ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

martedì 20 ottobre 2015

Two-speed Church

SINODO: La decentralizzazione della Chiesa offende la fede e il senso comune

(Roberto de Mattei  su Il Fogliodel 20 ottobre 2015) Papa Francesco ha annunciato, il 17 ottobre 2015, come si concluderà il Sinodo sulla famiglia. A pochi giorni dalla fine dei lavori l’assemblea dei vescovi è giunta ad un impasse  e la strada per uscirne, secondo il Papa sarebbe quella della decentralizzazione della Chiesa (http://vaticaninsider.lastampa.it/documenti/dettaglio-articolo/articolo/sinodo-famiglia-44026/).
L’impasse nasce dalla divisione tra coloro che in aula richiamano con fermezza il Magistero perenne sul matrimonio e quei “novatores” che vorrebbero ribaltare , duemila anni di insegnamento della Chiesa, ma soprattutto la Verità del Vangelo. E’ infatti Parola di Cristo, legge divina e naturale, che il matrimonio valido, rato e consumato, dei battezzati non può essere, per nessuna ragione al mondo, sciolto da alcuno. 

Una sola eccezione annullerebbe il valore assoluto e universale di questa legge e se cadesse questa legge, crollerebbe con essa tutto l’edificio morale della Chiesa. Il matrimonio o è indissolubile o non lo è e non si può ammettere una dissociazione tra l’enunciazione del principio e la sua applicazione nella pratica. Tra il pensiero e le parole e tra le parole e i fatti, la Chiesa esige una radicale coerenza, la stessa che testimoniarono i Martiri nel corso della storia.
Il principio secondo cui la dottrina non cambia, ma muta la sua applicazione pastorale, introduce un cuneo tra due dimensioni inseparabili del Cristianesimo: Verità e Vita. La separazione tra dottrina e prassi non proviene dalla dottrina cattolica, ma dalla filosofia hegeliana e marxista, che capovolge l’assioma tradizionale secondo cui agere sequitur esse. L’azione, nella prospettiva dei novatori, precede l’essere e lo condiziona, l’esperienza non vive la verità ma la crea. E’ questo il senso del discorso tenuto dal cardinale Christoph Schönborn commemorando il 50° anniversario dell’istituzione del Sinodo, lo stesso giorno in cui ha parlato papa Francesco (http://vaticaninsider.lastampa.it/documenti/dettaglio-articolo/articolo/sinodo-famiglia-44028/). “La fede non può essere rappresentata ma solo testimoniata”, ha affermato l’arcivescovo di Vienna, ribadendo il primato della “testimonianza” sulla dottrina. Martire, in greco, significa testimone, ma per i martiri testimoniare significava vivere la verità, mentre per i novatori significa tradirla, reinventandola nell’esperienza.
Il primato della prassi pastorale sulla dottrina è destinato ad avere queste catastrofiche conseguenze:
1) Il Sinodo “virtuale”, come già accadde per il Concilio Vaticano II, è è destinato a prevalere su quello reale. Il messaggio mediatico che accompagnerà le conclusioni dei lavori è più importante del contenuto dei documenti. La Relatio sulla prima parte dell’Instrumentum Laboris delCirculus Anglicus C afferma con chiarezza la necessità di questa rivoluzione del linguaggio: “Like Vatican II, this Synod needs to be a language-event, which is more than cosmetic”.
2) Il post-sinodo è più importante del sinodo, perché ne rappresenta la auto-realizzazione.  Il Sinodo infatti, affiderà la realizzazione dei suoi obiettivi alla prassi pastorale. Se ciò che si trasforma non è la dottrina, ma la pastorale, questo cambiamento non può avvenire nel Sinodo, deve avvenire nella vita quotidiana del popolo cristiano e dunque fuori del Sinodo, dopo il Sinodo, nella vita delle diocesi e delle parrocchie della Chiesa.
3) la auto-realizzazione del Sinodo avviene all’insegna della esperienza delle chiese particolari, ossia  della decentralizzazione  ecclesiastica. La decentralizzazione autorizza le chiese locali a sperimentare una pluralità di esperienze pastorali. Ma se non esiste un’unica prassi coerente con l’unica dottrina, vuol dire che ne esistono molte e tutte meritevoli di essere sperimentate. I protagonisti di questa Rivoluzione nella prassi, saranno dunque i vescovi, i parroci, le conferenze episcopali, le comunità locali, ognuno secondo la propria libertà e creatività.
Si delinea l’ipotesi di una Chiesa a “due velocità” (two-speed Church) o, sempre per usare il linguaggio degli eurocrati di Bruxelles, a “geometria variabile” (variable geometry). Di fronte al medesimo problema morale ci si regolerà in maniera diversa, secondo l’etica della situazione. Alla chiesa dei “cattolici adulti”, di lingua germanica, appartenenti al “primo mondo” sarà permessa la “marcia veloce” della “testimonianza missionaria”; alla chiesa dei cattolici “sotto-sviluppati”, africani o polacchi, appartenenti alle chiese del secondo o terzo mondo, sarà concessa la “marcia lenta” dell’attaccamento alle proprie tradizioni
