CIVILTA' E CONSOLAZIONE
La civiltà nichilista che rifiuta la consolazione. La nostra è una strana civiltà una civiltà che aborrisce l’idea stessa della consolazione che la respinge con sdegno che la schernisce che la deride e che ne fa oggetto di disprezzo e di compatimento
La civiltà nichilista che rifiuta la consolazione
La nostra è una strana civiltà: una civiltà che rifiuta la consolazione, una civiltà in cui la cultura dominante rifiuta l’idea che si possa, che si debba, essere consolati nelle difficoltà della vita, nelle sconfitte, nelle delusioni, nelle amarezze, nei sogni infranti; di più: una civiltà che aborrisce l’idea stessa della consolazione, che la respinge con sdegno, che la schernisce, che la deride e che ne fa oggetto di disprezzo e di compatimento.
Così, la parola “compassionevole” è diventata rapidamente fuori moda, o peggio; e colui che offre consolazione è visto come un soggetto poco raccomandabile, forse un male intenzionato dai subdoli e inconfessabili interessi, che vuole consolare il prossimo al solo e unico scopo di fargli abbassare la guardia, di addormentarne la vigilanza, di spingerlo in uno stato di abbandono rinunciatario di cui potrà approfittare per raggirarlo o per propinargli qualunque fandonia, strumentalizzandolo come un burattino e sfruttandolo a suo piacimento.
Da ciò deriva un atteggiamento di diffidenza, di sospetto, se non anche, sovente, di malcelata o aperta ostilità, nei confronti di chiunque si presenti come un consolatore e, naturalmente, di tutte quelle idee, di tutte quelle dottrine, di tutte quelle credenza che contengano, in se stesse, il principio o la possibilità della consolazione. È come se la cultura oggi dominante pretendesse di vivere l’amara verità fino in fondo, di bere sino alla feccia il calice della sofferenza, della disillusione, del disincanto: cosa ben strana e addirittura paradossale, se si pensa che la civiltà moderna, nel suo edonismo sfrenato, sembra impostata sul rifiuto del dolore, della malattia e della morte, al punto da non volerne sentire neanche parlare, da non volerne vedere la presenza fisica, come se ciò bastasse ad esorcizzare la sua inquietudine e la sua paura.
In effetti, il problema è proprio questo: una cultura che rifiuta la consolazione, è una cultura che ha ucciso in se stessa l’istinto della compassione: perché la compassione dovrebbe essere un istinto naturale, non il frutto di un ragionamento. Assistere alla sofferenza di qualcuno, specialmente se ci è vicino, ma anche se si tratta di un estraneo, dovrebbe far scattare in chiunque un istinto di solidarietà; e, se si tratta di un dolore cui non è possibile dar sollievo con mezzi materiali, dovrebbe suscitare l’istinto di consolarlo. Così fa la mamma con il suo bambino, quando lo stringe a sé e gli sussurra paroline dolci, per confortarlo di qualche piccola-grande pena infantile; così desidera fare il bambino stesso, quando vede un passero caduto dal nido o un gattino randagio, che miagola per la fame. Aver compassione è proprio degli esseri umani; voler offrire consolazione a chi soffre, ne è la naturale conseguenza.
È pur vero che la società in cui viviamo, come dice Zygmunt Bauman, è una società liquida: dove è possibile tutto e il contrario di tutto; e, quel che è peggio, dove ciò che sembra vero è falso, e ciò che sembra falso può essere vero. Non sempre chi soffre – per fare un esempio – soffre davvero: potrebbe trattarsi di un imbroglione, di un ciarlatano, di un mistificatore che mira a impietosirci, al solo scopo di estorcere del denaro. Oppure – per fare un altro esempio – non sempre la vera compassione consiste nel prodigarsi per il prossimo: se il prossimo fa dell’indigenza una professione, e ripone nel numero la sua forza, allora essere compassionevoli diventa una ingenuità, anzi, una debolezza: e non c’è nessuno da consolare, ma solo da stare attenti a non lasciarsi né manipolare, né ricattare dal facile rimprovero dei buonisti a tutto campo. Quella di consolare, dunque è diventata un’arte particolarmente difficile.
