Quando il laico diventa laido
Anche se il volerla ridurre a oggetto archeologico pare strizzare l’occhio all’Expo e al laicismo illuminista («Ècrasez l’infâme!») il calcare la mano sulle ipotesi di «straccio», io credo, gentile principessa, che affrontare il tema della Sindone senza nemmeno accennare all’aspetto mistico e devozionale sia più che altro una vertigine intellettuale. Come scrivere la biografia di Raffaello senza far riferimento alla sua arte.
Poco importa: dal prossimo 19 aprile a centinaia di migliaia sfileranno davantia quella che credono, che sanno essere una sacra effigie alla quale prestar devozione. Resta il fatto che da coloro che si stanno occupando materialmente e letterariamente della ostensione sia mancato il gesto gentile, «da signori» si diceva una volta: ricordare che la Sindone fu per secoli legata a Casa Savoia, la quale se ne privò, donandola alla Chiesa, per volontà di suo padre Re Umberto.
Paolo Granzotto
Questa stringata nota di Paolo Granzotto dice tutto quello che c'era da dire, ovvero, come abbiamo titolato: quando il laico diventa laido.
Aggiungiamo in più che dopo aver letto l'articolo in questione siamo rimasti confortati nel nostro giudizio - retrogrado, viziato, prevenuto e antiscientifico -: un campione del laicismo può solo partorire piccole, scontate storie da fumetto, come per esempio: quello che dico io e i miei amici è oro scentificamente colato, mentre quello che dicono gli altri e quelli che io ritengo miei nemici è solo piombo financo falso.
Non è polemica, ma semplice constatazione: non c'è peggiore supponente del supponente laico e anticattolico. Che dire? Contento lui!
Noi ricordiamo solo che l'ostensione della Santa Sindone quest'anno si terrà dal 19 aprile al 24 giugno, nel Duomo di Torino.
Sia per le informazioni, sia per le prenotazioni, si consulti l'apposito sito ufficiale: Santa Sindone(http://www.sindone.org/santa_sindone/00023930_Santa_Sindone.html).
http://www.unavox.it/ArtDiversi/DIV1189_Quando_il_laico_diventa_laido.html
Non è nostra abitudine, ma la notizia, che ci è stata segnalata da un assiduo lettore e caro amico, è troppo ghiotta, ed anche troppo palesemente volgare per passarla sotto silenzio. Così abbiamo deciso di riportarla così com'è, senza un particolare commento. Essa si commenta sé e da sé sola dà conto dello stato di pochezza in cui vivono tutti i moderni a-cattolici, anti-cattolici e mangia cattolici.
Disgraziatamente per loro, noi esistiamo da 2000 anni, nonostante persino i preti abbiano provato a farci fuori, e dovranno rassegnarsi a vederci esistere ancora, mentre loro periscono e si polverizzano uno dopo l'altro, senza neanche lasciare la minima traccia significativa.
È il destino di chiunque crede di poter fare impunemente la guerra a Dio!
21 marzo 2015
Disgraziatamente per loro, noi esistiamo da 2000 anni, nonostante persino i preti abbiano provato a farci fuori, e dovranno rassegnarsi a vederci esistere ancora, mentre loro periscono e si polverizzano uno dopo l'altro, senza neanche lasciare la minima traccia significativa.
È il destino di chiunque crede di poter fare impunemente la guerra a Dio!
21 marzo 2015
Caro Granzotto, seguo con attenzione quanto viene pubblicato in vista della imminente ostensione della Sindone. E devo confessare di essere rimasta a dir poco esterrefatta leggendo martedì scorso l’articolo che Paolo Mieli, firma del Corriere della Sera, ha scritto sull’argomento
Quanto accanimento nel voler «rottamare» la storia della Sindone! Sembra quasi che Mieli tema che l’ostensione sottragga visitatori alla più laica Expo di Milano. A meno che le sue considerazioni non facciano parte del grande disegno volto ad avvilire con ogni mezzo le radici cristiane della nostra civiltà. Come si fa a liquidare la Sindone come un semplice (e dubbio) reperto archeologico? Ma c’è dell’altro: mentre le scrivo ricorre il trentaduesimo anniversario della scomparsa di mio padre Umberto, ultimo re d’Italia. Uomo pio ed onesto che fece dono al Santo Padre della Sindone, posseduta dalla sua famiglia per 530 anni. Mi sarei aspettata un ricordo di quel gesto. Ma si sa, oggi fanno più notizia i ladri che i bene-fattori.
Maria Gabriella di Savoia
[La sindone, il sudario di Cristo tra leggenda e realtà. Storia della reliquia più controversa, Corriere della Sera, martedì 17 marzo 2015 - Nota redazionale].
