ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

martedì 2 giugno 2015

Dogma e pastorale

LA VERITÀ RIVELATA, TRA INTERPRETAZIONE DEL MAGISTERO E INTERPRETAZIONE DEI TEOLOGI



Per gentilissima concessione dell'autore, pubblichiamo la conferenza che Mons. Antonio Livi ha tenuto a Prato il 21 maggio 2015.
di Antonio Livi
Per orientare tutti i fedeli a considerazioni che rendano più certa la loro fede – senza dare ascolto alle interessate deformazioni che i media fanno dell’attualità ecclesiale - è assolutamente necessario sottrarre il dibattito al contesto (improprio) delle opposte ideologie e ricondurlo al contesto che gli è proprio, ossia alle categorie epistemiche della teologia fondamentale, le sole che possano fornire i criteri di discernimento riguardo a ciò che impegna la fede di un cattolico.
Grazie a queste categorie epistemiche i fedeli possono individuare, nelle proposte pastorali, ciò che deve (o almeno può) essere accettato in quanto logicamente collegato alla fede della Chiesa, distinguendolo chiaramente da ciò che invece deve essere respinto in quanto contrario alla fede della Chiesa e sostenuto solo da argomenti retorici, non importa se ispirati dall’ideologia conservatrice o da quella riformatrice. In altri termini, si tratta di distinguere ciò che deve essere creduto perché legittimamente proposto dal Magistero come applicazione certa del Vangelo, da ciò che invece può solo essere eventualmente condiviso perché proposto da un’autorità privata in forma ipotetica, come mera opinione. Queste fondamentali distinzioni epistemiche serviranno, da una parte, per rifiutare decisamente qualsiasi proposta incompatibile con la fede della Chiesa, e dall’altra per non dare imprudentemente il proprio assenso di fede a delle proposte che, per quanto compatibili con la fede della Chiesa, sono però mere ipotesi teologiche sulle quali il Magistero non si è ancora pronunciato. Per comprendere bene queste distinzioni – che non sono né inutile né troppo sofisticate – illustro schematicamente il loro fondamento teologico.
1. Nell’insegnamento della Chiesa ci sono due differenti livelli formali: un primo livello corrisponde a ciò che viene insegnato nella forma del dogma, mentre un secondo livello corrisponde a ciò che invece viene insegnato nella forma di dottrine che non rappresentano nuovi dogmi ma solo possibili interpretazioni (esplicazioni, applicazioni, adattamenti) del dogma stesso. Con il termine “dogma” al singolare bisogna intendere quelle verità di fede che il Magistero ha solennemente “definito per mezzo delle “formule dogmatiche” (o “dogmi” al plurale), compendiate nel Symbolum Niceno-Constantinopolitanum. Insieme ad esse la Chiesa insegna, come intrinsecamente connesse al dogma, le leggi morali fondamentali, compendiate nel Decalogo e nel discorso della Montagna.
2. Ora, tutto ciò che appartiene a ciò che ho chiamato “dogma” è proposto ai fedeli come enunciazione definitiva e immutabile e pertanto sempre valido; di conseguenza, non si può assolutamente ipotizzare che essa venga formalmente contraddetta o invalidata  da un successivo pronunciamento del Magistero mentre ciò che ho chiamato “interpretazione del dogma” da parte del Magistero è suscettibile di cambiamenti (adattamenti, approfondimenti, aggiornamenti), dettati dalle esigenze storiche dell’evangelizzazione e della catechesi, cioè della pastorale. Anche in questa seconda forma di dottrina della Chiesa, nessun nuovo enunciato intende contraddire o invalidare gli altri, sicché mai viene meno la coerenza e la continuità del Magistero, nel quale resta immutabile e sempre valido il “nucleo dogmatico” della dottrina cattolica. Poi, quanto all’interpretazione del dogma, occorre distinguere tra quella che è un’interpretazione autorevole (che è quella proposta dalla Chiesa con il suo magistero ordinario) e quella che invece è un’interpretazione privata (com’è quella proposta dai fedeli, sia ecclesiastici che laici, sia pure autorevoli come teologi ma privi di autorità magisteriale).
3. Ancora, per quanto riguarda le varie forme di interpretazione magisteriale, occorre distinguere quelle che sviluppano in modo omogeneo il dogma (la verità che il cristiano deve credere) da quelle che invece intendono applicare alle mutate circostanze storiche la dottrina morale (la verità che il cristiano deve praticare), anche attraverso direttive e norme giuridiche. Queste ultime
4. Infine, per quanto riguarda le interpretazioni private da parte dei teologi (alle quali sono equiparabili le pubblicazioni e le dichiarazioni pubbliche di vescovi e cardinali che non hanno l’autorevolezza di documenti del magistero episcopale), il sensus fidei del popolo di Dio deve portare a valutarle una per una in relazione all’ortodossia, ossia a distinguere quelle che sono compatibili da quelle che invece sono incompatibili con il dogma e con la dottrina morale.