Roma resterebbe sullo sfondo, priva di reale autorità, con una sola funzione di “impulso carismatico”. La Chiesa sarebbe de-vaticanizzata, o meglio, de-romanizzata. Alla Chiesa romanocentrica si vuole sostituire una Chiesa policentrica o poliedrica, L’immagine del poliedro è stata usata spesso da papa Francesco. Il poliedro – ha affermato –  è una unità, ma con tutte le parti diverse; ognuna ha la sua peculiarità, il suo carisma. Questa è l’unità nella diversità. E’ in questa strada che noi cristiani facciamo ciò che chiamiamo col nome teologico di ecumenismo: cerchiamo di far sì che questa diversità sia più armonizzata dallo Spirito Santo e diventi unità” (Discorso ai pentecostali di Caserta il 28 luglio 2014). Il trasferimento di poteri alle conferenze episcopali è già previsto da un passo della “Evangelii Gaudium”, che le concepisca come”soggetti di attribuzioni concrete, includendo anche qualche autentica autorità dottrinale. Un’eccessiva centralizzazione, anziché aiutare, complica la vita della Chiesa e la sua dinamica missionaria” (n. 32). Ora Papa Francesco enuncia questo “principio di sinodalità” come risultato finale dell’assemblea in corso.
Le antiche eresie del gallicanesimo e del nazionalismo ecclesiastico riaffiorano all’orizzonte. E’ dogma di fede infatti, promulgato dal Concilio Vaticano I, il primato di giurisdizione del Sommo Pontefice, in cui risiede la suprema autorità della Chiesa, su tutti i Pastori e su tutti i fedeli, indipendentemente da ogni altro potere. Questo principio costituisce la garanzia dell’unità della Chiesa: unità di governo, unità di fede, unità di sacramenti. La decentralizzazione è una perdita di unità che conduce inevitabilmente allo scisma. Lo scisma è infatti la rottura che inesorabilmente avviene quando manca un punto di riferimento centrale, un criterio unitario, sia sul piano della dottrina che su quello della disciplina e della pastorale. Le Chiese particolari, divise sulla prassi, ma anche sulla dottrina che dalla prassi deriva, sono fatalmente destinate ad entrare in contrasto e a produrre fratture, scismi, eresie.
La decentralizzazione non incrina solo il Primato romano, ma nega il principio di non-contraddizione, secondo cui “uno stesso essere non può, allo stesso tempo e sotto lo stesso rapporto, essere ciò che è e non esserlo”. E’ solo in base a questo primo principio logico e metafisico che possiamo usare la nostra ragione e conoscere la realtà che ci circonda. 
Che cosa accade se il Romano Pontefice rinuncia, anche solo in parte, ad esercitare il suo potere per delegarlo alle Conferenze episcopali o ai singoli vescovi? Accade evidentemente che si crea una diversità di dottrina e di prassi tra conferenze episcopali e tra diocesi e diocesi. Ciò che in una diocesi sarà proibito sarà ammesso in un’altra e viceversa. Il convivente more uxorio potrà accostarsi al sacramento dell’Eucarestia in una diocesi e non in un’altra. Ma il peccato è o non è, la legge morale è uguale per tutti o non è. E delle due l’una: o il Papa ha il primato di giurisdizione e lo esercita, oppure qualcuno governa, nei fatti, al di fuori di lui
Il Papa ammette l’esistenza di un sensus fidei, ma è proprio il sensus fidei dei vescovi, dei sacerdoti dei semplici laici, quello che oggi è scandalizzato dalle stravaganze che si sentono nell’aula del Sinodo. Queste stravaganze offendono il senso comune prima ancora che il sensus  Ecclesiae dei fedeli. Papa Francesco ha ragione quando afferma che lo Spirito Santo non assiste solo il Papa e i vescovi, ma tutti i fedeli (cfr. su questo punto Melchior Cano, De locis Theologicis (Lib. IV, cap. 3, 117I). Lo Spirito Santo però non è spirito di novità; guida la Chiesa, assistendo infallibilmente la sua Tradizione. Attraverso la fedeltà alla Tradizione, lo Spirito Santo parla ancora alle orecchie dei fedeli. E oggi, come ai tempi dell’arianesimo, possiamo dire con sant’Ilario: « Sanctiores aures plebis quam corda sacerdotum »“sono più sante le orecchie del popolo che i cuori dei sacerdoti”. (Contra Arianos, vel Auxentium, n. 6, in PL, 10, col. 613). (Roberto de Mattei  su Il Foglio del 20 ottobre 2015)
http://www.corrispondenzaromana.it/sinodo-la-decentralizzazione-della-chiesa-offende-la-fede-e-il-senso-comune/