*Quanto accanimento nel voler «rottamare» la storia della Sindone! Sembra quasi che Mieli tema che l’ostensione sottragga visitatori alla più laica Expo di Milano. A meno che le sue considerazioni non facciano parte del grande disegno volto ad avvilire con ogni mezzo le radici cristiane della nostra civiltà. Come si fa a liquidare la Sindone come un semplice (e dubbio) reperto archeologico? Ma c’è dell’altro: mentre le scrivo ricorre il trentaduesimo anniversario della scomparsa di mio padre Umberto, ultimo re d’Italia. Uomo pio ed onesto che fece dono al Santo Padre della Sindone, posseduta dalla sua famiglia per 530 anni. Mi sarei aspettata un ricordo di quel gesto. Ma si sa, oggi fanno più notizia i ladri che i bene-fattori.
Maria Gabriella di Savoia
Anche se il volerla ridurre a oggetto archeologico pare strizzare l’occhio all’Expo e al laicismo illuminista («Ècrasez l’infâme!») il calcare la mano sulle ipotesi di «straccio», io credo, gentile principessa, che affrontare il tema della Sindone senza nemmeno accennare all’aspetto mistico e devozionale sia più che altro una vertigine intellettuale. Come scrivere la biografia di Raffaello senza far riferimento alla sua arte.
Poco importa: dal prossimo 19 aprile a centinaia di migliaia sfileranno davantia quella che credono, che sanno essere una sacra effigie alla quale prestar devozione. Resta il fatto che da coloro che si stanno occupando materialmente e letterariamente della ostensione sia mancato il gesto gentile, «da signori» si diceva una volta: ricordare che la Sindone fu per secoli legata a Casa Savoia, la quale se ne privò, donandola alla Chiesa, per volontà di suo padre Re Umberto.
Paolo Granzotto
Aggiungiamo in più che dopo aver letto l'articolo in questione siamo rimasti confortati nel nostro giudizio - retrogrado, viziato, prevenuto e antiscientifico -: un campione del laicismo può solo partorire piccole, scontate storie da fumetto, come per esempio: quello che dico io e i miei amici è oro scentificamente colato, mentre quello che dicono gli altri e quelli che io ritengo miei nemici è solo piombo financo falso.
Non è polemica, ma semplice constatazione: non c'è peggiore supponente del supponente laico e anticattolico. Che dire? Contento lui!
Noi ricordiamo solo che l'ostensione della Santa Sindone quest'anno si terrà dal 19 aprile al 24 giugno, nel Duomo di Torino.
Sia per le informazioni, sia per le prenotazioni, si consulti l'apposito sito ufficiale: Santa Sindone(http://www.sindone.org/santa_sindone/00023930_Santa_Sindone.html).
Si ricorda che è cosa raccomandabile sentire prima il parere di Paolo Mieli |
http://www.unavox.it/ArtDiversi/DIV1189_Quando_il_laico_diventa_laido.html
La sindone, il sudario di Cristo tra leggenda e realtà. Storia della reliquia più controversa
Corriere della Sera, martedì 17 marzo 2015
Quella della Sindone è la storia di una incredibile leggenda, all’inizio osteggiata dalla Chiesa stessa e poi fatta passare per «autentica» sulla base di ricostruzioni che si distinguevano per mancanza di rigore e assoluta assenza di scientificità. Nel 1543 Giovanni Calvino ironizzò sulla presenza nelle chiese cattoliche di una grande quantità di reliquie, tra cui numerosi sudari, ognuno dei quali si riteneva avesse avvolto 15 secoli prima il corpo di Gesù Cristo. Già qualche secolo prima, in un poema sulla distruzione di Roma risalente alla prima metà del XIII secolo, se ne menzionava uno, di questi sudari, che si sarebbe trovato nella basilica romana di San Pietro fino a che, durante il sacco della città (23 agosto 846), sarebbe stato rubato dal re saraceno Fierabras e portato in Spagna. Lì lo avrebbe recuperato Carlo Magno per donarlo all’abbazia reale di Saint-Corneille a Compiègne: ma il telo sarebbe andato disperso ai tempi della Rivoluzione francese.
