Nuova intervista esclusiva di don Nicola Bux su liturgia, motu proprio Summorum Pontificum, matrimonio e divorziati risposati
Dopo una prima intervista concessaci lo scorso marzo, don Nicola Bux, che ringraziamo, ce ne ha concessa un’altra sui temi oggi più dibattuti riguardo all’applicazione del m.p.Summorum Pontificum e su quelle che saranno le problematiche all’attenzione del prossimo Sinodo ordinario, in ottobre, sulla famiglia.
Caro don Nicola, ti ringrazio di aver concesso al nostro blog una tua nuova breve intervista.
Permettimi di cominciare, entrando subito nel vivo.
1. Si è sostenuto che il m.p. del 2007 del papa Benedetto XVI, Summorum Pontificum, mirasse alla pacificazione liturgica tra gli amanti del rito antico e quelli del rito nato a seguito delle riforme di papa Montini. Si è però obiettato che tale atto del papa-teologo, in verità, non abbia portato ad alcuna pacificazione, ma anzi abbia generato o, secondo alcune visioni accentuato, pure da un punto di vista pastorale, delle fratture esistenti nelle comunità ecclesiali, anche all’interno di una stessa parrocchia!
In effetti, talora si è lamentato che una diversa celebrazione, compiuta peraltro pure in giorni diversi, non faciliti l’unità pastorale. Basti pensare, ad es., ad alcune feste e ricorrenze liturgiche che sono celebrate in giorni diversi nel rito antico e nel rito riformato.
In effetti, talora si è lamentato che una diversa celebrazione, compiuta peraltro pure in giorni diversi, non faciliti l’unità pastorale. Basti pensare, ad es., ad alcune feste e ricorrenze liturgiche che sono celebrate in giorni diversi nel rito antico e nel rito riformato.
Ecco, come giudichi ad otto anni dalla sua entrata in vigore il m.p. papale? Può farci un bilancio? Davvero è riuscito nel suo intendimento di pacificazione liturgica? E come coniugare, da un punto di vista pastorale, l’unità se si celebrano le feste – o per lo meno alcune feste – in giorni diversi?
R. L’atto benedettiano, a ben leggere, postula il reciproco arricchimento tra le due forme – come egli tecnicamente le ha definite – dell’unico rito romano: pertanto, potremmo definirlo un atto aperto allo sviluppo, com’è giusto che sia ogni intervento riformatore. Lo stesso Ratzinger aveva auspicato, da cardinale, nuovi prefazi e i nuovi santi in calendario. Il messale romano ha sempre conosciuto tali progressive integrazioni. È paradossale che gli attuali sostenitori della riforma paolina siano diventati così ‘reazionari’ da sostenerne l’intangibilità. Ne parlo perché convinto della opportunità della riforma liturgica, non di taluni epigoni che qui e là ha raggiunto. Ogni studioso della liturgia conosce le tappe del suo sviluppo organico nella storia: il punto è proprio sull’“organico”. La Sacrosanctum Concilium sostiene che le forme nuove devono scaturire da quelle esistenti ed essere con quelle coerenti (23). Proprio su questo punto, però, i sostenitori del messale tridentino hanno da ridire: davvero la Messa del Novus Ordo è in continuità con quella precedente? La struttura evidentemente è la medesima: due parti, parola ed eucaristia, con due premesse – l’introduzione penitenziale e l’offertorio (abbastanza falcidiato, confrontandolo con quello bizantino) – , uno sviluppo, costituito dai riti di Comunione, e la conclusione con la benedizione e il congedo. D’altro lato, come detto per l’offertorio, più che per la semplificazione avvenuta, questa parte, come le altre, sopportano spesso l’insulto della cosiddetta creatività, di cui la costituzione liturgica non parla mai, ma solo di adattamenti a determinate condizioni. Ora, uno sguardo equilibrato, dovrebbe portare gli uni e gli altri ad ammettere una ‘riforma della riforma’: espressione di Joseph Ratzinger, mutuata, credo, dal grande studioso tedesco Klaus Gamber. Lo squilibrio è dovuto al fatto che la riforma postconciliare è stata come un pasto frettoloso: perciò non è stata assimilata, e qui e là è rimasta inapplicata o rigettata. Se fosse avvenuto come con le riforme di Pio X e Pio XII, che furono graduali, non sarebbe accaduto. Nel post concilio si lascio spazio alla sperimentazione, ma questa fu preso come definitiva. Quanto alla pacificazione, da quello che ha osservato il cardinal Sarah, la situazione non è uniforme: pare che là dove i guasti sian stati maggiori, il m.p. abbia preso più piede – America del Nord, Paesi Bassi, Africa e Asia – mentre dove non è accaduto, la conflittualità è più evidente. Il fatto è che sempre più giovani seminaristi e sacerdoti si interessano al Vetus Ordo e desiderano impararlo: tempo dieci anni, passata questa generazione, ciò sarà più evidente e imponente.
