ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

mercoledì 8 luglio 2015

L'eccezione conferma la regola

Sposi per sempre. Gesù non ha ammesso eccezioni

Gesù
Ecco qui di seguito altre due repliche all’esegesi fatta da padre Innocenzo Gargano delle parole di Gesù su matrimonio e divorzio:
La prima ci giunge dalla Nuova Zelanda. La seconda, molto articolata e appuntita, da Trieste. Quest’ultima ad opera di uno studioso di scienze religiose, Silvio Brachetta, che già lo scorso gennaio, su Settimo Cielo, aveva reagito criticamente a un precedente intervento di padre Gargano:
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DALLA NUOVA ZELANDA
Hi Sandro,
I read this interesting contribution to the discussions on marriage: “What Jesus Would Say If He Were a Synod Father”, by Fr. Innocenzo Gargano.
I have thought about the author’s question: could Jesus in fulfilling Moses Law mean fulfillment to be inclusive of Moses’ concessions on divorce?
The answer must be no. This is because Jesus is God, He is the Second Person of the Holy Trinity and in His fulfilling of the Mosaic Law in His own Person discounts a notion of fulfillment which includes any contradiction to the original plan of God. There is no contradiction within God and so Jesus can’t bring anything other than God’s perfect plan to fulfillment. Anything contrary to God’s perfect plan can’t be admitted; there is no contradiction within God. That is why Jesus takes us ‘back to the beginning’ in order to disclose the nature of true marriage being indissoluble.
That Jesus is God makes it clear that the Mosaic concession can’t be included within Jesus’ meaning of fulfillment.
Kindest Regards.
Lynda Stack
(I am taking a Masters at JPII Institute in Melbourne… .at my great age of 59!).
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DA TRIESTE
Ringrazio il padre e monaco camaldolese Innocenzo Gargano per l’attenzione al mio lavoro, anche quando questo l’ha “perfino divertito”, nel punto in cui citavo sant’Agostino. Non sono però un professore, ma un giornalista, un umilissimo cronista, costretto dalla professione e dalla vocazione a scavare nelle parole altrui, come un cane scava per cercare i preziosi tartufi.
Ammiro il carisma di padre Gargano, ne ho apprezzato il piglio umano in tv, ma devo ammettere, purtroppo, che anche stavolta nel suo nuovo studio che fa sulla Legge, di tartufi ne ho trovati ben pochi. Egli ripete che tutto è a posto: avrebbe potuto tenere conto della tradizione e dei Padri, ma non era questo il suo intento. Si è volutamente fermato al contesto storico. E perché mai, mi chiedo, visto che l’approccio storiografico, su temi teologici e magisteriali così delicati, è del tutto parziale? E perché mai, visto che, in quanto delicati, tanto più ora è necessario farsi trasportare sulle spalle dei giganti?
Gesù non asseconda l’impenitenza
La mia critica, secondo il monaco, si ridurrebbe “in sostanza” a questo: la contestazione di un errore di metodo. Sì, anche questo, ma ho sollevato una tesi che egli non ha né colto, né sviluppato. La “sostanza” della mia posizione è invece questa:
1) non è vero, come sostiene Gargano, che Gesù abbia compiuto la Legge antica nel senso di Mosè, cioè nel senso di una Legge “più accondiscendente”;
2) ma anzi, e solo nell’ambito del Decalogo, Gesù ha inasprito il precetto, come si evince dal Discorso della montagna;
3) è vero che la Legge nuova del Cristo è diretta verso la misericordia, ma non depotenziando il Decalogo – dove il Decalogo è solo la prima metà della Legge – ma annullando l’applicazione della pena (“occhio per occhio”), che viene assunta dal Crocifisso, al posto dei peccatori (si evince sempre, ad esempio, dal Discorso della montagna).
Ho fondato il mio discorso non su alcune mie opinioni o supposizioni, ma sulle parole dei Padri e dei Dottori della Chiesa, che saranno pure meno bravi di “teologi” come Dante Alighieri, ma sono di sicuro più numerosi e concordi. Sono intervenuto nel tentativo di bloccare un’operazione non molto chiara nel metodo, ma chiarissima nel traguardo: sdoganare la liceità dell’atto di ripudio, rendere lecito il secondo matrimonio dopo il divorzio e indurre il sinodo sulla famiglia ad ammettere ai sacramenti i divorziati risposati.