“Esiste ancora il matrimonio naturale?”

“Dobbiamo far evolvere la dottrina”. Parla padre Schockenhoff, kasperiano
di Matteo Matzuzzi | 20 Ottobre 2015 ore 06:27

Padre Eberhard Schockenhoff, teologo morale a Friburgo, in Germania
La legge naturale è un totem che alla chiesa non serve più. Meglio parlare di amore che di Paolo VI e Africa. Parla al Foglio il teologo moralista tedesco Eberhard Schockenhoff, gran consigliere dei novatori capitanati dal cardinale Reinhard Marx e già assistente a Tubinga di Walter Kasper negli anni Ottanta.

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http://www.ilfoglio.it/chiesa/2015/10/20/se-il-matrimonio-non-cos-naturale-chiesa-germania-schockenhoff___1-v-134013-rubriche_c126.htm

Perché la Chiesa vuole decentrarsi. Francesco e la "piramide capovolta"
Francesco sale improvvisamente in cattedra e indica il futuro della Chiesa in termini rivoluzionari. Proprio mentre il sinodo è ancora in pieno svolgimento e in cerca del risultato, Bergoglio, pochi giorni fa, ha dato un’incredibile spinta al cambiamento parlando di “decentralizzazione” e di “conversione” del papato, di collegialità episcopale permanente ed estesa a tutti i livelli. E inoltre ha legato questi temi ad una delle linee portanti del suo pontificato, quella di una “piramide capovolta”, di una Chiesa nella quale il Gregge è soggetto attivo dell’evangelizzazione, dotato di un proprio “fiuto”, e non solo il destinatario passivo della Chiesa gerarchica e docente. Nel suo discorso Francesco si è riallacciato soprattutto al Vaticano II, e questo non deve stupire. Certe pagine apparentemente sepolte del concilio non hanno mai smesso di suscitare cambiamenti, magari lenti, ma progressivi, nella Chiesa.
Anche e soprattutto perché si sono saldati con una dinamica storica inarrestabile (e magari essi stessi sono il riflesso di questi cambiamenti in atto). Nell’epoca delle comunicazioni istantanee, della tecnocrazia che si espande, del villaggio globale e quindi della liquidità digitale che causa quel processo curioso di “glocalizzazione” (globalizzazione immediata e massificante degli stili di vita e localizzazione esplosiva delle identità e delle culture particolari come schegge impazzite), la Chiesa si è scoperta come mai nel passato, davvero “universale” e davvero “romana”. Un paradosso? Sì, ma è proprio questa la sua carta vincente. Essere "Romana" ed al contempo "Cattolica". Pensare globalmente ed agire localmente. Infatti questa sua doppia e malleabile identità, che nel passato ha causato così tante fluttuazioni, in un senso e nell’altro, sembra anche oggi la risorsa imprescindibile per sopravvivere al mutamento che incombe. Non è un caso che nell’ultimo secolo il ruolo dei pontefici sia enormemente cambiato. Dallaleadership dottrinale, risultato di una società uniforme e dominata dal senso religioso, si è via via passati ad una leadership morale, segno di un pluralismo da addomesticare e al tempo stesso di una secolarizzazione che ha eroso categorie acquisite. Il cantiere aperto sul piano del riequilibrio della struttura interna è anch’esso il riflesso di questo cambio di paradigma di portata epocale. Se è esistita una Chiesa “monarchica”, simile per certi versi alla rigidità degli stati nazionali dell’epoca assolutistica (e che può aver raggiunto un risultato positivo, ad esempio ridando corpo all’apparato ecclesiale che nel medioevo si era scollato troppo, oppure facendo scudo alle ingerenze esterne), è del tutto plausibile che esista in futuro, o