5. Se ritengo necessario chiarire la problematica relativa al rapporto tra dogma e pastorale, è perché tutti i fedeli hanno diritto ad essere messi in grado di valutare personalmente – con lo studio e la riflessione - le proposte di “riforma” che sembrano in aperta contraddizione con il dogma. Il rifiuto di tali proposte non deve essere dettato da pregiudizi ideologici o da prese di posizione conservatrici, ma solo dalla difesa di quegli elementi essenziali del dogma e della morale cattolica che l’azione pastorale non può mai obliterare ma deve invece riproporre sempre efficacemente affinché il Popolo di Dio li comprenda, li ami e li viva in ogni tempo e in ogni luogo. Auspico perciò che nell’attuale dibattito sulle proposte di riforma della pastorale della famiglia nessun parere teologico – né quelli a favore né quelli contro - sia svalutato a priori come se derivasse soltanto da posizioni ideologiche inclini al conservatorismo e ostili al progresso, oppure da indebiti attaccamenti a prassi ecclesiastiche o ad abitudini tradizionali dei fedeli cattolici in qualche parte del mondo. In realtà, risentirebbero certamente di condizionamenti ideologici e politici solo quei pareri teologici che, contravvenendo alle regole della teologia come scienza, respingessero come “errori” alcuni insegnamenti della Chiesa oppure finissero giustificare atteggiamenti anti-ecclesiali, come la denigrazione dell’autorità ecclesiastica o la pubblica disobbedienza alle sue legittime disposizioni.
6. Grazie al carisma dell’infallibilità - garantito da Cristo stesso per assicurare alla Chiesa, «fino alla fine dei tempi», il fedele annuncio del Vangelo «a ogni creatura» - ogni atto del Magistero costituisce o enunciazione o interpretazione autorevole del dogma. Di conseguenza, da nessuna premessa veramente teologica un teologo può ricavare motivi razionali per dubitare o far dubitare della legittimità dogmatica di un qualsiasi punto della dottrina della Chiesa. In altri termini, non è scientificamente ammissibile alcuna opinione teologica circa ipotetici errori del Magistero, come se in alcuni insegnamenti esso avesse mancato di interpretare rettamente il dogma, il che significa che non gli viene riconosciuto de facto il carattere dell’infallibilità, sia pure in gradi e modi diversi. Contravvengono allora alle regole della teologia come scienza coloro che, adottando un illogico metodo di “ermeneutica del Magistero”, pretendono di cogliere in fallo insegnamenti dei papi e dei Concili, rilevando in essi presunti errori dottrinali (dogmatici, esegetici o morali), ossia punti della dottrina che sarebbe in contrasto con quella che loro chiamano genericamente “Tradizione”, oppure con i dettami di quello che loro chiamano genericamente “il Vangelo” o con i suggerimenti di quello che loro chiamano più genericamente ancora “lo Spirito”. Invece di assumere come premessa dei loro ragionamenti il dogma (ossia, la divina rivelazione, così come proposta e interpretata dalla Chiesa), i falsi teologi assumono come punto di partenza critico la Scrittura, secondo loro propria arbitraria interpretazione, al di fuori o addirittura contro l’interpretazione autorevole della Chiesa  (è l’errore del “biblicismo”, condannato da papa Giovanni Paolo II nell’enciclica Fides et  ratio), oppure una delle scienze umane cui attribuiscono un valore assoluto (la sociologia, il materialismo storico, la psicoanalisi). Questa “falsa teologia” ha provocato nei tempi recenti un’ostinata resistenza a dei cambiamenti che l’autorità ecclesiastica ha legittimamente voluto introdurre nella dottrina e nella prassi della Chiesa, così come ha anche provocato – già ai tempi della crisi modernistica, e poi ancora di più, durante e dopo il Concilio Ecumenico Vaticano II - la sistematica polemica contro la forma e i contenuti del Magistero preconciliare, ivi compresi i grandi concili ecumenici di Trento e Vaticano I.
7. Volendo praticare la “vera teologia”, non si deve cercare “errori” nel Magistero: piuttosto ci si deve limitare a vagliare la liceità e l’opportunità di cambiamenti proposti da laici (ad esempio, tra gli italiani, Enzo Bianchi e Alberto Melloni) o da ecclesiastici che si esprimono su queste materie in qualità di teologi e non come rappresentanti del Magistero (ad esempio il cardinale Walter Kasper, che tuttavia ha preteso di rappresentare le intenzioni e il criterio di papa Francesco), allora l’atteggiamento critico non può in alcun modo essere censurato come mancanza di docilità alle decisioni del Romano Pontefice. Papa Francesco, infatti, ha indetto il Sinodo per consultare l’episcopato mondiale e giungere poi, eventualmente, a un pronunciamento dottrinale autorevole, che si può prevedere possa essere promulgato nella forma ormai tradizionale (in quanto adottata da Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI) dell’esortazione apostolica post-sinodale. Solo allora, quando si potrà dire “Roma locuta, quaestio finita”, tutti i fedeli avranno l’obbligo di recepire docilmente e con gratitudine le novità eventualmente introdotte nella dottrina e nella prassi della Chiesa: novità che certamente non toccheranno i principi fondamentali della fede cristiana, perché anche nel magistero ordinario e universale del Romano Pontefice c’è in qualche grado la garanzia dell’infallibilità. Insomma, esercitare questa vigilanza critica nei confronti di taluni abusi dottrinali non è mettersi in antitesi con il Papa ma proprio il contrario: è sostenerlo in quelle che sono le sue intenzioni, come i documenti del Sinodo straordinario hanno fatto comprendere e l’esito finale del Sinodo ordinario certamente confermerà.