Sempre nel XIII secolo ne comparve un altro nell’abbazia cistercense di Cadouin, allorché Simon IV de Montfort, capo della crociata contro gli Albigesi, nel 1214 lo espose ai pellegrini al fine di procacciarsi, con le loro elemosine, una cospicua rendita. Nel 1643 questa reliquia fu dichiarata «autentica» dal vescovo Jean de Lingendes. E autentica fu considerata per 290 anni. Finché nel 1933, sulla base di studi accurati, si scoprì che quel panno di lino non soltanto era di epoca medievale, ma addirittura di origine egiziana e islamica. Un terzo «lenzuolo di Cristo» fu quello degli agostiniani di Carcassonne, i quali, nel 1402, furono trascinati in giudizio dai cistercensi di Cadouin che ritenevano si trattasse di una parte sottratta a quello, il «loro», di cui si è detto poc’anzi. Più complicata la vicenda della Santa cuffia, che avrebbe coperto la testa di Gesù deposto dalla croce, donata da Pipino il breve (o da Carlo Magno) al vescovo Aymat di Cahors, il quale, a testarne l’autenticità, l’avrebbe posta sulla testa di un morto con l’effetto di resuscitarlo immediatamente. Anche la Santa cuffia sopravvisse alla Rivoluzione francese, ma studi successivi dimostrarono inequivocabilmente che era stata cucita non prima dell’XI secolo. Ci fu poi il presunto sudario che – diceva la leggenda – era stato posto sul volto di Gesù dopo la crocefissione e veniva conservato a Magonza. Quella stessa leggenda raccontava che sarebbe stato donato dalla nobile Cunegonda a santa Bilide (peccato però che Cunegonda fosse nata nel 734, quanto Bilide era già morta).
Il punto di partenza di questa storia, scrive Andrea Nicolotti nello straordinario Sindone. Storia e leggende di una reliquia controversa, edito da Einaudi, è nell’anno 1204, allorché una crociata, la quarta, partita per liberare Gerusalemme, «fece sosta» a Costantinopoli e razziò la capitale dell’impero bizantino. Da quel momento l’Europafu invasa da reliquie, pezzi di sindone e di sudario. Robert de Clari, un cavaliere piccardo che aveva preso parte a quella crociata, scrisse che nella chiesa delle Blacherne «si trovava la stoffa in cui nostro Signore fu avvolto che ciascun venerdì si drizzava tutta dritta». Nicolotti dimostra quanto de Clari fosse un testimone inattendibile: si era spinto «ad accettare la verosimiglianza delle reliquie più strane», fino a prendere addirittura per «buone» le lacrime della Madonna ancora visibili sulla tavola di marmo dove Cristo era stato deposto dalla croce. Talché all’autore sembra di poter «escludere» che alle Blacherne vi fosse davvero quella stoffa di 1.200 anni prima.
Stessa perplessità Nicolotti mostra nei confronti del sudario di Oviedo, la cui esistenza è attestata da un documento (non originale) del 1075 e che, nel 1101, fu autenticato dal vescovo Pelayo. Secondo Nicolotti, Pelayo «mise mano a una potente creazione ideologica atta a fornire una legittimazione storica e propagandistica alla supremazia della sede di Oviedo la cui importanza religiosa e politica era in declino», ma si caratterizzò per un’assoluta mancanza di rigore, tant’è che i suoi contemporanei lo chiamavano «el fabulero» (il raccontafavole). Singolare è la circostanza che molti storici si siano dimostrati assai poco «scientifici» nell’occuparsi di questo argomento. E qui Nicolotti polemizza esplicitamente con la storiografia che si è occupata delle reliquie: «Quando una notizia leggendaria coincide con la tesi che si vuol dimostrare, la si accoglie; quando vi si oppone, la si scarta accusandola di fantasiosità».
Ma veniamo alla Sindone vera e propria. I primi documenti che ne parlano risalgono alla seconda metà del Trecento e riguardano la chiesetta campagnola di Lirey, edificata a spese del cavaliere francese Geoffroy de Charny. De Charny le avrebbe donato la Sindone, da lui avuta non si sa bene come, per conferirle prestigio. Grande e immediato fu il successo di quel panno. Ma la Chiesa era perplessa. Il vescovo di Troyes, Pierre d’Arcis-sur-Aube, raccontò nel 1389 che a Lirey il decano dei canonici Robert de Caillac aveva fatto esporre «un lungo telo che recava l’immagine del corpo straziato del Cristo» per esibirlo ai fedeli a scopo di lucro, «lasciando credere che fosse l’autentico lino sepolcrale di Gesù». Il vescovo Henry de Poitiers, predecessore di d’Arcis, aveva compiuto un’indagine su quel lino ed era giunto alla conclusione che si trattava di una «frode»: «Quella sindone», scrisse, «era una semplice stoffa su cui un abile falsario aveva artificiosamente raffigurato il corpo martoriato del Cristo». Fu addirittura identificato l’artefice della contraffazione, che confermò i sospetti del vescovo. Il decano e i suoi complici «furono costretti a cessare le ostensioni e fecero sparire il panno in modo che il vescovo non potesse sequestrarlo».