forse già adesso stia esistendo, una Chiesa decentrata e “polifonica”, come disse una volta Benedetto XVI, simile per certi versi alle forme ibride di aggregazione trans-nazionali e trans-statuali, tipo l’Unione Europea. Solo che oggi la Chiesa gioca, per così dire, in casa. Perché la “glocalizzazione” è la sua stessa essenza e il decentramento corrisponde a un suo modo di essere, che è già stato collaudato nel passato con ottimi risultati. Nei primissimi secoli, infatti, laCatholica sopravvisse all’annientamento progettato dall’Impero romano proprio perché era qualcosa di mai visto fino ad allora, un ibrido che andava ad insinuarsi come sabbia negli ingranaggi dell’ordinamento giuridico e statale. Il cristianesimo fu in quei secoli contemporaneamente centralizzato e decentrato. Proprio come una piramide rovesciata, i credenti furono una comunità di piccole cellule corpuscolari, che però formavano un’organizzazione reticolare e gerarchica in senso verticale, con i vescovi effettivamente eletti a partire dal popolo. I credenti, per usare il bergoglismo, avevano “fiuto”, sapevano capire ciò che andava fatto in base ad una fede trasmessa e vissuta con ardore. I martiri morivano non perché avessero ricevuto direttive da Roma relative ai culti proibiti, ma perché si immedesimavano nel messaggio di libertà insegnato da Cristo. Questa compresenza di “centralismo”, e cioè di strutturazione gerarchica (che guardava già a Roma come al cuore e alla “roccia” che presiedeva nella carità, nella certezza di una fede trasmessa in caso di dispute dottrinali), e di diffusione tentacolare a livello di piccole comunità, mandò letteralmente in tilt l’Impero. Se, oggi, vivere in maniera “glocale” significa pensare globalmente e agire localmente, allora la Chiesa ha tantissime carte da giocare. A cominciare da una “conversione” del papato, che può aprirsi (e già si sta aprendo) a tante “situazioni nuove”, per usare la celebre espressione di Giovanni Paolo II ripresa da Francesco. Ovviamente senza perdere nulla di ciò che ha acquisito nel tempo a livello dottrinale, come nel caso dell’infallibilità, ma solo cambiando il modo di attuazione di queste prerogative, per meglio assolvere alla sua funzione di guida universale in un’epoca e in una Chiesa che sta mutando la sua struttura di fondo. Proprio come un quadro serializzato di Andy Warhol, il messaggio cristiano può diventare un variopinto processo di inculturazione persuasiva e dinamica, che fa dei modelli dominanti, apparentemente ostili se li si guarda con le categorie del passato, il suo stesso punto di forza.
Scritto da 
http://pontifexoptimusmaximus.blogspot.it/2015/10/perche-la-chiesa-vuole-decentrarsi.html
Federalismo dottrinale? Ecco il no di Ratzinger
di Stefano Fontana20-10-2015
Sinodo
Nel 1984 il cardinale Joseph Ratzinger aveva risposto alle domande di Vittorio Messori e ne era nato il famoso “Rapporto sulla fede” (Edizioni San Paolo). Il contesto storico in cui si muovevano un po’ tutte le domande del giornalista era il post-concilio. Le risposte di Ratzinger erano fortemente indirizzate a fornire la corretta interpretazione del Concilio, secondo le esigenze di una restaurazione intesa non come un tornare indietro ma come la ricerca di un nuovo equilibrio dopo le esagerazioni dell’abbraccio al mondo.  