A questo proposito ci sembrano molto pertinenti le osservazioni svolte dallo scrittore e germanista Italo Alighiero Chiusano, nato a Breslavia nel 1926 e morto a Frascati nel 1995, in un articolo di vent’anni fa intitolato «La “civiltà di Rachele”» (ripubblicato nel volume «Provocato rispondo», Jesus/Società San Paolo, 1992, pp. 95-7):
«Tra i nomi che vorrei dare alla civiltà odierna c’è anche la civiltà di Rachele. Perché di Rachele? Perché, come si legge nella Bibbia (“Geremia” 31,15) e “Matteo” 2,18), “rifiuta di essere consolata”. Ha le sue ottime ragioni, povera Rachele, e certo le avrà anche la nostra civiltà. Resta il fatto che i nostri contemporanei rifiutano sprezzanti o addirittura irosi ogni consolazione. Avete mai visto con che smorfia di disgusto rigettano qualcosa (soprattutto istanze religiose o prodotti artistico-letterari) che abbiamo bollato con l’obbrobrioso aggettivo “consolatorio”? La preghiera, i sacramenti, il paradiso sono da respingere , secondo i nostri “maîtres à penser”, perché diffondono e incoraggiano la consolazione; e così’ “I promessi sposi” manzoniani o “Le mie prigioni” del mitissimo Pellico. Per essere accettati, bisogna che sia passato un tal lasso di tempo da non essere più pericolosi, leggi consolatori. Dante, Giotto, Bach hanno il lasciapassare: sono artisti “arcaici”, perciò godibili come soli artisti, mentre il loro messaggio ci può lasciare indifferenti.
Quanto alle cose nostre, di oggi e di domani, noi siamo (o dovremmo essere) la civiltà che si è creata e costruita da sola, che s’ispira alla scienza e all’antropologia culturale, una civiltà matura e autosufficiente che non ha bisogno alcuno d “consolazioni”, ma bada solo a certezze scientifiche, a probabilità statistiche, a una prassi intelligente e tutta terrena nel combattere il dolore, la sofferenza e l’ingiustizia. Chi cerca e consiglia la consolazione è uno spacciatore di droga (magari del famosissimo e pericolosissimo “oppio del popolo”), un sabotatore dello sforzo comune di affrancamento, uno spiritualista di tipo favoloso o reazionario (anzi, le due cose insieme), uno spargitore di sabbia negli ingranaggi della storia.
Consolatori di tutto il mondo, disperdetevi! (E vergognatevi). Vorrei dire due cose.
Parlando ai miei fratelli di fede, noto con sorpresa che molti di loro sono disposti a sposare almeno in parte questa tesi. In fondo pensano che questa “colpa” continuiamo a commetterla anche troppo spesso: e vi si ribellano. A costoro vorrei ricordare che il Vangelo (libro dove si dicono agli uomini le verità più amare e tremende, con un coraggio che sembra a tratti rasentare la furia distruttiva) gronda però anche – come già il Vecchio Testamento – di promesse di consolazione. Nel suo ultimo discorso agli apostoli Gesù promette un “altro Consolatore”, lo Spirito Santo, e su questa definizione insiste molto. Ma poi, basta leggere un poco nei Vangeli o nelle lettere apostoliche per imbattersi di continuo in frasi come “consolatevi gli uni gli altri”, “il Signore Gesù Cristo consoli i vostri cuori”, “camminate nella consolazione dello Spirito Santo”, “chi profetizza parla un linguaggio di consolazione”, “sono ripieno di consolazione”, “Dio ci ha dato una consolazione eterna”: e tronco qui per non farla troppo lunga.
Dunque, delle due l’una: o la Sacra Scrittura è un libro consolatorio nel senso molle, sentimentale, vile che alcuni pensano; oppure la consolazione ha una valenza forte, virile, agonistica, quasi bellicosa. Io personalmente propendo per la seconda ipotesi e perciò mi guardo bene dal rigettare questo meraviglioso dono di Dio. Chiedendo però insieme al Signore di farne un uso che non sappia di melassa, di lacrimuccia che brilla nell’occhio estatico e bovino.
La seconda cosa vorrei dirla ai miei fratelli nella non-fede. Amici, è difficile giudicare le cose intime stando all’esterno; quasi impossibile, quando si tratta della religione. Mi rendo conto che, per il non credente, la consolazione di tipo spirituale può apparire spesso una posa, un indugio, un lezzo, una vera e propria diserzione dalle battaglie della vita. Non è così: almeno non è così ai livelli alti, che sono gli unici che contano. Anche l’illuminismo e il socialismo, se giudicati tenendo d’occhio i loro interpreti più squalificati e squalificanti, appaiono una miseria o un vacuo bla-bla.
Ma poi, amici miei di altra o nessuna fede, siete poi tanto sicuri di essere totalmente allergici alla consolazione (naturalmente di un tipo ben diverso dalla nostra)? L’ideologia, questo surrogato laico della religione, di quanti miti consolatori non è stata madre e diffonditrice!
E la permissività sessuale, oggi così diffusa, non è una consolazione che promette bugiardi paradisi in terra, poco meno di quell’altra consolazione disperata che è la droga? E chi si affida a un guru orientale o a una cartomante non va in cerca di consolazione, talvolta di una specie più che modesta? E le “magnifiche sorti e progressive” già irrise da Leopardi come bandiera dello sviluppo scientifico, che cosa sono se non consolazione di qualità assai deperibile? E del consumismo e delle sue promesse pubblicitarie (prestigio sociale, eterna giovinezza, successo con le donne, salute ingualcibile, piacere indisturbato e a tutti i livelli) che cosa mi dite? Sapete che differenza c’è tra la consolazione promessa da Dio e quella promessa dal “mondo”? Che la prima ha la base di granito, la seconda di friabilissima sabbia.»