Tutta l’operazione di padre Gargano poggia su un presupposto perlomeno discutibile. Si sostiene la differenza tra la Legge del firmamento nel senso di Henoch – astratta, rigida, stabile, eterna – e la Legge nel senso di Mosè – più attenuata, adatta all’”uomo concreto”. E a questa Legge mosaica si sarebbe ispirato anche Gesù, non si comprende bene perché e per quali vie. Le prove, secondo il padre, sarebbero riconducibili al fatto che Dio riscrisse il Decalogo su tavole di pietra e – argomento per lui centrale – che Mosè concesse l’atto di ripudio, attenuando così la rigidità del precetto. Va da sé che, se Gesù avesse effettivamente appoggiato Mosè, l’atto di ripudio diverrebbe lecito e la Chiesa si dovrebbe adattare a questa nuova singolare posizione.
Un’ipotesi debolissima
Ma davvero la Legge mosaica è meno rigida, più accondiscendente e adatta all’”uomo concreto”? Non sembra proprio: la Torah prevede la “legge del taglione”, la lapidazione, l’esilio, il taglio degli arti, l’impiccagione e quant’altro. Un capolavoro di rigidità, che Gesù sorpassa e addirittura annulla, ma solo a favore dei penitenti. Nelle riflessioni del monaco è piuttosto rintracciabile un equivoco di fondo: il comandamento nudo e crudo è percepito come astratto e non si adatterebbe all’”uomo concreto”. Pertanto, bisognerebbe addolcirlo. È un ragionare, questo, in primo luogo antistorico. Tutta la parabola del Dio che si rivela è innestata sull’uomo concreto, fin dall’inizio, nel bene e nel male, nel rigore e nella misericordia. La Torah è consegnata da Dio all’uomo concreto. Le maglie del Decalogo sono ristrette da Gesù per l’uomo concreto. I peccati vengono rimessi a favore dell’uomo concreto. Nulla di astratto s’intravvede in tutto questo. La strada della salvezza, da sempre segnalata dalla Chiesa, non è addolcire la Legge, ma il cuore dei peccatori; non l’oggetto, ma il soggetto. Non c’è colpa o situazione che non possa essere riparata. La dinamica della redenzione non è mai stata precetto debole-perdono senza pentimento-salvezza, ma invece: precetto-eliminazione della condanna dopo il pentimento-salvezza. Dove sarebbe l’astratto?
Eppure Gargano continua a sostenere un presunto appoggio di Gesù al Mosè che concesse il divorzio mediante l’atto di ripudio (cf. Mt 19, 8). Non tiene minimamente conto che sant’Agostino, san Tommaso, san Cassiano e san Giovanni Crisostomo avessero dimostrato il contrario. L’unico argomento che porta a difesa della sua tesi è che ne è “convinto”. Quanto egli afferma è però insostenibile, poiché c’è un “ma” di mezzo. Anzi c’è un “ma” avversativo, che fa crollare logicamente la tesi medesima.
Rileggiamo le parole di Gesù: “Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma da principio non fu così. Perciò io vi dico: Chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di concubinato, e ne sposa un’altra commette adulterio”. Ovvero – dice Gesù – Mosè ha concesso il ripudio, “ma” io vi dico che questa prassi conduce all’adulterio. La pericope è francamente molto chiara. Mosè concede il divorzio e Gesù no. Non sembra proprio un appoggio alla prassi mosaica e i Dottori della Chiesa non l’hanno percepita come tale. Non solo, ma il motivo per cui Gesù non lo concede pare essere la durezza del cuore, che a padre Innocenzo sembra non fare problema, convinto com’è che Gesù non “condanna esplicitamente” il duro di cuore. È proprio così? No, poiché il Maestro, che vorrebbe sostituire i cuori di pietra con cuori di carne, acceca però gli impenitenti: “Io sono venuto in questo mondo per giudicare, perché coloro che non vedono vedano e quelli che vedono diventino ciechi” (Gv 9, 39). Il Signore infatti, com’è noto, acceca chi vuole perdere, chi ha il cuore duro (cf. Gv 12, 40). Non è rigorismo, è la nuova Legge evangelica.
Dante Alighieri sommo “teologo”
Padre Gargano ignora forse che il senso letterale delle Scritture non può essere scavalcato? No di certo, ma anzi cita, per questo, il detto dei Padri “cardine della salvezza è la carne”, intendendo che tutto si tiene sulla solidità della “littera”. Il monaco cerca non tanto il senso letterale della Scrittura, il senso meramente logico, ma significati ben più profondi; soprattutto l’anagogia, ovvero il senso più recondito. Proposito, questo, più che opportuno. Bisogna, infatti, cercare nel mistero, in profondità. E, nell’intenzione, vorrebbe farlo senza scavalcare il senso letterale. Nell’intenzione, beninteso, perché nei fatti però lo scavalca.