Così per più di trent’anni della Sindone di Lirey non si seppe più nulla. Finché nel 1389 un Papa d’obbedienza avignonese, Clemente VII (Robert de Genève), rese nulla la sconfessione di Pierre d’Arcis. Il quale però si rivolse al Pontefice con un «memoriale» in cui si riepilogavano i termini della vicenda con una versione decisamente ostile alla tesi dell’autenticità della Sindone. Qualcuno, ricorda Nicolotti, «ha ipotizzato che la tolleranza dimostrata da Clemente VII di Avignone nei riguardi della ostensione della Sindone vada anche letta alla luce delle contrapposizioni tra i due Papicontemporaneamente regnanti, Clemente VII, appunto, e a RomaBonifacio IX: in epoca di scisma, Clemente avrebbe avuto qualche interesse nel favorire il culto della Sindone a discapito di quello della Veronica che veniva esposta nel 1390 a Roma, nel territorio sottoposto al Pontefice suo concorrente». Clemente VII autorizza dunque l’ostensione della Sindone, ma – e questo è assai rilevante – impone ai canonici di precisare che non si tratta dell’autentico sudario, bensì di una «raffigurazione» o «pittura». Talché tre ecclesiastici di Liegi, che nel 1449 si occuperanno del caso, ribadiranno che «da tutti i documenti inerenti alla Sindone» veniva fuori che il lino «non è il vero sudario di Gesù Cristo, ma soltanto una rappresentazione e una figura». Si deve dunque registrare questa stranezza. A dispetto del fatto che vescovi e Papi in passato avessero dichiarato «l’autenticità di numerosissime reliquie che poi sono state riconosciute come false», qui è accaduto l’esatto contrario: sia il vescovo sia il Papa intervennero «a limitare il culto di un oggetto che, secondo loro, non doveva essere considerato una reliquia». Furono alcuni religiosi del luogo e molti laici semmai ad essere «propensi a riconoscerne l’autenticità». È, come giustamente sottolinea Nicolotti, un caso storiografico «raro, se non unico».
Il resto lo fecero i Savoia. A metà del Quattrocento un’erede di Geoffroy I, Marguerite de Charny, aveva donato la Sindone a Ludovico di Savoia. Un vicenda misteriosa, per la quale Marguerite era stata scomunicata e il passaggio del prezioso telo era stato osteggiato dalla Chiesa. La «tutt’altro che chiara posizione giuridica di Marguerite nei riguardi della Sindone e il divieto di commerciare in reliquie», osserva Nicolotti, «spiega perché la Sindone sia stata ceduta ai Savoia senza un consueto atto di vendita che la menzionasse esplicitamente». E spiega anche «perché i successivi storici di casa Savoia si siano dati da fare per cancellare questa indecorosa storia, raccontando che la Sindone era giunta fra le mani del duca come dono voluto dal cielo». I Savoia la conservarono a Chambéry e, a cavallo tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento, alcuni Pontefici si fecero possibilisti circa l’autenticità della Sindone. Nel dicembre del 1532 andò a fuoco la Sainte-Chapelle che ospitava il telo. Nel 1534, François Rabelais in Gargantua la diede per bruciata «così che», scrisse, «non se ne poté salvare un solo pezzettino». E invece in quello stesso 1534 il panno fece la sua ricomparsa. Giovanni Calvino sostenne che si trattava di una reliquia falsa e di rimpiazzo: «La pittura era così fresca che mentire non sarebbe servito a nulla, se ci fossero stati occhi per guardare». Del resto, anche Nicolotti mette in evidenza i suoi non pochi dubbi. Tanto più che trascorsero alcuni mesi prima che papa Clemente VII (Giulio de’ Medici, Pontefice a tutti gli effetti, da non confondere con il Clemente VII citato in precedenza) desse ai suoi l’incarico di «certificare la sopravvivenza della reliquia». Un tempo che, secondo qualcuno, potrebbe essere stato impiegato «per trovare una stoffa vecchia di due secoli e abbastanza somigliante, nonché un falsario sufficientemente abile capace di fabbricare una sindone nuova che potesse somigliare a quella distrutta». L’aggiunta delle «bruciature fabbricate ad arte» sarebbe stata «necessaria perché non si poteva pensare di mostrare al popolo una sindone intonsa». Eppure ci furono 35 «testimonianze giurate» che attestavano si trattasse della vera Sindone sopravvissuta all’incendio… Ma, dopo un accurato esame, Nicolotti è in grado di stabilire che quei 35 testimoni «erano tutti legati ai Savoia da un intreccio di relazioni di sudditanza, interesse politico, dipendenza economica, favori e vincoli familiari».
