L'invidia e le sue cinque figlie
di don LeonardoM.Pompei
"L'invidia è un peccato che molti cattolici commettono, ma che quasi nessuno confessa". Così un noto politico italiano dello scorso secolo rispondeva quando gli si chiedeva di parlare del quinto vizio capitale, probabilmente il più odioso, antipatico e meschino fra tutti e sette. Difficile concepire qualcosa di più piccino di un uomo che si rode nell'invidia, che asseconda questa bassissima passione, madre - come vedremo - dell'odio e per questo, a detta di san Tommaso d'Aquino, formalmente e direttamente contraria alla carità.
L'invidia non è un altro che una forma particolare della passione della tristezza - già di per se ordinariamente da non assecondare eccettuate rarissime eccezioni - e insiste precisamente nel rattristarsi per il bene altrui (materiale o spirituale) percepito come male proprio o come bene più grande del proprio. Una piovra con due distinti tentacoli, che danno vita a due complementari specie: rattristarsi di fronte a un bene, un successo o una qualità dell'altro e rallegrarsi dinanzi a un male, a un fallimento o a un difetto dell'altro. Vedremo che dentro questo vizio è contenuto anche un gravissimo peccato contro lo Spirito Santo (l'invidia della grazia altrui) e come sotto la spinta di questa passione l'uomo può divenire capaci di grandi "bassezze". Come tutti i vizi, tende ordinariamente a nascondersi o camuffarsi, o addirittura celarsi sotto le spoglie di presunta o supposta virtù. Si pensi solo al caso, umanamente parlando, dell'uccisione di Gesù Cristo che fu invocata sotto l'ipocrita e specioso pretesto di eliminare un falso profeta, un bestemmiatore e un sobillatore mentre, come evidenziano gli evangelisti, perfino il proconsole pagano si era accorto che gli era stato consegnato solo per invidia. Gesù era santo, faceva i miracoli, folle oceaniche pendevano dalle sue labbra. Presumibilmente, per contro, i rigidi schemi religiosi, affettatamente e apparentemente santi, di scribi e farisei non incontravano altrettanto favore e successo. Quindi?... Il capitolo secondo del libro della Sapienza tratteggia in maniera plastica e assai precisa le modalità caratteristiche di questo odioso vizio e le conseguenze a cui porta, fornendo una sorta di storia anticipata di quel che accadde in quei drammatici Giovedì e Venerdì di due millenni or sono, in una lugubre sequenza destinata sciaguratamente a reiterarsi ogni qual volta il giusto si staglia nella sua luminosa statura e santità di fronte alla fiorde becere e scatenate degli empi insolenti, ipocriti e beffardi. In esso si leggono, tra le altre, queste parole di sconcertante attualità: "Gli empi invocano su di sé la morte con gesti e con parole, ritenendola amica si consumano per essa e con essa concludono alleanza, perché son degni di appartenerle. Dicono fra loro sragionando: «La nostra vita è breve e triste; non c'è rimedio, quando l'uomo muore, e non si conosce nessuno che liberi dagli inferi. Siamo nati per caso e dopo saremo come se non fossimo stati. Una volta spenta la vita, il corpo diventerà cenere e lo spirito si dissiperà come aria leggera. Il nostro nome sarà dimenticato con il tempo e nessuno si ricorderà delle nostre opere. La nostra esistenza è il passare di un'ombra e non c'è ritorno alla nostra morte, poiché il sigillo è posto e nessuno torna indietro. Su, godiamoci i beni presenti, facciamo uso delle creature con ardore giovanile! Inebriamoci di vino squisito e di profumi, non lasciamoci sfuggire il fiore della primavera, nessuno di noi manchi alla nostra