Come conciliare i due calendari? Non accade già ora che in una diocesi o in una parrocchia si celebri una memoria o una festa, che non si celebra nell’altra, in quanto titolare o dal grado maggiore? Nelle chiese orientali, che vivono a gomito su uno stesso territorio, la differenza di calendario non è un problema. E poi, non si sostiene nella Chiesa odierna che la diversità è ricchezza e che l’unità non è uniformità? Bisogna studiare di più e avere pazienza, la pazienza dell’amore, come scrive l’Apostolo (cfr. 1 Cor 13,4).
2. Una seconda domanda: si è molto discusso, soprattutto a partire dal m.p. - che ha avuto il merito quantomeno di riportare in auge temi che, forse con sufficienza, si ritenevano esauriti – della c.d. ermeneutica della continuità in ambito liturgico (e non solo). Del resto, uno dei temi cari al pontificato di papa Ratzinger era appunto quello di rileggere i documenti conciliari alla luce della Tradizione bimillenaria della Chiesa, pena una sostanziale incomprensione di quei testi e la conclusione che gli stessi siano in decisa rottura con ciò che la Chiesa ha creduto sempre ed ovunque – secondo la nota affermazione di S. Vincenzo di Lerins. Orbene, ancora oggi c’è chi lamenta come i documenti del Vaticano II debbano, al contrario, leggersi facendosi quasi astrazione dal magistero anteriore e, quindi, tanto per fare un esempio la Sacrosantum Concilium prescindendo dalla Mediator Dei di Pio XII, che pure aveva “preparato la strada” al documento conciliare del 1963. E proprio questi “profeti della discontinuità” (se vogliamo chiamarli così) lamentano che tale operazione sia come leggere il Vangelo alla luce dell’Antico Testamento.
Tu, don Nicola, condividi questo punto di vista? Cosa risponderesti a questi “profeti della discontinuità”? Possibile che ancor oggi non si riesca a fare una lettura piana e pacifica dei documenti conciliari alla luce della Tradizione della Chiesa, nonostante il magistero di Benedetto XVI? Perché tante resistente? Quali le ragioni, secondo te, di questa non accettazione di tale chiave di lettura? E quali, se esistono, le eventuali soluzioni?
R. La Chiesa è attraversata da una crisi di fede, che genera confusione e, come ho già detto mesi fa, porta all’affermazione di un pensiero non cattolico. Senonché, Gesù ha detto che chi è sapiente, sa estrarre dal tesoro cose nuove e cose antiche (cfr. Mt 13, 52). L’idea di una nuova Chiesa, ha attraversato la storia: dagli gnostici ai catari, da Gioacchino da Fiore a Lutero, da Giansenio agli attuali novatori. Il pensiero di sant’Agostino ha portato a coniare il detto: Novum Testamentum in Vetere latet, Vetum Testamentum in Novo patet (il Nuovo Testamento è adombrato nell’Antico, e questo trova compimento nel Nuovo): È difficile applicare questo al Vaticano II rispetto ai venti concili che l’hanno preceduto? Appare ragionevole chi sostiene che con questo concilio abbiamo una nuova visione di Chiesa? La Chiesa del Signore è sempre la stessa, in quanto Egli è lo stesso ieri, oggi e sempre: sarebbe paradossale che così non fosse per il Suo corpo che la Chiesa. Il fastidio verso la Tradizione, penso sia dovuto alla non comprensione del fatto che tradere sia un verbo di movimento e significa trasmettere ciò che si è ricevuto, integralmente, come dice Paolo a proposito dell’eucaristia, ma questo deposito, nel frattempo, come tutti i depositi – penso a quelli in banca – ha fruttificato e si è arricchito. Il discorso cosiddetto sull’ermeneutica del Vaticano II, fatto il 22 dicembre 2005, all’esordio del suo pontificato, da Benedetto XVI è talmente chiaro e ragionevole, che solo un pregiudizio impedisce di accettarlo. Causa di tale pregiudizio è l’ignoranza, dovuta alla mancanza di studio: se questo ci fosse, ci si accorgerebbe che i documenti del Vaticano II, a parte la maggiore o minora rilevanza di questo o di quello, e di certi passaggi, non enunciano nuove dottrine. Papa Giovanni parlò di aggiornamento: sull’interpretazione di questa parola è stato scritto molto, ma la mente di quell’uomo così tradizionale e così nuovo, impedisce di pensare che desse a quel termine un altro contenuto. Basta leggere il suo Giornale dell’Anima, per trovarlo intriso di quel ‘devozionismo’, tanto vituperato dai novatori. La soluzione è un confronto paziente e senza pregiudizi, come stiamo facendo con un gruppo di amici studiosi.