8. Ma l’interpretazione del dogma da parte della Chiesa non consiste solo in enunciati dottrinali (per i quali, come ho già ricordato,  vige il criterio che, in virtù dell’infallibilità,   dunque non possono mai essere considerati falsi) ma anche in azioni, per le quali invece vige il criterio che debbono essere ma possono anche non essere opportune, giuste, convenienti, tempestive, visto che si tratta di scelte prudenziali della quali non c’è alcuna garanzia carismatica ma solo l’ordinaria “grazia di stato”. In queste condizioni si procede nella Chiesa a provvedere a tutto ciò che durante i lavori del Vaticano II veniva incluso sotto la rubrica “de disciplina cleri et populi christiani” e sotto quella  de disciplina sacramentorum”; si tratta insomma della “regula pastoralis”, che deve essere orientata – insegna papa Gregorio Magno – dalla virtù della prudenza, la quale talvolta, dati gli inevitabili limiti di ogni essere umano, può anche fare difetto e può quindi apparire difettosa a qualcuno nel popolo di Dio. Sappiamo che certamente la Chiesa, come tale, è non solo infallibile nell’insegnamento ma anche indefettibile nell’efficacia salvifica, in quanto istituzione divina contro la quale «i poteri infernali non prevarranno mai»: questa indefettibilità, però, non esclude  che alcuni sui membri, anche quelli che hanno compiti pastorali, difettino della dovuta prudenza (come di altre virtù proprie del cristiano), sicché è possibile che alcune scelte prudenziali della Gerarchia siano erronee o inadeguate. Ora, però, chi può rilevare tale eventualità? E con quale certezza? Ecco il punto: la giustezza di qualsiasi decisione prudenziale che un membro della Gerarchia o un organismo ecclesiastico abbiano preso per compiere al meglio, a in scientia et conscientia, il loro dovere ministeriale, può essere giudicata in piena verità solo da Dio: agli uomini, anche teologi, è riservato soltanto un giudizio ipotetico, ossia un parere personale su come forse una certa iniziativa avrebbe potuto essere omessa oppure attuata in altri modi o in altri tempi. Insomma, al giudizio prudenziale (e dunque fallibile) che ha guidato le scelte pastorali di chi ne ha l’autorità, si può contrapporre soltanto un giudizio altrettanto prudenziale (e altrettanto fallibile) da parte di chi non ha autorità alcuna. Se allora (come di vedrà appresso nel capitolo scritto da Enrico Maria Radaelli) viene espresso un parere circa  l’opportunità di usare nella pastorale (insegnamenti, orientamenti, norme) un dato tipo di linguaggio o di trattare un dato genere di argomenti, queste osservazioni non vanno intese come presunzione di censurare il Magistero quanto all’ortodossia dei sui enunciati, bensì come espressione di sollecitudine verso la Chiesa che induce a rilevare forme di comunicazione pastorale che – per il linguaggio o le argomentazioni, per i modi e per i tempi - sembrano confuse o addirittura equivoche, e quindi meno efficaci ai fini della propagazione della fede. Peraltro, di fronte a qualsiasi espressione del Magistero che risulti o possa sembrare equivoca – passibile cioè di interpretazioni eterodosse -  il teologo ha il dover di interpretarla in bonam partem, ossia iuxta mentem Ecclesiae: ciò significa scartare l’ipotesi illogica di un “errore” dottrinale e adottare il principio ermeneutico insegnato da Benedetto XVI, quello della «riforma nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa». Perché la Chiesa, come unico soggetto di ogni insegnamento rivelato, non può mai contraddire se stessa; sicché mai un’affermazione riscontrabile in un documento del Magistero di un dato momento può essere interpretata come in contraddizione con la Sacra Tradizione, ossia con ciò che la Chiesa ha stabilito semel pro semper come verità da credere per la salvezza.

9. In conclusione, noi tutti - laici e sacerdoti - dobbiamo fare tutto il possibile per difendere con tutti i mezzi la santa fede cattolica, restando allo stesso tempo tranquilli: perché quello che noi vediamo (il male trionfante) non è tutto quello che realmente accade (Dio vede nei cuori e governa la storia) e perché a noi spetta solo di fare quello che Lui ci consente di fare, non di più. Dopo di che, diremo: "siamo servi inutili: quello che dovevamo fare l'abbiamo fatto". E pregheremo per quelli che, invece di servi inutili, sono servi che hanno scelto di passare al soldo del Nemico.

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