Il dibattito sulla famiglia, provocato da quanto emerso durante il Sinodo straordinario ed a margine dello stesso, ha riguardato soprattutto il versante teologico e della dottrina. Tuttavia in concomitanza con questi eventi, il Santo Padre ha posto in essere un atto importante, passato quasi in sordina: la costituzione di una Commissione speciale di studio per la riforma del processo matrimoniale canonico presieduta da monsignor Pio Vito Pinto, decano del Tribunale della Rota Romana. Se intenzione dichiarata del Papa era verificare la possibilità di procedere più rapidamente e obiettivamente alla sentenza sulla validità di tanti matrimoni, dall’analisi del pensiero dei componenti la commissione si poteva sin da subito comprendere quali fossero le soluzioni verso cui si voleva andare: l'eliminazione dell’obbligo della doppia sentenza conforme, l'istituzione di un giudice unico per la prima istanza o, addirittura, “l’amministrativizzazione” del processo canonico di nullità matrimoniale.
Per quanto riguarda il primo aspetto - obbligo della doppia sentenza conforme - sia il convegno tenutosi all’Università Gregoriana nel gennaio scorso a dieci anni dall'Istruzione Dignitas Connubii - di cui, secondo qualche partecipante, nell'occasione è stato celebrato “il funerale, seppur solennissimo”, sia il convegno sulla famiglia, svoltosi all’Università della Santa Croce nel marzo scorso, hanno registrato come un dato già acquisito, la sua eliminazione. Dovendosi a tal proposito rilevare come, finanche docenti che durante tutta la loro carriera hanno sostenuto l’importanza e rimarcato il valore di questa previsione normativa, abbiano accettato una resa incondizionata, arrivando addirittura a postulare il contrario rispetto a quanto affermato per decenni.
Sul secondo e sul terzo aspetto - istituzione di un giudice unico per la prima istanza ed “amministrativizzazione” del processo canonico di nullità matrimoniale -, invece, si sono registrate maggiori resistenze alla loro introduzione e alcune critiche argomentate.
Tuttavia, occorre rilevare che il dibattito, oltre a rimanere in ambito specialistico e scientifico - eccezion fatta per gli scritti del card. Raymond Burke e del card. Velasio De Paolis, pubblicati nel volume “Permanere nella Verità di Cristo” - , non ha avuto una grande eco come avrebbe meritato.
La sensazione è che la stessa corrente che ha finora spinto per il cambiamento dottrinale in materia di indissolubilità del matrimonio, usando la carta della pastorale, ora stia abbracciando questo argomento come una sorta di "piano B". In altre parole, dato l’inasprirsi del confronto sul piano dottrinale ed il crescere del fronte contrario alla “teoria Kasper” - basti qui menzionare, ad esempio, gli interventi dei vescovi polacchi ed africani, del cardinale Sarah, dei professori americani e, dei 500 preti inglesi -, che sembra allontanare la possibilità di accoglienza di tale “tesi” da parte del magistero pontificio, si riscontra, nei sostenitori della suddetta “teoria”, un mutamento di strategia ed un cambiamento del fronte sul quale agire, al fine di raggiungere ugualmente l'obiettivo: intervenire sull’ambito del diritto canonico, per introdurre, né più e né meno, un “divorzio cattolico”.
Questa strategia è avvantaggiata dal pressoché totale disinteresse dell’opinione pubblica verso il diritto nella Chiesa e della Chiesa - atteggiamento persistente da cinquant’anni a questa parte - che permette di agire indisturbati e con tranquillità, soprattutto quando gli addetti del settore, rinunciano a far sentire la propria voce o, peggio, decidono di mettere da parte le loro convinzioni, risultato di anni di studio, solo per cavalcare l'onda.
In particolare, per quanto concerne l’atteggiamento antinomiano della società in genere e dei fedeli in specie, si deve rilevare che con la celebrazione del Concilio Vaticano II si è determinato «un clima di “apertura al mondo”, che non di rado ha comportato il fraintendimento di voler adattare la fede e la vita cristiana a mentalità ed atteggiamenti incompatibili con il cristianesimo. Per quanto riguarda il diritto, è penetrato nella Chiesa uno spirito, assai diffuso in quegli anni di contestazione, contrario a quanto sapesse di ordine, esigenza sociale, istituzione, autorità, ecc.
All’insegna della spontaneità e dell’autenticità, della libertà e della sola obbedienza allo Spirito e ai suoi carismi, si sottovalutavano e perfino si disprezzavano proprio quei valori più a cuore nel modo tradizionale di concepire il diritto nella Chiesa, specialmente dalla Controrifoma in poi» ; tanto da far riaffiorare voci e comportamenti di opposizione nei confronti del diritto nella Chiesa, volti a riproporre la contrapposizione tra Chiesa del diritto e Chiesa della carità, oppure tra autorità e carisma. Dovendosi aggiungere che, nei confronti di tale situazione, non sono stati attrezzati, nel breve periodo, strumenti in grado di farvi fronte adeguatamente; basti pensare che, sebbene i documenti conciliari contengano molte dichiarazioni e disposizioni di netto contenuto giuridico, tuttavia non vi è una trattazione diretta e globale sulla natura ed il senso del diritto nella Chiesa in nessuno dei suddetti documenti e neanche nella costituzione dogmatica Lumen gentium che tratta del Mistero e dell’essenza della Chiesa.
