Siate sempre lieti, siate sempre felici nella confidenza del Signore! Così scrive San Paolo nell’Epistola a Filemone. Ma come si fa ad essere lieti e sereni anche quando tutto ci è contro e il nostro cuore geme e sanguina fra le spine del dolore?
«Gaudete in Domino semper», ovvero: siate sempre lieti, siate sempre felici nella confidenza del Signore! Così scrive San Paolo nell’Epistola a Filemone (4, 4). Gioite, dunque; gioite non in questo o quel momento, non in questa o quella fase della vostra vita, ma SEMPRE!
Una bella pretesa, vero? Non sembra la classica formuletta da sacrestia, o, peggio – immaginiamo il caso di trovarci in gravi, in gravissime tribolazioni e angosce spirituali – una grande, una sonora beffa ai nostri danni, una discutibile ironia?
Nel migliore dei casi, una frase incomprensibile: come si fa ad essere lieti, ad essere sereni SEMPRE, anche quando tutto ci è contro, anche quando ogni speranza umana sembra caduta nella polvere, anche quando il nostro cuore geme e sanguina fra le spine del dolore?
Finché le cose ci vanno bene, o fino a quando ci vanno passabilmente, allora sì, la cosa diventa comprensibile e perfino logica; ma quando il nostro animo è schiantato dalla sofferenza e noi stiamo agonizzando nello sconforto e nella solitudine: allora no, perbacco, allora la cosa appare senza senso, come una pretesa assurda o come un macabro scherzo.
Oppure le cose non stanno così?
Ci piace riportare, a questo proposito, un passaggio della lunga lettera che Frédéric Ozanam, il futuro fondatore della Società San Vincenzo de’ Paoli, scrisse all’amico François Lallier, poco dopo la morte del padre, dal paese di Pierre-Bénite presso Lione, il 5 ottobre 1837 (da: F. Ozanam, «Lettere», a cura di Nicola Pavoni, Tipografia Vaticana, 1994, pp. 150-2):
«Ora, dopo che ebbi esposto, con un’energia che in questi casi mi è poco familiare, le mie tristezze e le ragioni delle mie tristezze all’uomo caritatevole che io chiamo mio padre, che cosa pensate che mi abbia risposto? Mi ha risposto con queste parole dell’Apostolo: “Gaudete in Domino semper”. Non è questa forse una strana parola? Ecco un poveraccio che ha appena avuto la più grande delle disgrazie nell’ordine delle cose spirituali, quella di offendere Dio, la più grande delle disgrazie nell’ordine delle cose della natura, quella di diventare orfano; ha una madre anziana e malata di cui spia tutti i movimenti, tutti gli sguardi, tutti i lineamenti ogni giorno, per sapere quanto ancora la conserverà; si vede strappato per l’assenza o per la morte dai molti amici ai quali era teneramente attaccato e altre separazioni più dolorose ancora lo minacciano.
Si trova sempre di più nell’angoscia di un incerto destino, oppresso da sollecitudini e da faccende le più felici delle quali non smettono di urtarlo; se si ripiega su se stesso per sfuggire i dolorosi spettacoli del mondo,, si ritrova pieno di debolezze, d’imperfezioni, di difetti; e le umiliazioni e le sofferenze segrete che egli causa a se stesso non sono le meno penose di tutte. E gli si viene a dire, non di rassegnarsi, nemmeno di consolarsi, ma di rallegrarsi: “Gaudete semper!” Ci vuol bene tutta l’audacia, tutta la pia insolenza del cristianesimo, per parlare in tal modo. E tuttavia il cristianesimo ha ragione.
La tristezza ha i suoi pericoli: essa si confonde spesso, come voi avete ben visto, con la pigrizia, ed occupa anche il posto di quest’ultima nelle antiche enumerazioni dei peccati capitali. Ho sotto gli occhi un passaggio di San Gregorio Magno che si esprime in termini ottimi da conoscere e da riportare: “Initium omnis peccati superbia. Primae autem eius sorboles, septem nimirum principalia vitia, ex hac virulenta radice proferuntur: scilicet, inanis gloria, invidia, ira, tristitia, avaritia, ventris ingluvies, luxuria… De tristitia, rancor, malitia, pusillanimitas, desperatio, torpor circa praecepta, vagatio mentis circa illicita nascitur”. Non sono forse qui gli effetti, e la causa non è anch’essa felicemente rivelata? Vi sono, secondo me, due specie d’orgoglio: uno più rozzo e al quale si sfugge facilmente, ed è la contentezza di se stessi; l’altro, più sottile, più facile ad insinuarsi inosservato, più ragionevole, si nasconde nel dispiacere che si ha delle proprie miserie, dispiacere che, se non si muta in contrizione, si muta in dispetto; noi siamo desolati di non poterci riposare in noi stessi, la nostra coscienza è un testimone a carico che noi sentiamo nostro malgrado, noi ci disperiamo per essere così poca cosa, perché abbiamo ereditato dal primo padre il primo sentimento colpevole, e vorremmo essere degli dei. In questo modo, noi ci rimproveriamo soprattutto le imperfezioni che dipendono meno dalla nostra volontà; amiamo di più disperarci che condannarci. Ce la prendiamo volentieri col Creatore per non averci più vantaggiosamente dotati; siamo pressoché gelosi delle facoltà e delle virtù altrui. Così l’amore s’indebolisce, e l’egoismo si cela sotto quell’ingannevole austerità dei nostri rimpianti: noi non ci dispiaciamo tanto se non perché ci amiamo troppo. E, in effetti, notate quanto ci compiaciamo nella malinconia: principalmente, perché è un modo per occuparci di noi stessi; secondariamente, perché in mancanza di meriti che si vorrebbe trovare in noi per ammirarli, si è felici di incontrarvi almeno il dispiacere di non averli. È un sentimento dall’apparenza onorevole, è una sorta di giustizia, è quasi una virtù. Eppoi è più comodo sognare che agire: le lacrime ci costano meno del sudore; e sono i sudori che l’inesorabile sentenza ci chiede.