Aggiungo: «La mancanza di chiarezza nel rapporto tra livello dogmatico e livello liturgico, che è rimasta poi anche durante il Concilio, deve forse essere qualificata come il problema centrale della riforma liturgica; in base a questa ipoteca si spiega gran parte dei singoli problemi con i quali, da allora, abbiamo a che fare» (J. RATZINGER, Opera omnia, vol. 11, Teologia della liturgia, V. Forma e contenuto della celebrazione eucaristica, LEV, Città del Vaticano 2010, pp. 414-415). Questa riflessione dell’allora cardinal Joseph Ratzinger appare del tutto coerente con l’argomento alla ribalta della cronaca ecclesiale e non solo – la comunione ai divorziati risposati – per le sue implicazioni dogmatiche e liturgiche, oltre che canoniche e pastorali.
3. Il prossimo ottobre, come noto, si svolgerà in Vaticano il Sinodo ordinario sulla famiglia. Tra i profili, che saranno oggetto di discussione, vi è la questione – sostenuta da diversi prelati, tra i quali il card. Kasper (e non solo lui) – circa l’ammissione dei divorziati risposati al sacramento dell’Eucaristia, sebbene conviventi col nuovo coniuge non certo ut frater et soror. Ora, comprendo che si tratta di una tematica delicata, ma si è proposto di superare – a quanto ci è dato comprendere – il problema dottrinale (giacché la Scrittura afferma, senza mezzi termini, che l’adultero non può ereditare il Regno di Dio! E l’adultero – nell’ottica della Bibbia – non è solo colui che tradisce il proprio coniuge …) insistendo sia dal punto di vista teologico con la distinzione tra divorziato con colpa (a cui sarebbe addebitabile la separazione ed il divorzio) e divorziato senza colpa (che avrebbe subito il divorzio e, quindi, meriterebbe rifarsi una vita) sia dal punto di vista canonico con la modifica delle norme canoniche sul processo di nullità matrimoniale volte ad una “semplificazione” della procedura di nullità (ad es., si parla con insistenza della proposta di abolire la c.d. doppia sentenza conforme). Per modello si è insistito più volte sull’esperienza delle Chiese ortodosse. Ora chiedo a te come liturgista di dirci come stiano le cose presso le Chiese ortodosse e cioè se e come avviene, in quell’esperienza, questa riammissione ed eventualmente con quali limiti. Come teologo, quindi, ti chiedo una sorta di giudizio prognostico in merito al Sinodo e se cioè ritieni davvero che la materia su cui s’intenderebbe deliberare sia nella disponibilità dei Padri sinodali e dello stesso Papa.
R. Gli ortodossi non fanno la comunione nel rito delle seconde nozze, in quanto nel rito bizantino del matrimonio non è prevista la comunione, ma solo lo scambio della coppa comune di vino, che non è quello consacrato. Inoltre, tra i cattolici si suol dire che gli ortodossi permettono le seconde nozze, quindi tollerano il divorzio dal primo coniuge: in verità non è proprio così, perché non si tratta dell’istituzione giuridica moderna. La chiesa ortodossa è disposta a tollerare le seconde nozze di persone il cui vincolo matrimoniale sia stato sciolto da essa, non dallo Stato, in base al potere dato da Gesù alla Chiesa di “sciogliere e legare”, e concedendo una seconda opportunità in alcuni casi particolari (tipicamente, i casi di adulterio continuato, ma per estensione anche certi casi nei quali il vincolo matrimoniale sia divenuto una finzione). È prevista (per quanto scoraggiata) anche la possibilità di un terzo matrimonio. Inoltre, la possibilità di accedere alle seconde nozze, nei casi di scioglimento del matrimonio, viene concessa solo al coniuge innocente (v. il mioMito e realtà delle seconde nozze tra gli ortodossi).