Giungiamo così alla conclusione che una civiltà, la quale sistematicamente e deliberatamente rifiuta la consolazione, è una civiltà nichilista: una civiltà che esalta il nulla e che corre verso il nulla, ossia verso l’autodistruzione. Infatti, se provare l’istinto di consolare e di essere consolati è umano, non provarlo è disumano: è il segnale di una regressione antropologica. Infatti, il passare da una condizione spirituale superiore ad una inferiore è, fino a prova contraria, un decadere, non certo un progredire. Crediamo vi siano pochi individui disposti ad affermare che provare l’istinto della consolazione sia cosa meno nobile e alta che il non provarlo; perfino i teorici della volontà di potenza e della denuncia della compassione come forma di velenoso inganno, ad esempio Nietzsche, poi, all’atto pratico, ben raramente erano coerenti con le loro aberranti teorie (tanto è vero che Nietzsche veniva chiamato, dalle vecchie fruttivendole di Torino, presso le quali faceva la spesa, “il santo”).
È pur vero quel che osserva Chiusano, e cioè che il mondo è pieno di falsi consolatori. E qui torniamo al discorso che, specialmente in una “società liquida”, non è facile discerne il buon grano dal loglio: i falsi consolatori testimoniano il fatto che la bontà delle intenzioni non si esplica attraverso quel che vien operato, ma attraverso il modo in cui vien operato. Le maniere di consolare non sono tutte uguali: ve ne sino di buone e di cattive, di sincere e d’insincere, di vere e di false. Persone interessate offrono semi velenosi di consolazione; gruppi specializzati nella consolazione a pagamento, ad esempio sette come Scientology, non hanno niente di valido da offrire, se non vuote formule e parole fraudolente. Costoro sono veramente inescusabili e perciò degni del trattamento che il gran padre Dante riservava a quanti tradiscono quelli che si fidano di loro: il ghiaccio eterno dell’Inferno più profondo.
Ma qual è, allora, la giusta e buona maniera di consolare? Umanamente - ecco il paradosso – non c’è, non esiste: sono tutte buone quelle che nascono dall’amore sincero e disinteressato; ma, siccome nessun uomo è capace di tanto, allora l’autentica consolazione non è cosa che un essere umano possa offrire al suo simile. Di norma, quel che possiamo offrire al prossimo è un surrogato, un palliativo della vera consolazione: qualcosa che tenta di assomigliarle, ma non è quella. E ciò per la buona ragione che noi siamo impotenti a fare il bene perfino nei rari casi in cui realmente lo vorremmo fare: alla fine – come osservava acutamente sant’Agostino - non è il bene che vorremmo fare, ma il male che non vorremmo, ad avere l’ultima parola. Dobbiamo da ciò concludere che non esiste possibile redenzione dal male e, quindi, che non esiste neanche la possibilità di una vera consolazione?
Niente affatto. Là dove l’uomo tocca il suo limite, la sua impotenza, il suo scacco, egli tocca anche, se è capace di vederlo, il principio della salvezza. Se non è in gradi di salvarsi da sé, di consolarsi da sé, di fare il bene con le sue proprie forze, può tuttavia rivolgere lo sguardo verso l’alto, e invocare il divino Consolatore: il Paraclito (“soccorritore”) promesso da Gesù Cristo ai suoi discepoli durante l’ultima cena, poche ore prima dell’arresto e della morte in croce. Il Consolatore è lo Spirito di Dio ed è presente sempre, dal principio del mondo, per riversarsi sull’arido terreno della condizione umana, vivificarla e conferirle la dimensione soprannaturale della grazia. Per opera sua, ciò che sembrava morto, o morente, rifiorisce a nuova vita: la vita dello spirito.
La vita umana non è che un arido deserto, se non viene vivificata dalla pioggia e dalla rugiada dello Spirito. L’anima è come morta, se non si apre al suo ineffabile mistero di amore e di consolazione. Tutti i doni che la natura può averci dato, o che noi stessi possiamo aver sviluppato e potenziato – intelligenza, salute, volontà, cultura – non servono a nulla, se non sono vivificati dal soffio della Presenza divina: che richiede un atto di umiltà, devozione e fede da parte dell’uomo. È una porta stretta, per la quale gli orgogliosi non possono entrare. Gesù loda il Padre per aver rivelato il segreto dell’amore ai piccoli e averlo celato agli orgogliosi e ai superbi: cioè a chi rifiuta la consolazione…
di Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
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