Nel Vaticano II si è consumato un colpo di mano della minoranza cattolica “progressista”?
L’amletico dilemma in cui si dibatteva Paolo VI, nelle ultime fasi del Concilio e subito dopo la sua conclusione, è stato efficacemente rievocato dal giornalista Vittorio Gorresio: una rievocazione tanto più significativa, per restituire il clima di quegli anni, in quanto proveniente da un laicista fazioso e malevolmente orientato verso il cattolicesimo “tradizionale”, che non si prende affatto la briga di fingere neppure un’ombra di imparzialità mentre pubblica il suo “pamphlet”, spacciato per resoconto, all’indomani dello “scandaloso” discorso del novembre 1972, in cui i Papa aveva parlato della presenza reale e personale del Demonio nel mondo (in: V. Gorresio, «Il Papa e il Diavolo», Milano, Rizzoli, 1973, pp. 26-30):
«Si può parlare di un timore, non del tutto infondato, che paolo VI aveva di non riuscire a controllare il corso del Concilio ecumenico, e perciò di non poterne prevedere gli sbocchi e soprattutto le conseguenze. Egli si sgomentava per le divergenze di linguaggio fra i padri della Chiesa che gli apparivano tra loro tanto lontani non solo come uomini di nazioni diverse, ma separati e resi incomunicabili da secoli di esperienze dissimili. Tra i cardinali Alfredo Ottaviani e Agostino Bea – di curia ambedue – sarebbe stato per esempio impossibile trovare un solo punto di perfetta identità di vedute su una data materia, pastorale o teologica.
Spaventato dal Concilio, Paolo VI decise di seguire i lavori della quarta e ultima sessione anche più assiduamente di quanto prima avesse usato. […]
[Paolo Vi volle presenziare personalmente alla quarta sessione, presentandosi, dice Gorresio, come un “primus inter pares”]. L’autorità, però, gi stava a cuore non meno che a ciascuno dei suoi recenti predecessori. Appena chiuso il Concilio Vaticano II, il 15 dicembre 1965 nel corso di un’udienza generale condannò quanti gli sembravano pretendere un “Concilio permanente”, cioè coloro che “vorrebbero mettere in discussione continua verità e leggi ormai stabilite e prolungare il processo dialettico del Concilio, attribuendosi la competenza e l’autorità di introdurre criteri innovativi propri, o sovvertitori”. Se una tendenza simile, che una volta si chiamava “conciliarismo”, avesse dovuto estendersi e prevalere, lo spirito e la forma della Chiesa cattolica ne sarebbero stati affatto snaturati, diceva Paolo VI.
Chiuso il Concilio, si affannava a spiegare che esso non aveva autorizzato mai nessuno a dare personali interpretazioni delle verità di fede, e tanto meno aveva ammesso che “nella scuola filosofica, teologica e scritturale della Chiesa entri l‘arbitrio, l’incertezza, la servilità, la desolazione, che caratterizzano tante forme del pensiero religioso moderno, quando è privo del’assistenza del magistero ecclesiastico”: sono parole che egli pronunciò nell’udienza generale del 12 gennaio 1966, festa di san Probo, ma ancora il 2 settembre, giorno di san Mansueto, si tenne in obbligo di rivendicare la propria autorità che temeva minata dal Concilio. […]
Per tutta la durata del Concilio Paolo VI si era dibattuto fra le incertezze. A gesti da “liberal” alternava discorsi di tono pesante, come quando, nel mese di luglio 1965, si disse nettamente contrario allo “spirito di critica e perfino di insofferenza e ribellione” da cui egli vedeva pervasa la Chiesa in tempi di Concilio. Il mese dopo, agosto, deprecò le strane e confuse voci” che gli arrivavano anche “dai ranghi più alti del popolo di Dio” – presumibilmente dai vescovi – e che ripetevano “errori antichi e moderni” tali da mettere in questione “principi, basi e tradizioni alle quali la Chiesa è fermamente ancorata” e che sembravano proporre “revisioni radicali di tutto il lavoro apostolico”.
A cosiffatto radicalismo Paolo VI si professava contrario, come era nel suo diritto, oltre che ovvio. Ma è da notare che con candore egli ammetteva di non aver capito bene le conclusioni del Concilio ecumenico: “Come faremo per capire qualche cosa?”, ci disse durante l’udienza generale di mercoledì 27 aprile 1966. Passati due mesi, il 22 di giugno tornò al medesimo concetto: “Noi andiamo cercando di capire qualche cosa della grande e profonda dottrina che il Concilio ecumenico ha proclamato”. Le udienze generali sono per Paolo VI l’occasione per aprire il suo cuore ed è istruttivo assistervi.