La verità è che bisogna considerare il matrimonio nel rito ortodosso essenzialmente come una sorta continuazione, rivestita di forme liturgiche, del matrimonio così com’era concepito dal diritto giustinianeo, stante la volontà delle chiese ortodosse – almeno a partire da una certa epoca (un esempio di questo cedimento è rappresentato dalla raccolta del c.d. Nomocanone in 14 titoli redatto dal patriarca di Costantinopoli, Fozio, nell’883) – di vivere in armonia con le autorità civili, ricevendone favori e concessioni, pure a costo di alterare il messaggio evangelico (v. Cyril Vasil’, Separazione, divorzio, scioglimento del vincolo matrimoniale e seconde nozze. Approcci teologici e pratici delle Chiese ortodosse, in Robert Dodaro (a cura di), Permanere nella verità di Cristo. Matrimonio e comunione nella Chiesa cattolica, Cantagalli, Siena, 2014, pp. 94-95).
Le seconde (e terze) nozze, dunque, a differenza del primo matrimonio, sono celebrate con un rito speciale, definito “di tipo penitenziale”, tanto è vero che le preghiere proprie del rito delle seconde nozze non hanno nulla del tono festivo delle preghiere del rito abituale del matrimonio (il primo), giacché «non contengono – è stato opportunamente sottolineato da Andrea Palmieri – invocazioni di prosperità, ma richieste di perdono» e le immagini bibliche ricorrenti evocate in esse - e questo mi sembra significativo - «non sono quelle delle coppie benedette, ma quelle dei peccatori» (Il rito per le seconde nozze nella Chiesa greco-ortodossa, ed. Ecumenica, Bari, 2007, p. 111). Tuttavia, il carattere penitenziale non è da intendersi legato - nota Basilio Petrà – tanto alla celebrazione in se delle seconde nozze, quanto alla debolezza ed alle proclività al peccato dell’essere umano, che non ritiene potercela fare senza ricorrere alle seconde nozze (così in Divorzio e seconde nozze nella tradizione greca. Un’altra via, Cittadella ed., Assisi, 2014, p. 167).
Poiché nel rito delle seconde nozze mancava, almeno in antico, il momento dell’incoronazione degli sposi (che la teologia ortodossa ritiene il momento essenziale del matrimonio), le seconde nozze non sono un vero sacramento, ma volendo semplificare al massimo e secondo le categorie teologiche e liturgiche occidentali, per usare la terminologia latina, un sacramentale, che consente ai nuovi sposi di considerare la propria unione come pienamente accettata dalla comunità ecclesiale. Il rito delle seconde nozze si applica, significativamente, pure nel caso di sposi rimasti vedovi.
La non sacramentalità delle seconde nozze troverebbe conferma, secondo taluni, nella scomparsa della comunione eucaristica dai riti matrimoniali bizantini, sostituita dalla coppa intesa come simbolo della vita comune; ciò appare come un tentativo di ‘desacramentalizzare’ il matrimonio, forse per l’imbarazzo crescente che le seconde e terze nozze inducevano, a motivo della deroga al principio dell’indissolubilità del vincolo, che è direttamente proporzionale al sacramento dell’unità: l’Eucaristia. A tal proposito, il teologo ortodosso Alexander Schmemann ha scritto che, proprio la coppa, elevata a simbolo della vita comune, «mostra la ‘desacramentalizzazione’ del matrimonio ridotto ad una felicità naturale. In passato, questa era raggiunta con la Comunione, la condivisione dell’Eucaristia, sigillo ultimo del compimento del matrimonio in Cristo. Cristo deve essere la vera essenza della vita insieme» (mia traduzione da The Mystery of Love, in For the Life of the World. Sacraments and Orthodoxy, New York 1973, pp. 90-91). Come rimarrebbe in piedi questa ‘essenza’?
Dunque, si tratta di un “qui pro quo”, imputabile alla scarsa o nulla considerazione per la dottrina in ambito cattolico, per cui si è affermata l’opinione, meglio l’eresia, che la Messa senza la Comunione non sia valida. Tutta la preoccupazione della comunione per i divorziati-risposati, che poco ha a che fare con la visione e la prassi orientale, è una conseguenza.
La verità è, come nota l’arcivescovo Cyril Vasil’, riprendendo l’osservazione di un altro autore, Pierre L’Huillier, le chiese ortodosse «non hanno praticamente mai elaborato una dottrina chiara dell’indissolubilità del matrimonio», permettendo un certo lassismo, che ha condotto ad un’impropria espansione delle cause legittime di divorzio a paragone di quelle previste dalla più antica normativa canonica orientale (Cyril Vasil’, op. cit., p. 115).
