva, tanto da essere definita da un suo grande scrittore “la Sicilia come metafora”: metafora, certamente dell’Italia, ma anche metafora della condizione umana, che è fatta di tanti apporti, di tante conoscenze ed anche di tante origini; ed il Papa viene da una terra lontana, dove – come d’altronde dovunque – l’essere italiano si carica di doveri e di esigenze particolari, come se la nostra particolare cultura rendessi più esigenti gli stranieri nei nostri riguardi.
Il Presidente è uno della Sicilia universale, ed il Papa è uomo dell’Italia universale.
C’è una leggenda siciliana che certamente il Presidente conosce, quella di Colapesce: era costui un umile pescatore, cui il Re chiese un giorno di andare a vedere che cosa ci fosse sotto il mare.
Colapesce si accorse che l’Isola stava per sprofondare nell’abisso se qualcuno non l’avesse sostenuta, ed egli lo fece.
“Colapesce è sempre là”, conclude la canzone popolare.
La morale della favola, più che mai attuale, si riassume nel fatto che il potere è – alla fine – soltanto servizio: ed anche il Papa è “Servus servorum Dei”.
La collaborazione tra Bergoglio e Mattarella prescinderà certamente dalla rappresentazione delle esigenze reciproche dello Stato e della Chiesa: con loro due a guardarsi, dal Quirinale al Vaticano, dal colle più alto alla cupola più alta,  avremo – come si usa dire a Roma – un Tevere più stretto, ma soprattutto ci attende una concezione del bene comune che supera l’essere laici o cattolici, uomini dello Stato o uomini della Chiesa, per essere appunto -  integralmente e semplicemente - uomini.