In seguito la Sindone fu spostata infinite volte, passò indenne attraverso numerosi conflitti del Cinquecento finché, nel 1578, il duca di Savoia la portò a Torino per esporla all’omaggio dell’arcivescovo di Milano Carlo Borromeo, reduce dalla terribile pestilenza che aveva colpito la sua diocesi nel biennio 1576-1577. Il cardinale si recò in pellegrinaggio alla Sindone di Torino nel 1578 e poi altre tre volte, nel 1581, nel 1582 e nel 1584. Il 12 aprile 1582, Gregorio XIII estese il carattere di solennità della festa della Sindone del 4 maggio anche alle terre di qua dai monti e concesse l’indulgenza plenaria a tutti i fedeli confessati e comunicati che avessero assistito all’ostensione. Di qui fiorirono nuove leggende. Durante l’assedio di Torino del 1706 la veggente Serafina Brunelli disse di aver visto la Sindone prender forma di roccia e avvolgere la città come una muraglia di difesa contro i francesi. Le ostensioni poi proseguirono in modo regolare fino alla seconda metà del Settecento, in epoca illuminista, quando subirono un «drastico ridimensionamento» ed ebbero luogo «praticamente soltanto in occasione di eventi riguardanti casa Savoia». I quali Savoia si batteranno ancora nel corso dell’Ottocento perché alla «loro» Sindone fossero riconosciuti tutti i possibili titoli di autenticità.
Ma il 6 giugno del 1900, Ulysse Chevalier, canonico di Romans-sur-Isère, rinomato storico del Medioevo, presentò alla Sorbona uno Studio critico sull’origine del S. Sudario di Lirey-Chambéry-Torino, in cui diede il giusto rilievo alla circostanza che non ci sia nessuna notizia certa sulla Sindone anteriore al XIV secolo. Gli storici italiani, per non inimicarsi la Chiesa di Roma e casa Savoia, si astennero, eccezion fatta per qualche ardimentoso, dall’intervenire «scientificamente» sulla questione. Una nuova ostensione fu fatta nel 1931 per celebrare (un anno dopo) le nozze di Umberto di Savoia con Maria José del Belgio. L’arcivescovo di Torino Maurilio Fossati fece presente che il lavoro di Chevalier aveva provocato «opposizioni» alla riproposizione in pubblico del sacro telo. Ma papa Pio XI si fece personalmente garante del fatto che quelle opposizioni «non reggevano». Nel 1936 lo stesso Pontefice definì la Sindone «un ancor misterioso oggetto, ma certamente non di fattura umana (questo già si può dir dimostrato)». In questo periodo si allentò il legame tra Sindone e casa Savoia (Vittorio Emanuele III non si recò mai a visitarla) e si accentuò, invece, quello con la Chiesa.
Nel corso della Seconda guerra mondiale il telo fu trasferito, di nascosto, nell’abbazia di Montevergine nei pressi di Avellino. Nel 1959 papa Giovanni XXIII confessò di aver avuto «qualche dubbio sulla veridicità della reliquia», ma di essersi poi accorto di quanto essa fosse «cosa sacra e reale». Però a metà degli anni Sessanta, il successore di Fossati Michele Pellegrino, nuovo arcivescovo torinese, evitò con cura di dichiararsi a favore dell’autenticità della reliquia e, nel 1969, istituì una commissione che avrebbe dovuto procedere ad una ricognizione sul telo (i risultati, assai deludenti, furono resi noti solo nel 1976). Il 1973 fu l’anno dell’ostensione televisiva della Sindone. A poco a poco nasceva la «sindonologia», che Nicolotti definisce una disciplina con «le caratteristiche tipiche delle pseudo-scienze»: «opera di persone che hanno un alto interesse personale nei suoi confronti, disposte anche ad accontentarsi di congetturare su un oggetto che non si può nemmeno vedere da vicino». Un vero scienziato è, invece, il microscopista di Chicago Walter McCrone, che nel 1977 stabilisce che «la figura dell’uomo della Sindone è stata dipinta con l’applicazione di ocra rossa in una tempera di collagene animale molto diluita». Nel 1997 nuovo incendio: la Sindone si salva una seconda volta dalle fiamme per quello che, secondo la Chiesa, è un «intervento divino». Nel frattempo la scienza avanza dubbi sempre più argomentati. Ma per lo storico resta l’obiezione principe, quella del biblista Josef Blinzler: dal momento che non esiste documentazione anteriore alla disputa fra i canonici di Lirey e il vescovo di Troyes del XIV secolo, «i più di mille anni di silenzio qualificato rendono del tutto improbabile se non impossibile l’ipotesi che la Sindone di Torino sia stata custodita fin dall’era apostolica e conservata lungo i secoli». Tutto ciò che è stato addotto a spiegare quei mille e passa anni di silenzio è nient’altro che frutto di un uso acrobatico della storia.