A Castelgandolfo il 17 agosto, san Giacinto, gli accadde di ammettere che “è più grave e laborioso il periodo che segue il Concilio, che non quello della sua celebrazione”. Tradotto in termini politici, ciò sta a significare che tutti i problemi che so dibattono durante una campagna elettorale sono assai meno impegnativi di quelli che si presentano post-elezioni, quando si tratta di dedurre e concludere. Questo era appunto il problema di paolo, spente che furono le luci del Concilio ecumenico Vaticano II. Egli è talmente coscienzioso e attento che suole dire compiacendosi, dato che è lui che tocca decidere: “Tacere non possiamo; parlare è un bel problema; e nel decidere siamo soli”.
Proprio solo non è; egli ha probabilmente la Grazia e lo Spirito Santo dalla sua. Però, per umiltà, resta indeciso; e quando vede le velleità dispersive di una parte della Chiesa e di tanta parte dell’odierna umanità, religioso come è si pone un dubbio che lo tormenta: “Lo Spirito soffia dove vuole. Spiritus ubi vult spirat”. Ci pensa molto, e prega. Ma poi arriva, generalmente, a una conclusione pragmatica: “Il ministero della gerarchia visibile non sarà magari indispensabile per la misericordia di Dio, la quale può effondersi come a Dio piace; ma è NORMALMENTEindispensabile per noi”.»
Ora, a parte la continua, gratuita ironia e l’irrisione beffarda con cui Gorresio commenta e condisce le affermazioni di Paolo VI (giungendo ad accusarlo d’ipocrisia, falsa modestia e ambizione di potere), a quanto pare non lo sfiora nemmeno l’idea che siano proprio le sue categorie interpretative a non essere adeguate per comprendere il pensiero e la posizione del Pontefice (eppure questo dovrebbe essere, precisamente, il compito di un giornalismo serio): come quando pretende di “tradurre”, come niente fosse, le parole di Paolo VI in termini politici, paragonando il Concilio a una campagna elettorale, al termine della quale i candidati devono passare alla fase operativa delle loro promesse.
Proprio questa similitudine tradisce il pregiudizio mentale e ideologico e l’errata metodologia ermeneutica con cui intellettuali come Gorresio si avvicinavano, e tuttora si avvicinano, al fenomeno religioso, anche nelle sue manifestazioni storiche (e figuriamoci cosa succede quando si occupano della sostanza teologica). Per loro, che sanno ragionare solo in termini politici a sfondo dualistico (“destra” , “sinistra”, e, al massimo, “centro”), non c’è nulla di strano nel trasferire un simile approccio al fenomeno Chiesa; e, naturalmente, come vuole la Vulgata illuminista e neo-illuminista, “buoni” sono i cattolici progressisti, “cattivi” sono i conservatori: perché la storia va nella direzione del Progresso, essa DEVEandare nella direzione del Progresso, trattandosi del dogma fondamentale della modernità, della chiave di volta di tutto l’edificio. Se si toglie quello, cade tutto l’edificio: e dunque bisogna – se necessario – dare torto ai fatti, piuttosto che mettere in dubbio la sacra legge su cui si regge l’universo mondo.
D’altra parte, è vero che esistevano delle posizioni diversissime fra i padri conciliari, probabilmente non solo sulle questioni disciplinari, ma anche su quelle dogmatiche; e che, per esempio, vi era una distanza incolmabile fra quelle del cardinale Ottaviani e quelle del cardinale Bea. Fu proprio questa enorme differenza di vedute su tutto ciò che era materia del Concilio, unita al fatto che il Concilio stesso si riuniva, per la prima volta (con la sola eccezione del Concilio di Trento, che venne convocato in circostanze eccezionali), non per dirimere e chiarire un singolo punto della disciplina o della dottrina, ma la totalità del cattolicesimo nei suoi più vari aspetti e specialmente nel suo modo di rapportarsi al “mondo”, che suscitò tanta apprensione in Paolo VI e lo costrinse a correre ai ripari, spiegando, in ogni possibile occasione, che non bisognava forzarne le interpretazioni, che non era lecito tirarlo da una parte o dall’altra per portarne gli effetti verso posizioni che esso non aveva mai sostenuto, né ratificato: ad esempio, che fosse abolita la Messa secondo l’antica liturgia, o che tutti i catechismi pre-conciliari delle varie Conferenze episcopali si dovessero considerare automaticamente superati e abrogati. Ed era stata proprio quella preoccupazione, dovuta alla conoscenza di quanto fossero distanti le posizioni dei cardinali sulle questioni principali della disciplina e dello stesso dogma, e al rischio evidente di porre sul tappeto la totalità delle questioni relative alla Chiesa e al cattolicesimo, che aveva trattenuto dal convocarlo il prudente Pio XII, timoroso di vedersi sfuggire le cose di mano.