intemperanza. Lasciamo dovunque i segni della nostra gioia perché questo ci spetta, questa è la nostra parte. La nostra forza sia regola della giustizia, perché la debolezza risulta inutile. Tendiamo insidie al giusto, perché ci è di imbarazzo ed è contrario alle nostre azioni; ci rimprovera le trasgressioni della legge e ci rinfaccia le mancanze contro l'educazione da noi ricevuta. Proclama di possedere la conoscenza di Dio e si dichiara figlio del Signore. E' diventato per noi una condanna dei nostri sentimenti; ci è insopportabile solo al vederlo, perché la sua vita è diversa da quella degli altri, e del tutto diverse sono le sue strade. Moneta falsa siam da lui considerati, schiva le nostre abitudini come immondezze. Proclama beata la fine dei giusti e si vanta di aver Dio per padre.Vediamo se le sue parole sono vere; proviamo ciò che gli accadrà alla fine. Se il giusto è figlio di Dio, egli l'assisterà, e lo libererà dalle mani dei suoi avversari. Mettiamolo alla prova con insulti e tormenti, per conoscere la mitezza del suo carattere e saggiare la sua rassegnazione. Condanniamolo a una morte infame, perché secondo le sue parole il soccorso gli verrà». La pensano così, ma si sbagliano; la loro malizia li ha accecati. Non conoscono i segreti di Dio; non sperano salario per la santità né credono alla ricompensa delle anime pure" (cf Sap 1,16-2,22). Nelle parole degli empi, insieme al sinistro profetico sibilo di ciò che sarebbe accaduto a nostro Signore, si sente risuonare non poco del pensiero occidentale di questi ultimi decenni. Pensiero che tende alla distruzione del bene e di chiunque osi viverlo e proclamarlo. Pensiero che genera odio. Sia nei confronti dei virtuosi sia nei confronti di chi, avendo di più, può godersi maggiormente i bagordi dell'intemperanza. Pensiero che uccide l'amore, la compassione e i rapporti interpersonali. Pensiero da cui guardarsi e da conoscere in tutte le sue sfaccettature e risvolti.
L'invidia non è un altro che una forma particolare della passione della tristezza - già di per se ordinariamente da non assecondare eccettuate rarissime eccezioni - e insiste precisamente nel rattristarsi per il bene altrui (materiale o spirituale) percepito come male proprio o come bene più grande del proprio. Una piovra con due distinti tentacoli, che danno vita a due complementari specie: rattristarsi di fronte a un bene, un successo o una qualità dell'altro e rallegrarsi dinanzi a un male, a un fallimento o a un difetto dell'altro. Vedremo che dentro questo vizio è contenuto anche un gravissimo peccato contro lo Spirito Santo (l'invidia della grazia altrui) e come sotto la spinta di questa passione l'uomo può divenire capaci di grandi "bassezze". Come tutti i vizi, tende ordinariamente a nascondersi o camuffarsi, o addirittura celarsi sotto le spoglie di presunta o supposta virtù. Si pensi solo al caso, umanamente parlando, dell'uccisione di Gesù Cristo che fu invocata sotto l'ipocrita e specioso pretesto di eliminare un falso profeta, un bestemmiatore e un sobillatore mentre, come evidenziano gli evangelisti, perfino il proconsole pagano si era accorto che gli era stato consegnato solo per invidia. Gesù era santo, faceva i miracoli, folle oceaniche pendevano dalle sue labbra. Presumibilmente, per contro, i rigidi schemi religiosi, affettatamente e apparentemente santi, di scribi e farisei non incontravano altrettanto favore e successo. Quindi?... Il capitolo secondo del libro della Sapienza tratteggia in maniera plastica e assai precisa le modalità caratteristiche di questo odioso vizio e le