Sempre nel XIII secolo ne comparve un altro nell’abbazia cistercense di Cadouin, allorché Simon IV de Montfort, capo della crociata contro gli Albigesi, nel 1214 lo espose ai pellegrini al fine di procacciarsi, con le loro elemosine, una cospicua rendita. Nel 1643 questa reliquia fu dichiarata «autentica» dal vescovo Jean de Lingendes. E autentica fu considerata per 290 anni. Finché nel 1933, sulla base di studi accurati, si scoprì che quel panno di lino non soltanto era di epoca medievale, ma addirittura di origine egiziana e islamica. Un terzo «lenzuolo di Cristo» fu quello degli agostiniani di Carcassonne, i quali, nel 1402, furono trascinati in giudizio dai cistercensi di Cadouin che ritenevano si trattasse di una parte sottratta a quello, il «loro», di cui si è detto poc’anzi. Più complicata la vicenda della Santa cuffia, che avrebbe coperto la testa di Gesù deposto dalla croce, donata da Pipino il breve (o da Carlo Magno) al vescovo Aymat di Cahors, il quale, a testarne l’autenticità, l’avrebbe posta sulla testa di un morto con l’effetto di resuscitarlo immediatamente. Anche la Santa cuffia sopravvisse alla Rivoluzione francese, ma studi successivi dimostrarono inequivocabilmente che era stata cucita non prima dell’XI secolo. Ci fu poi il presunto sudario che – diceva la leggenda – era stato posto sul volto di Gesù dopo la crocefissione e veniva conservato a Magonza. Quella stessa leggenda raccontava che sarebbe stato donato dalla nobile Cunegonda a santa Bilide (peccato però che Cunegonda fosse nata nel 734, quanto Bilide era già morta).
Il punto di partenza di questa storia, scrive Andrea Nicolotti nello straordinario Sindone. Storia e leggende di una reliquia controversa, edito da Einaudi, è nell’anno 1204, allorché una crociata, la quarta, partita per liberare Gerusalemme, «fece sosta» a Costantinopoli e razziò la capitale dell’impero bizantino. Da quel momento l’Europafu invasa da reliquie, pezzi di sindone e di sudario. Robert de Clari, un cavaliere piccardo che aveva preso parte a quella crociata, scrisse che nella chiesa delle Blacherne «si trovava la stoffa in cui nostro Signore fu avvolto che ciascun venerdì si drizzava tutta dritta». Nicolotti dimostra quanto de Clari fosse un testimone inattendibile: si era spinto «ad accettare la verosimiglianza delle reliquie più strane», fino a prendere addirittura per «buone» le lacrime della Madonna ancora visibili sulla tavola di marmo dove Cristo era stato deposto dalla croce. Talché all’autore sembra di poter «escludere» che alle Blacherne vi fosse davvero quella stoffa di 1.200 anni prima.
Stessa perplessità Nicolotti mostra nei confronti del sudario di Oviedo, la cui esistenza è attestata da un documento (non originale) del 1075 e che, nel 1101, fu autenticato dal vescovo Pelayo. Secondo Nicolotti, Pelayo «mise mano a una potente creazione ideologica atta a fornire una legittimazione storica e propagandistica alla supremazia della sede di Oviedo la cui importanza religiosa e politica era in declino», ma si caratterizzò per un’assoluta mancanza di rigore, tant’è che i suoi contemporanei lo chiamavano «el fabulero» (il raccontafavole). Singolare è la circostanza che molti storici si siano dimostrati assai poco «scientifici» nell’occuparsi di questo argomento. E qui Nicolotti polemizza esplicitamente con la storiografia che si è occupata delle reliquie: «Quando una notizia leggendaria coincide con la tesi che si vuol dimostrare, la si accoglie; quando vi si oppone, la si scarta accusandola di fantasiosità».
Ma veniamo alla Sindone vera e propria. I primi documenti che ne parlano risalgono alla seconda metà del Trecento e riguardano la chiesetta campagnola di Lirey, edificata a spese del cavaliere francese Geoffroy de Charny. De Charny le avrebbe donato la Sindone, da lui avuta non si sa bene come, per conferirle prestigio. Grande e immediato fu il successo di quel panno. Ma la Chiesa era perplessa. Il vescovo di Troyes, Pierre d’Arcis-sur-Aube, raccontò nel 1389 che a Lirey il decano dei canonici Robert de Caillac aveva fatto esporre «un lungo telo che recava l’immagine del corpo straziato del Cristo» per esibirlo ai fedeli a scopo di lucro, «lasciando credere che fosse l’autentico lino sepolcrale di Gesù». Il vescovo Henry de Poitiers, predecessore di d’Arcis, aveva compiuto un’indagine su quel lino ed era giunto alla conclusione che si trattava di una «frode»: «Quella sindone», scrisse, «era una semplice stoffa su cui un abile falsario aveva artificiosamente raffigurato il corpo martoriato del Cristo». Fu addirittura identificato l’artefice della contraffazione, che confermò i sospetti del vescovo. Il decano e i suoi complici «furono costretti a cessare le ostensioni e fecero sparire il panno in modo che il vescovo non potesse sequestrarlo».