Soffiava un vento d’impazienza, all’epoca, nei seminari, nelle parrocchie, tra il clero e i fedeli e perfino nelle sedi episcopali e cardinalizie: contagiati dalla caratteristica impazienza del mondo profano, molti cattolici ardevano dal desiderio di cambiare tutto e subito, sentivano come intollerabili molti retaggi della tradizione, percepivano come un peso o come una vuota pompa molti aspetti dell’insegnamento e molte forme liturgiche. In breve, volevano rifare tutto daccapo, ora o mai più: il mondo stava cambiando in fretta, quasi da un giorno all’altro, e loro temevano di rimanere indietro, di apparire irresoluti o superati, di non essere all’altezza del momento.
Era il tempo, o stava per venire, dei preti-operai, della contestazione dal basso (come per l’Isolotto di Firenze), della pedagogia ribellistica di don Milani: tempi in cui molti, forse, si sentivano profeti e molti, forse troppi, pensavano, come lo avrebbero pensato gli studenti parigini del maggio 1968, che «la bellezza è nella strada». Le antiche certezze parevano tremare sin dalle fondamenta, le venerande autorità venivano guardate con diffidenza e sospetto, qualche volta con ostilità e disprezzo. Anche nella Chiesa era entrato lo spirito nuovo, fatto d’insofferenza e voglia di cambiamento radicale; al concetto di carità si preferiva quello di giustizia, ed il semplice fare del bene appariva, improvvisamente, non solo insufficiente, ma come una forma d’ipocrisia borghese, di tartufesca dissimulazione. C’era un mondo intero, là fuori: fuori dai seminari, fuori dalle chiese, fuori dalla tradizione; un mondo che aspettava di essere lievitato e rivitalizzato e al quale bisogna affrettarsi a partecipare, prima che il cambiamento avvenisse per conto suo, per altre strade e con altri protagonisti; prima di rimaner tagliati fuori dal corso della storia, di mummificarsi, di seppellirsi. E invece che cosa faceva la Chiesa cattolica? Si trastullava ancora nel solco di pratiche superate, di verità obsolete ed auto-referenziali; insegnava ancora ai bambini il Catechismo di Pio X, che aveva una risposta bella e pronta per ogni quesito, confezionata dall’alto: mentre invece, come insegnava don Milani, la verità andava cercata personalmente, senza fidarsi di nessuno, senza delegare il proprio orientamento a nessuno, senza fare sconti a insegnamenti tramandati più per abitudine e forza d’inerzia, che per autentica e sentita adesione.
Chissà, forse Giovanni XXIII ritenne di fare la cosa giusta, o almeno la cosa migliore, affrontando il pericolo e pigliando il toro per le corna; forse immaginò che le forze sane del rinnovamento, vedendosi spalancate le porte, e incoraggiate al dialogo, si sarebbero potute orientare nel senso più costruttivo e avrebbero saputo disciplinarsi e bilanciarsi da sé, una volta che si fossero persuase di non dover vedere nella Gerarchia soltanto un custode geloso di forme cristallizzate e contenuti autoritari. E forse fu per questo che diede un così largo spazio ai teologi, laici ed ecclesiastici; e, per la prima volta, permise che fossero loro a imporre il ritmo di marcia del Concilio, un po’ come i tecnici, in una società industriale, impongono il loro passo a tutti quanti. Eppure, il rischio era altissimo e, per chi avesse avuto occhi e orecchi, non era possibile ignorarne la portata e le possibili conseguenze. Era un certo stile che stava per essere archiviato, ma, con esso, anche un certo spirito: lo stile della sobrietà, della discrezione, della prudenza, della carità fraterna; al quale subentrava, sovente, lo spirito della polemica, del gesto eclatante, del singolo che si erge a giudice implacabile e infallibile, dell’intransigenza rivestita dell’abito progressista invece che di quello conservatore. Dimenticando l’ammonimento di San Paolo, adesso erano in dieci, in cento, in mille a rivendicare, ciascuno per sé solo, l’interpretazione legittima del Vangelo, spesso esulando alquanto dall’ambito propriamente religioso e investendo la politica, l’economia, la scuola, la cultura. Si voleva rifare il mondo, e subito: come se il Cristianesimo fosse solo una delle tante ideologie di matrice libertaria...
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