Può dunque essere l’inizio della saggezza a far rientrare l’uomo in se stesso; ed effettivamente la saggezza antica e pagana aveva conosciuto questo precetto; ma, se non si vuole che l’uomo così rientrato in sé vi muoia di vergogna e di scoraggiamento, bisogna far discendere nella prigione un raggio dall’alto. C’è bisogno di qualche cosa che non sia umano, che venga però a visitare l’uomo nella solitudine del suo cuore, e che da questa lo faccia uscire per entrare in azione: questo qualcosa è la carità; è essa sola che può cambiare I RIMORSI IN PENITENZA, che feconda il dolore e gli fa germogliare generose risoluzioni: è essa che dà la fiducia (e il) coraggio, perché fa sparire quella vista di noi stessi che ci confonde alla vista di Dio, di cui essa ci investe, nella quale ci fa sentire, essere e muovere: “In ipso movemur et sumus”, che ci illumina con la sua luce e ci fortifica con la sua forza. In queste alte regioni, tutto cambia d’aspetto, e, contemplati nell’economia delle volontà divine, i più funesti avvenimenti si spiegano, si giustificano, e lasciano vedere in sé un segno consolatore. Così quei mali interni ed esterni di cui soffrivamo dianzi non addolorano più oramai che la nostra sensibilità, la parte bassa della nostra anima; la sua parte più alta s’innalza al di sopra; preoccupazioni migliori vi risiedono; una gioia seria, ma vera, la circonda; e il prodigio è compiuto, e il precetto dell’Apostolo è realizzato: “Gaudete semper”, perché è Dio stesso la causa di questa gioia sconosciuta alla natura: “Gaudete in Domino”.»
Allorché Fréderic Ozanam scriveva queste bellissime, ispirate meditazioni sul significato del dolore, la sua vita personale era quanto mai tribolata da afflizioni di vario genere: non sono, pertanto, le frasi fatte di un uomo pasciuto e soddisfatto, che, dal suo tranquillo cantuccio, dispensa ai suoi simili, con poca o nessuna fatica, perle di saggezza; al contrario, sono le parole che sgorgano da un cuore ferito, trapassato dalla lancia del dolore, e tuttora sanguinante.
Eppure: quanta vera umanità, quale delicatezza di sentire, quanta magnanimità commovente si respirano in questa lettera privata, scritta ad un amico, che potrebbe figurare benissimo tra le pagine più alte della letteratura consolatoria, e dar dei punti a Seneca e a Cicerone! E quale profondità psicologica, quale coraggio nello scendere sino al fondo di se stesso, quale limpidezza e trasparenza nel passare al setaccio i sentimenti più riposti, e nel gettare un vivido raggio di luce negli angoli più oscuri dell’anima, là dove solo i più intrepidi ardiscono penetrare. Riconoscere che, nella tristezza, si annidano numerosi mali morali, che si camuffano e si travestono da ciò che non sono, per meglio ingannare la coscienza e per consentire all’anima di coltivare la pigrizia, l’auto-compatimento, perfino l’orgoglio: sono analisi degne di un grande psicologo e di un grande conoscitore d’anime, di un audacissimo esploratore dei propri abissi interiori.
Anche la via d’uscita dalla tristezza, che Ozanam addita con forza e con speranza cristiana: il rivolgere l’anima al di fuori di se stessa; l’aprirsi al sentimento della carità, l’affidare a Dio il proprio fardello, cercando e trovando in Lui la forza benefica che, sola, può distrarci dal nostro morboso auto-compiacimento e dal rovello impotente di rimproverare al destino la nostra infelicità: tutto questo fa di Ozanam un’autentica guida spirituale, nel senso più vero dell’espressione; un amico fedele dei tempi difficili, un compagno prezioso, insostituibile, nelle scabrose asperità dello sconforto. Di più: egli è un nostro fratello maggiore, che ha attraversato a piedi nudi le stanze del dolore, camminando sui carboni ardenti, e che ci insegna come fare per non lasciarsi sopraffare dal dolore, trasformando il tormento in letizia.