E proprio il “teologo” Dante Alighieri – il gigante amato e citato da padre Innocenzo – casca ora a fagiolo. Nel “Convivio” (II I § 1–7) egli tratta dei quattro sensi delle sue canzoni: letterale, allegorico, morale e anagogico. Sono anche i quattro sensi delle Sacre Scritture e, quindi, il discorso vale anche per i Vangeli. È chiaro che Dante vuole illuminare il mistero, disvelare i divini arcani, mediante i commenti che i commensali sono chiamati a fare al convivio. È anche chiaro, deduttivamente, che i significati cari a Dante sono quelli che più degli altri superano la lettera e l’allegoria, giungendo al fine: il morale e l’anagogico. Detto questo, però, ai seguenti § 8–14 il sommo Poeta afferma una cosa assai importante, ma ancora oggi non molto compresa: è il senso letterale che tiene tutto, ovvero è il fondamento su cui poggiano gli altri tre significati.
Ascoltiamo lo stesso Dante: “Sempre lo litterale dee andare innanzi, sì come quello ne la cui sentenza li altri sono inchiusi, e sanza lo quale sarebbe impossibile ed inrazionale intendere a li altri”. L’Alighieri attinge chiaramente ad Aristotele, che sosteneva il procedere naturale dal più conosciuto al meno conosciuto. Il senso letterale è allora il più superficiale dei significati, il meno importante ma, allo stesso tempo, il garante, l’arbitro, il giudice degli altri tre. Il senso letterale non può essere scavalcato: pena il naufragio ermeneutico, pena l’”inrazionale” dantesco.
Padre Innocenzo tende al “telos” – al fine, all’anagogia – e fa benissimo, ma allora perché vi tende forzando il testo sacro? Non può far dire al testo quello che il testo non dice, secondo un vecchio adagio accademico. Tanto più che continua a bypassare il testo di Matteo, sostenendo imperterrito e sollevato che i “minimi” del Regno dei Cieli si salveranno di sicuro. E questo, sorprendentemente, dopo che anche questa ipotesi è stata esclusa da sant’Agostino, da san Tommaso, da san Cassiano e da san Giovanni Crisostomo!
Altre questioni controverse
Insomma, il camaldolese non sopporta – e a ragione – l’inflessibilità farisaica, il cieco rigorismo, il giudizio inopportuno sugli altri, ma non pare seguire la via già insegnata dalla Chiesa e dalla tradizione sacra – cioè essere sommamente misericordiosi nell’applicazione della Legge – bensì tenta di alleggerire la Legge medesima, come se nella fissità e nel rigore veritativo del precetto vi fosse un ostacolo alla salvezza. Come se, celebrando la regola, si diventasse meccanicamente farisei. Il magistero su questo è però chiaro: il problema non si trova nell’oggetto (nel comandamento), ma nell’impenitenza personale, nel soggetto. Lo si evince, ad esempio, dal Concilio di Trento, che afferma: “Se qualcuno dice che anche per l’uomo giustificato e costituito in grazia i comandamenti di Dio sono impossibili a osservarsi: sia anatema” (Sessione VI, n. 18).
È possibilissimo e doveroso, dunque, per l’uomo giustificato e costituito in grazia, osservare i comandamenti, che sono vita, luce, strada, onore, verità e non certo intolleranza, fondamentalismo o rigidità. È solo nell’applicazione fondamentalista e farisaica, che il comandamento perde i suoi connotati originari. Nell’applicazione, nella “legge del taglione” mosaica (o henochica, che dir si voglia), non nella sostanza. E di conseguenza, come insegnano i Padri, come insegna la Chiesa, Gesù Cristo non si è mai sognato di stravolgere la sostanza del precetto, ma l’ha persino appesantita. Addirittura l’amore non sfugge alla dinamica del precetto: l’amore, difatti, non è proposto da Gesù, ma è comandato. “Littera docet”.
Curiosamente, padre Innocenzo ritiene il Signore l’”unico capace di raggiungere il telos”, l’obiettivo della Legge. Assurdo. Anche qui il camaldolese scavalca la “littera”, che impone all’uomo di essere “perfetto” quanto il Padre che sta nei Cieli (cf. Mt 5, 48).
Detto questo, concludo che i divorziati farebbero bene a non risposarsi civilmente e a seguire il ben più santo e perseguibilissimo cammino della castità, per essere riammessi nuovamente nella comunione e nella pace del Signore e dei fratelli.
Padre Innocenzo, comunque, si augura un cammino di conversione, d’”hypakoè”, di obbedienza. L’obbedienza alla Parola, però, dev’essere effettiva, non solo proclamata come intenzione. E se hanno obbedito sant’Agostino (che era sant’Agostino) o san Tommaso (che era san Tommaso) non si vede perché non dovrebbe obbedire padre Gargano e ovviamente – per ultimo, come un aborto – io stesso. “Anánke sténai”.
Silvio Brachetta

Settimo Cielo  di Sandro Magisterhttp://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/2015/07/07/sposi-per-sempre-gesu-non-ammette-eccezioni/

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