Nel capitolo IV della lunga intervista, c’è un paragrafo riguardante le Conferenze episcopali. Ratzinger faceva notare che il Vaticano I aveva proclamato il dogma dell’infallibilità del Sommo Pontefice. Era stato interrotto però all’improvviso, a seguito della Presa di Roma da parte dei bersaglieri italiani, e non aveva potuto occuparsi in modo conseguente anche dei vescovi. Il Vaticano II ha quindi ripreso in mano il fascicolo vescovi a cui ha dedicato, tra l’altro un Decreto, il Christus Dominus. Il Papa è infallibile «quando come Pastore e Dottore supremo, proclama da tenersi come certa una dottrina sulla fede o sui costumi». Il Vaticano II, continua Ratzinger, ha ricordato che anche al Collegio episcopale compete la medesima infallibilità nel magistero, sempre che i vescovi «conservino il legame di comunione tra di loro e con il Successore di Pietro».  
Con ciò tutto è andato a posto? Non nella pratica, sottolineava Ratzinger: «Il deciso rilancio del ruolo del vescovo si è in realtà smorzato o rischia addirittura di essere soffocato dall’inserzione dei presuli in conferenze episcopali sempre più organizzate, con strutture burocratiche spesso pesanti. Eppure, non dobbiamo dimenticare che le conferenze episcopali non hanno una base teologica, non fanno parte della struttura ineliminabile della Chiesa così come è voluta da Cristo, hanno soltanto una funzione pratica concreta».
A considerare queste osservazioni a distanza di tanti anni ormai, la loro veridicità risulta piuttosto chiara. Molti vescovi sono timidi perché aspettano che si pronunci la Conferenza episcopale regionale o nazionale, e queste, a loro volta, sono lente perché prima di pronunciarsi e dare indicazioni ai fedeli devono provocare un estenuato consenso: «Avviene che il punto di incontro tra le varie tendenze e lo sforzo di mediazione diano luogo spesso a documenti appiattiti, dove le precisioni decise sono smussate».  
Il nuovo codice di diritto canonico, spiegava sempre nel 1984 Joseph Ratzinger, dice che le Conferenze spiescopali «non possono agire validamente in nome di tutti i vescovi, a meno che tutti e singoli i vescovi non abbiano dato il loro consenso», e a meno che non si tratti di «materie in cui lo abbia disposto il diritto universale oppure lo stabilisca un mandato speciale della Sede Apostolica». Il collettivo, affermava Ratzinger, non sostituisce la persona del singolo vescovo, il quale è, dice il Codice, «l’autentico dottore e maestro della fede per i credenti affidati alle sue cure».
Per essere ancora più chiaro, il futuro Benedetto XVI diceva che «Nessuna conferenza episcopale ha, in quanto tale, una missione di insegnamento: i suoi documenti non hanno valore specifico ma il valore del consenso che è loro attribuito dai singoli vescovi».
La Chiesa, egli ricordava, «è basata su una struttura episcopale, non su una sorta di federazione di Chiese nazionali. Il livello nazionale non è una dimensione ecclesiale. Bisogna che sia di nuovo chiaro che in ogni diocesi non c’è che un pastore e maestro della fede, in comunione con gli altri pastori e maestri e con il Vicario di Cristo».
Parlando della Germania, Ratzinger ricordava parlando con Vittorio Messori che là una conferenza episcopale esisteva già dagli anni Trenta, ma «i testi davvero vigorosi contro il nazismo furono quelli che vennero da singoli presuli coraggiosi. Quelli della conferenza apparivano invece un po’ smorti, troppo deboli rispetto a ciò che la tragedia richiedeva».

1 commento:

  1. "Se avvenisse - dice San Paolo - che noi stessi o un Angelo venuto dal cielo vi insegnasse altra cosa da quanto io vi ho insegnato, che sia anatema" (Gal. 1,8)."amen!

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