conseguenze a cui porta, fornendo una sorta di storia anticipata di quel che accadde in quei drammatici Giovedì e Venerdì di due millenni or sono, in una lugubre sequenza destinata sciaguratamente a reiterarsi ogni qual volta il giusto si staglia nella sua luminosa statura e santità di fronte alla fiorde becere e scatenate degli empi insolenti, ipocriti e beffardi. In esso si leggono, tra le altre, queste parole di sconcertante attualità: "Gli empi invocano su di sé la morte con gesti e con parole, ritenendola amica si consumano per essa e con essa concludono alleanza, perché son degni di appartenerle. Dicono fra loro sragionando: «La nostra vita è breve e triste; non c'è rimedio, quando l'uomo muore, e non si conosce nessuno che liberi dagli inferi. Siamo nati per caso e dopo saremo come se non fossimo stati. Una volta spenta la vita, il corpo diventerà cenere e lo spirito si dissiperà come aria leggera. Il nostro nome sarà dimenticato con il tempo e nessuno si ricorderà delle nostre opere. La nostra esistenza è il passare di un'ombra e non c'è ritorno alla nostra morte, poiché il sigillo è posto e nessuno torna indietro. Su, godiamoci i beni presenti, facciamo uso delle creature con ardore giovanile! Inebriamoci di vino squisito e di profumi, non lasciamoci sfuggire il fiore della primavera, nessuno di noi manchi alla nostra intemperanza. Lasciamo dovunque i segni della nostra gioia perché questo ci spetta, questa è la nostra parte. La nostra forza sia regola della giustizia, perché la debolezza risulta inutile. Tendiamo insidie al giusto, perché ci è di imbarazzo ed è contrario alle nostre azioni; ci rimprovera le trasgressioni della legge e ci rinfaccia le mancanze contro l'educazione da noi ricevuta. Proclama di possedere la conoscenza di Dio e si dichiara figlio del Signore. E' diventato per noi una condanna dei nostri sentimenti; ci è insopportabile solo al vederlo, perché la sua vita è diversa da quella degli altri, e del tutto diverse sono le sue strade. Moneta falsa siam da lui considerati, schiva le nostre abitudini come immondezze. Proclama beata la fine dei giusti e si vanta di aver Dio per padre.Vediamo se le sue parole sono vere; proviamo ciò che gli accadrà alla fine. Se il giusto è figlio di Dio, egli l'assisterà, e lo libererà dalle mani dei suoi avversari. Mettiamolo alla prova con insulti e tormenti, per conoscere la mitezza del suo carattere e saggiare la sua rassegnazione. Condanniamolo a una morte infame, perché secondo le sue parole il soccorso gli verrà». La pensano così, ma si sbagliano; la loro malizia li ha accecati. Non conoscono i segreti di Dio; non sperano salario per la santità né credono alla ricompensa delle anime pure" (cf Sap 1,16-2,22). Nelle parole degli empi, insieme al sinistro profetico sibilo di ciò che sarebbe accaduto a nostro Signore, si sente risuonare non poco del pensiero occidentale di questi ultimi decenni. Pensiero che tende alla distruzione del bene e di chiunque osi viverlo e proclamarlo. Pensiero che genera odio. Sia nei confronti dei virtuosi sia nei confronti di chi, avendo di più, può godersi maggiormente i bagordi dell'intemperanza. Pensiero che uccide l'amore, la compassione e i rapporti interpersonali. Pensiero da cui guardarsi e da conoscere in tutte le sue sfaccettature e risvolti.
L'invidia, secondo l’insegnamento di san Tommaso, ha cinque figlie: l’invidia della grazia altrui, l’odio di Dio, la detrazione del prossimo, la mormorazione e l’esultanza per le avversità degli altri (nonché la forma speculare del rattristarsi per gli altrui successi).