Così per più di trent’anni della Sindone di Lirey non si seppe più nulla. Finché nel 1389 un Papa d’obbedienza avignonese, Clemente VII (Robert de Genève), rese nulla la sconfessione di Pierre d’Arcis. Il quale però si rivolse al Pontefice con un «memoriale» in cui si riepilogavano i termini della vicenda con una versione decisamente ostile alla tesi dell’autenticità della Sindone. Qualcuno, ricorda Nicolotti, «ha ipotizzato che la tolleranza dimostrata da Clemente VII di Avignone nei riguardi della ostensione della Sindone vada anche letta alla luce delle contrapposizioni tra i due Papicontemporaneamente regnanti, Clemente VII, appunto, e a RomaBonifacio IX: in epoca di scisma, Clemente avrebbe avuto qualche interesse nel favorire il culto della Sindone a discapito di quello della Veronica che veniva esposta nel 1390 a Roma, nel territorio sottoposto al Pontefice suo concorrente». Clemente VII autorizza dunque l’ostensione della Sindone, ma – e questo è assai rilevante – impone ai canonici di precisare che non si tratta dell’autentico sudario, bensì di una «raffigurazione» o «pittura». Talché tre ecclesiastici di Liegi, che nel 1449 si occuperanno del caso, ribadiranno che «da tutti i documenti inerenti alla Sindone» veniva fuori che il lino «non è il vero sudario di Gesù Cristo, ma soltanto una rappresentazione e una figura». Si deve dunque registrare questa stranezza. A dispetto del fatto che vescovi e Papi in passato avessero dichiarato «l’autenticità di numerosissime reliquie che poi sono state riconosciute come false», qui è accaduto l’esatto contrario: sia il vescovo sia il Papa intervennero «a limitare il culto di un oggetto che, secondo loro, non doveva essere considerato una reliquia». Furono alcuni religiosi del luogo e molti laici semmai ad essere «propensi a riconoscerne l’autenticità». È, come giustamente sottolinea Nicolotti, un caso storiografico «raro, se non unico».
Il resto lo fecero i Savoia. A metà del Quattrocento un’erede di Geoffroy I, Marguerite de Charny, aveva donato la Sindone a Ludovico di Savoia. Un vicenda misteriosa, per la quale Marguerite era stata scomunicata e il passaggio del prezioso telo era stato osteggiato dalla Chiesa. La «tutt’altro che chiara posizione giuridica di Marguerite nei riguardi della Sindone e il divieto di commerciare in reliquie», osserva Nicolotti, «spiega perché la Sindone sia stata ceduta ai Savoia senza un consueto atto di vendita che la menzionasse esplicitamente». E spiega anche «perché i successivi storici di casa Savoia si siano dati da fare per cancellare questa indecorosa storia, raccontando che la Sindone era giunta fra le mani del duca come dono voluto dal cielo». I Savoia la conservarono a Chambéry e, a cavallo tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento, alcuni Pontefici si fecero possibilisti circa l’autenticità della Sindone. Nel dicembre del 1532 andò a fuoco la Sainte-Chapelle che ospitava il telo. Nel 1534, François Rabelais in Gargantua la diede per bruciata «così che», scrisse, «non se ne poté salvare un solo pezzettino». E invece in quello stesso 1534 il panno fece la sua ricomparsa. Giovanni Calvino sostenne che si trattava di una reliquia falsa e di rimpiazzo: «La pittura era così fresca che mentire non sarebbe servito a nulla, se ci fossero stati occhi per guardare». Del resto, anche Nicolotti mette in evidenza i suoi non pochi dubbi. Tanto più che trascorsero alcuni mesi prima che papa Clemente VII (Giulio de’ Medici, Pontefice a tutti gli effetti, da non confondere con il Clemente VII citato in precedenza) desse ai suoi l’incarico di «certificare la sopravvivenza della reliquia». Un tempo che, secondo qualcuno, potrebbe essere stato impiegato «per trovare una stoffa vecchia di due secoli e abbastanza somigliante, nonché un falsario sufficientemente abile capace di fabbricare una sindone nuova che potesse somigliare a quella distrutta». L’aggiunta delle «bruciature fabbricate ad arte» sarebbe stata «necessaria perché non si poteva pensare di mostrare al popolo una sindone intonsa». Eppure ci furono 35 «testimonianze giurate» che attestavano si trattasse della vera Sindone sopravvissuta all’incendio… Ma, dopo un accurato esame, Nicolotti è in grado di stabilire che quei 35 testimoni «erano tutti legati ai Savoia da un intreccio di relazioni di sudditanza, interesse politico, dipendenza economica, favori e vincoli familiari».