In particolare, per quanto concerne l’atteggiamento antinomiano della società in genere e dei fedeli in specie, si deve rilevare che con la celebrazione del Concilio Vaticano II si è determinato «un clima di “apertura al mondo”, che non di rado ha comportato il fraintendimento di voler adattare la fede e la vita cristiana a mentalità ed atteggiamenti incompatibili con il cristianesimo. Per quanto riguarda il diritto, è penetrato nella Chiesa uno spirito, assai diffuso in quegli anni di contestazione, contrario a quanto sapesse di ordine, esigenza sociale, istituzione, autorità, ecc.
All’insegna della spontaneità e dell’autenticità, della libertà e della sola obbedienza allo Spirito e ai suoi carismi, si sottovalutavano e perfino si disprezzavano proprio quei valori più a cuore nel modo tradizionale di concepire il diritto nella Chiesa, specialmente dalla Controrifoma in poi» ; tanto da far riaffiorare voci e comportamenti di opposizione nei confronti del diritto nella Chiesa, volti a riproporre la contrapposizione tra Chiesa del diritto e Chiesa della carità, oppure tra autorità e carisma. Dovendosi aggiungere che, nei confronti di tale situazione, non sono stati attrezzati, nel breve periodo, strumenti in grado di farvi fronte adeguatamente; basti pensare che, sebbene i documenti conciliari contengano molte dichiarazioni e disposizioni di netto contenuto giuridico, tuttavia non vi è una trattazione diretta e globale sulla natura ed il senso del diritto nella Chiesa in nessuno dei suddetti documenti e neanche nella costituzione dogmatica Lumen gentium che tratta del Mistero e dell’essenza della Chiesa.
In più, oltre al danno, si potrebbe avere la beffa, perché si farebbe passare tutto ciò, come un miglioramento “pastorale” del sistema, necessario per venire incontro alle esigenze dei fedeli, in contrapposizione ad un vecchio sistema, rigido e legalista.
Dunque, in vista del Sinodo, occorre suscitare il dibattito, anche su questo aspetto canonistico, in particolare sul lavoro che dovrà svolgere la succitata commissione; un dibattito, non solo a livello scientifico, ma anche “apologetico”, capace di dire e di fare la verità a livello dottrinale e pastorale, per arrivare a tutti i fedeli, in maniera che tutti possano comprendere la suprema importanza del favor veritatis nell’ambito del diritto matrimoniale canonico. Questo perché un eventuale cambiamento del processo canonico nella direzione suindicata comporterebbe necessariamente pesanti ripercussioni anche nell’ambito della dottrina ed in rapporto al ruolo di questa nella Chiesa.
Infatti la ricerca della verità, per la quale la secolare esperienza della Chiesa è giunta a delineare il processo canonico nelle forme che oggi si conoscono, e la carità o la misericordia sono imprescindibilmente unite, così, dove manca la prima, non ci può essere in alcun modo la seconda. San Giovanni Paolo II sottolineava mirabilmente, a tal proposito, che l’autorità ecclesiastica «prende atto, da una parte, delle grandi difficoltà in cui si muovono persone e famiglie coinvolte in situazioni di infelice convivenza coniugale, e riconosce il loro diritto ad essere oggetto di una particolare sollecitudine pastorale. Non dimentica però, dall’altra, il diritto, che pure esse hanno, di non essere ingannate con una sentenza di nullità che sia in contrasto con l’esistenza di un vero matrimonio. Tale ingiusta dichiarazione di nullità matrimoniale non troverebbe alcun legittimo avallo nel ricorso alla carità o alla misericordia. Queste, infatti, non possono prescindere dalle esigenze della verità. Un matrimonio valido, anche se segnato da gravi difficoltà, non potrebbe esser considerato invalido, se non facendo violenza alla verità e minando, in tal modo, l’unico fondamento saldo su cui può reggersi la vita personale, coniugale e sociale. Il giudice pertanto deve sempre guardarsi dal rischio di una malintesa compassione che scadrebbe in sentimentalismo, solo apparentemente pastorale. Le vie che si discostano dalla giustizia e dalla verità finiscono col contribuire ad allontanare le persone da Dio, ottenendo il risultato opposto a quello che in buona fede si cercava» .
Infatti la ricerca della verità, per la quale la secolare esperienza della Chiesa è giunta a delineare il processo canonico nelle forme che oggi si conoscono, e la carità o la misericordia sono imprescindibilmente unite, così, dove manca la prima, non ci può essere in alcun modo la seconda. San Giovanni Paolo II sottolineava mirabilmente, a tal proposito, che l’autorità ecclesiastica «prende atto, da una parte, delle grandi difficoltà in cui si muovono persone e famiglie coinvolte in situazioni di infelice convivenza coniugale, e riconosce il loro diritto ad essere oggetto di una particolare sollecitudine pastorale. Non dimentica però, dall’altra, il diritto, che pure esse hanno, di non essere ingannate con una sentenza di nullità che sia in contrasto con l’esistenza di un vero matrimonio. Tale ingiusta dichiarazione di nullità matrimoniale non troverebbe alcun legittimo avallo nel ricorso alla carità o alla misericordia. Queste, infatti, non possono prescindere dalle esigenze della verità. Un matrimonio valido, anche se segnato da gravi difficoltà, non potrebbe esser considerato invalido, se non facendo violenza alla verità e minando, in tal modo, l’unico fondamento saldo su cui può reggersi la vita personale, coniugale e sociale. Il giudice pertanto deve sempre guardarsi dal rischio di una malintesa compassione che scadrebbe in sentimentalismo, solo apparentemente pastorale. Le vie che si discostano dalla giustizia e dalla verità finiscono col contribuire ad allontanare le persone da Dio, ottenendo il risultato opposto a quello che in buona fede si cercava» .
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