Nel terzo capitolo del Libro di Daniele si narra come tre giovinetti, Sidrac, Misac e Abdenago, vennero gettati, per ordine di Nabucodonosor, in una fornace ardente, alimentata a legna e portata ad altissima temperatura, per punirli di non aver voluto rinnegare il vero Dio; e di come Dio mandò loro un venticello fresco dentro la fornace, che li pose al riparo dal fuoco, in modo che non si bruciasse neppure un angolo delle loro vesti. I carnefici, stupefatti, osservavano il prodigio dall’esterno e, per ordine del re, gettavano fascine sopra fascine nella caldaia, in modo da arrostire vive le tre vittime designate: ma esse non subivano alcun danno, perché all’intero c’era una deliziosa frescura, e l’unico risultato che i carnefici ottennero fu quello di restare bruciati loro stessi, a causa delle fiamme altissime che si levavano, ruggendo e crepitando.
Ebbene: quel che vuole dirci Fréderic Ozanam è che, se l’anima tormentata dal fuoco della sofferenza impara a rivolgere i propri pensieri a Dio, a cercare in Lui pace e conforto, a dimenticarsi di sé e a rinunciare alla tentazione dell’auto-commiserazione, o della rivolta, o della superbia che vorrebbe usare il dolore per sentirsi più infelice, e quindi più grande, di chiunque altro; se l’anima riesce a fare questo, a obliare il proprio io e a dire, semplicemente, “Tu”, allora, prontamente, un venticello fresco scenderà nell’inferno della sua sofferenza, disperderà le fiamme ruggenti e farà in modo che il dolore si trasformi in letizia, in pace e in benedizione.
Infatti, quel che dice Ozanam non è, semplicemente, che, con l’aiuto di Dio, si può sopportare la sofferenza; è qualcosa di molto più grande, di molto più impegnativo e quasi di sconvolgente: dice che l’anima può volgere il proprio tormento in un senso di pace, addirittura di gaudio; di gaudio non in se stessa, ma nel Signore. Umanamente, infatti, nessun’anima sarebbe capace di tanto: non è in potere dell’uomo trasformare il dolore in letizia. Ma quel che è impossibile all’uomo, è possibile a Dio: e in questo si riconosce l’uomo di fede. L’uomo di fede non dispera mai, perché confida nel soccorso di Dio; e confida in esso non per i propri meriti, ma per le proprie debolezze. Dall’umiltà, dal riconoscimento del proprio limite, della propria impotenza, scaturisce il dono ineffabile della Grazia: che l’uomo non può darsi da se stesso, perché non viene da lui, ma dall’Alto, essendo un dono divino, assolutamente gratuito.
Gaudete in Domino semper, allora, diventa assai di più che una formula retorica di edificazione morale: dove quel semper significa, esattamente, in ogni circostanza della vita: nella buona e nella cattiva fortuna, quando le cose vanno a gonfie vele e quando vanno male, umanamente parlando, e perfino malissimo; quando tutto sembra perduto, quando l’angoscia attanaglia il cuore e lo stringe nella sua morsa di ferro; quando l’orizzonte appare chiuso da ogni parte da bassi e scuri nuvoloni, senza un sia pur minimo raggio di sole, e l’anima, smarrita, intimidita, sopraffatta, sembra incapace di risollevarsi, di tornare a guardare verso l’alto. Per l’uomo di fede, infatti, parlando in maniera appropriata, la buona e la cattiva fortuna non esistono: la vita è sempre buona e ogni cosa è trasfigurata dalla Grazia, perché avere incontrato Dio santifica e illumina ogni giorno, ogni ora ed ogni istante che la vita ci concederà ancora.
L’innamorato, talvolta, sentendosi il cuore inondato di dolcezza alla presenza dell’amata, si trova a pensare quanta vita egli abbia sprecato prima d’averla conosciuta; e gli pare che tutto quel tempo, tutti quegli anni, siano stati veramente inutili, perché in essi non brillava ancora la luce del suo grande amore. Analogamente, chi ha incontrato Dio nel proprio cammino esistenziale, non può non pensare con rammarico a tutti i giorni, i mesi, gli anni, che ha trascorso lontano da Lui, ignaro di Lui; però, lungi dal cedere alla malinconia, trova adesso uno slancio rinnovato nel fatto di aver conosciuto quella Verità che inseguiva e quell’Amore che, nel volto delle persone, aveva invano cercato con tale perfezione, con un così profondo senso di appagamento.
Anche San Francesco d’Assisi, come Fréderic Ozanam, compose lo stupendo «Cantico di Frate Sole» mentre il suo corpo era tormentato da infiniti mali: ma la sua anima era gaudiosa e luminosa, perché gioiva nell’amore di Dio. Sono queste le grandi anime che ci indicano la strada della gioia…
Francesco Lamendola
«Gaudete in Domino semper»
di
Francesco Lamendola
Parole sante.
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