In ogni caso, volevo concludere che il sinodo, che si terrà in ottobre, per statuto, non ha prerogative dottrinali, che appartengono solo al papa ed al concilio unito al pontefice.
4. Un’ultima domanda: Mons. Livi, in un recente contributo sul blog Disputationes Theologicae (qui, di recente, la seconda parte del contributo) ha sostenuto che, in fondo alla proposta kasperiana – che sarà oggetto di discussione in sede sinodale – riguardo al tema dei c.d. divorziati risposati ed agli omosessuali, sia possibile ravvisare l’assalto finale del pensiero gnostico-massonico alla Chiesa di Cristo. Ed in vista del Sinodo, è notizia di pochi giorni fa, rilanciata anche dal nostro blog, è in programma a Roma dal 10 al 12 settembre prossimi una conferenza, organizzata dall’associazione liberal International Academy for Marital Spirituality, a cui dovrebbe partecipare, ed anzi dovrebbe introdurre i lavori, il card. Óscar Rodríguez Maradiaga, che è attualmente una delle personalità più vicine al papa e rappresenta un po’ l’ala liberal all’interno dell’assise sinodale. Oltre ovviamente ad altre personalità.
Ecco, condividi l’opinione di Mons. Livi e come ritieni possa coniugarsi l’indivisibile unione di un uomo e di una donna – secondo la nota definizione tomistica dell’unione coniugale come “individua coniunctio maris et feminae” – nel nostro tempo nel quale vi è un’esaltazione della libertà individuale – oserei dire quasi un’ubriacatura – anche da un punto di vista pastorale?
R. Stimo mons. Livi, e non dubito che siamo in presenza della riedizione riveduta e corretta, per dir così, dello gnosticismo che ha sempre combattuto l’Incarnazione del Verbo, caratteristica originale del cristianesimo cattolico. Non so, però, se si tratti dell’assalto finale. Nel primo secolo della nostra èra, sentir parlare della risurrezione della carne, del corpo e dell’anima dell’essere umano, era quanto di più antitetico alla mentalità pagana potesse esserci. E se il Cristo fosse una sembianza di Dio? – dissero non pochi cristiani, quando ancora vivevano gli apostoli - è possibile che Dio sia venuto nella carne? E Giovanni dice: “Ogni spirito che confessa Gesù Cristo venuto in carne, è da Dio; e ogni spirito che non confessa Gesù, non è da Dio; ed è quello dell’Anticristo, di cui avete udito che viene e che ora è già nel mondo” (I Gv 4,2-3). Col suo Vangelo l’apostolo testimone oculare, ribatte all’eresia, chiamata docetismo (dal greco dokêin). Due secoli dopo si dirà da altri cristiani seguaci del prete Ario: il Cristo è soltanto uomo; altri al contrario ribatteranno, è solo Dio. Il dibattito cristologico sembrava concluso nel V secolo col concilio di Calcedonia, in realtà è continuato a fasi alterne fino a Bultmann e ai teologi razionalisti, e quanti altri che hanno distinto e/o separato il “Gesù storico” dal “Gesù della fede”. Ed oggi ancora si ripropone: c’è chi vorrebbe abolirla o ridurla, l’incarnazione e la divinità di Cristo, per dialogare meglio con ebrei e musulmani. A pensare che per sostenere la fede nell’incarnazione, Atanasio più volte è stato in esilio, Cirillo, Ambrogio, Pier Crisologo hanno sopportato scherni, insulti e persecuzioni!
L’unione sacramentale tra l’uomo e la donna, secondo l’Apostolo, è un mistero grande in rapporto all’unione tra Cristo e la Chiesa: il mistero-sacramento, che permane grazie all’incarnazione del Verbo: «poiché siamo membra del corpo di Cristo», e in questa luce san Paolo, fa comprendere il passo di Genesi 2,24: «i due saranno una sola carne» (Ef. 5, 30-32). Dunque, il matrimonio, col diventare una sola carne, permette ai coniugi di entrare in quel mistero e di santificarsi. Ecco cosa deve essere messo al centro del prossimo sinodo, se è vero che la sacra liturgia con i santi sacramenti, costituisce la fonte e il culmine della vita spirituale e morale della Chiesa.
Grazie don Nicola ancora una volta per la tua attenzione nei riguardi del nostro blog per questa tua seconda intervista esclusiva.
R. Grazie a voi!
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