In seguito la Sindone fu spostata infinite volte, passò indenne attraverso numerosi conflitti del Cinquecento finché, nel 1578, il duca di Savoia la portò a Torino per esporla all’omaggio dell’arcivescovo di Milano Carlo Borromeo, reduce dalla terribile pestilenza che aveva colpito la sua diocesi nel biennio 1576-1577. Il cardinale si recò in pellegrinaggio alla Sindone di Torino nel 1578 e poi altre tre volte, nel 1581, nel 1582 e nel 1584. Il 12 aprile 1582, Gregorio XIII estese il carattere di solennità della festa della Sindone del 4 maggio anche alle terre di qua dai monti e concesse l’indulgenza plenaria a tutti i fedeli confessati e comunicati che avessero assistito all’ostensione. Di qui fiorirono nuove leggende. Durante l’assedio di Torino del 1706 la veggente Serafina Brunelli disse di aver visto la Sindone prender forma di roccia e avvolgere la città come una muraglia di difesa contro i francesi. Le ostensioni poi proseguirono in modo regolare fino alla seconda metà del Settecento, in epoca illuminista, quando subirono un «drastico ridimensionamento» ed ebbero luogo «praticamente soltanto in occasione di eventi riguardanti casa Savoia». I quali Savoia si batteranno ancora nel corso dell’Ottocento perché alla «loro» Sindone fossero riconosciuti tutti i possibili titoli di autenticità.
Ma il 6 giugno del 1900, Ulysse Chevalier, canonico di Romans-sur-Isère, rinomato storico del Medioevo, presentò alla Sorbona uno Studio critico sull’origine del S. Sudario di Lirey-Chambéry-Torino, in cui diede il giusto rilievo alla circostanza che non ci sia nessuna notizia certa sulla Sindone anteriore al XIV secolo. Gli storici italiani, per non inimicarsi la Chiesa di Roma e casa Savoia, si astennero, eccezion fatta per qualche ardimentoso, dall’intervenire «scientificamente» sulla questione. Una nuova ostensione fu fatta nel 1931 per celebrare (un anno dopo) le nozze di Umberto di Savoia con Maria José del Belgio. L’arcivescovo di Torino Maurilio Fossati fece presente che il lavoro di Chevalier aveva provocato «opposizioni» alla riproposizione in pubblico del sacro telo. Ma papa Pio XI si fece personalmente garante del fatto che quelle opposizioni «non reggevano». Nel 1936 lo stesso Pontefice definì la Sindone «un ancor misterioso oggetto, ma certamente non di fattura umana (questo già si può dir dimostrato)». In questo periodo si allentò il legame tra Sindone e casa Savoia (Vittorio Emanuele III non si recò mai a visitarla) e si accentuò, invece, quello con la Chiesa.
Nel corso della Seconda guerra mondiale il telo fu trasferito, di nascosto, nell’abbazia di Montevergine nei pressi di Avellino. Nel 1959 papa Giovanni XXIII confessò di aver avuto «qualche dubbio sulla veridicità della reliquia», ma di essersi poi accorto di quanto essa fosse «cosa sacra e reale». Però a metà degli anni Sessanta, il successore di Fossati Michele Pellegrino, nuovo arcivescovo torinese, evitò con cura di dichiararsi a favore dell’autenticità della reliquia e, nel 1969, istituì una commissione che avrebbe dovuto procedere ad una ricognizione sul telo (i risultati, assai deludenti, furono resi noti solo nel 1976). Il 1973 fu l’anno dell’ostensione televisiva della Sindone. A poco a poco nasceva la «sindonologia», che Nicolotti definisce una disciplina con «le caratteristiche tipiche delle pseudo-scienze»: «opera di persone che hanno un alto interesse personale nei suoi confronti, disposte anche ad accontentarsi di congetturare su un oggetto che non si può nemmeno vedere da vicino». Un vero scienziato è, invece, il microscopista di Chicago Walter McCrone, che nel 1977 stabilisce che «la figura dell’uomo della Sindone è stata dipinta con l’applicazione di ocra rossa in una tempera di collagene animale molto diluita». Nel 1997 nuovo incendio: la Sindone si salva una seconda volta dalle fiamme per quello che, secondo la Chiesa, è un «intervento divino». Nel frattempo la scienza avanza dubbi sempre più argomentati. Ma per lo storico resta l’obiezione principe, quella del biblista Josef Blinzler: dal momento che non esiste documentazione anteriore alla disputa fra i canonici di Lirey e il vescovo di Troyes del XIV secolo, «i più di mille anni di silenzio qualificato rendono del tutto improbabile se non impossibile l’ipotesi che la Sindone di Torino sia stata custodita fin dall’era apostolica e conservata lungo i secoli». Tutto ciò che è stato addotto a spiegare quei mille e passa anni di silenzio è nient’altro che frutto di un uso acrobatico della storia.
Paolo Mieli
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.