Circa l’invidia della grazia altrui, secondo la tradizione cattolica è una delle sei forme che può assumere la bestemmia o peccato contro lo Spirito Santo di cui Gesù, nei Vangeli, afferma la non perdonabilità e remissibilità né in questa né nell’altra vita (cf Mt 12,31-32 e Mc 3,29). Questo comportamento è ben diverso dall’invidia santa che può (anzi dovrebbe) prenderci dinanzi agli edificanti esempi mostrati dai santi, consistente nel desiderio di emulare, per quanto possibile, le loro virtù, il loro zelo, il loro eroismo. Si tratta, invece, di quell’avversione che sorge nel cuore alla vista delle virtù altrui, motivata dal semplice fatto che esse sono una denuncia tacita ma eloquente di una vita di vizio e di peccato da cui non si ha alcuna intenzione di emendarsi. Fu questo il peccato che, storicamente, causò la condanna a morte di Gesù di Nazareth e fu anche a causa di questo gravissimo disordine che la terra bevve per la prima volta il sangue di un uomo, quello di Abele assassinato per invidia dal fratricida Caino. È una forma di chiusura irreversibile alla grazia (ecco perché è uno dei peccati contro lo Spirito), in quanto distrugge uno dei canali dei quali il Signore si serve per muoverci a conversione, ossia l’esempio e la parola dei suoi servi e amici. Chi dinanzi a tale dono si irrigidisce odiando il giusto solo perché dice e opera la verità, si autoesclude, inesorabilmente, dal circuito di salvezza innescato dalla Grazia e si condanna ad un indurimento del cuore potenzialmente irreversibile e ordinariamente orientato all’eliminazione (ingiusta e sovente cruenta) di chi ha come unica colpa quella di voler servire e glorificare Dio. Con questo peccato, infatti, come giustamente insegna il Doctor Angelicus, si perpetra, a ben considerare, un tentativo di distruzione della gloria di Dio, che si esalta ed è sommamente manifestata nella vita luminosa dei santi.
L’odio di Dio - in quanto percepito come male proprio a causa della sua straordinaria e irraggiungibile eccellenza - è peccato luciferino e demoniaco nel senso più stretto del termine. Ciò che mosse gli angeli a ribellarsi all’Altissimo fu proprio, come la Tradizione della Chiesa insegna, l’invidia della Sua eccelsa grandezza e l’impossibilità di tenervi testa neanche da parte del più grande e luminoso degli angeli, quale era Lucifero prima della caduta. Tutti coloro che si ribellano a Dio a causa delle esigenze della sua legge oppure che cercano di farsi una fede a propria immagine e somiglianza illudendosi e ingannandosi dietro una distorta caricatura della sua bontà e misericordia, incorrono in questo grave peccato, anche quando non giungono alla bestemmia in senso stretto oppure a quelle forme di ateismo sistematico e militante - ampiamente attestato dagli ultimi due secoli e mezzo di storia del vecchio continente - teso a distruggere perfino l’idea di Dio nelle menti e nei cuori delle persone.
Quando l’invidia colpisce il prossimo, sia essa di tipo spirituale (invidia della grazia e della santità altrui), morale (invidia della posizione sociale, delle doti di intelligenza, etc.) o materiale (invidia della bellezza, del denaro, dei beni altrui, etc.), porta quasi sempre con sé il gravissimo (e diffusissimo) peccato delladetrazione, ovvero il tentativo di distruggere la gloria o semplicemente la buona fama altrui o con la maldicenza (diffondere malefatte e difetti altrui veri ma non pubblici), oppure con la critica (diffondere difetti o vizi manifesti), o seminando zizzania (sparlare del prossimo con chi è suo amico per mettere discordia e inimicizia) oppure con la calunnia (diffondere difetti o malefatte totalmente inesistenti e inventate). Si badi che tutte queste distinte forme di detrazione costituiscono gravi peccati. San Francesco d’Assisi, con i frati che si abbandonavano alla detrazione, era severissimo, non esitando a giungere perfino al gravissimo provvedimento dell’espulsione dall’ordine. Nulla infatti è tanto contrario alla carità come questo peccato e nulla come questo distrugge la concordia e la comunione. Del resto, altro non ci si potrebbe aspettare dalle figlie del vizio che, come abbiamo già avuto modo di evidenziare, è formalmente opposto e contrario all’aurea e adorabile virtù cardinale della carità e tanto simile al peccato che causò la ribellione degli angeli decaduti.
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