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Risposte alla risposta di padre Cavalcoli
Padre Cavalcoli sul sito isoladipatmos.com ha risposto al mio articolo “I tre marchiani errori di padre Cavalcoli” da me scritto in seguito ad una sua intervista rilasciata al sito vaticaninsider.lastampa.it.
Sono tendenzialmente restio a scrivere delle risposte-alle-risposte perché in questo modo si corre il rischio di non finire mai. Si fa (anche se in modo contrario) come i due famosi compari della storiella: il primo accompagna il secondo e questi il primo… e nessuno ritorna a casa. Devo però venir meno a questo proposito perché sono in gioco questioni molto importanti: ne va della verità e anche della salvezza delle anime.
Faccio una premessa, anzi ne voglio fare due. Mi si creda non lo faccio per captatio benevolentiae o per pura cortesia (con tutto il doveroso rispetto per la cortesia). La prima è questa: mi sono reso conto che il titolo da me proposto per il mio articolo è stato troppo duro e forse poco rispettoso nei confronti di un teologo che pur in passato ha scritto tante cose interessanti ed edificanti (mi riferisco soprattutto alla posizione che tempo fa il Padre assunse in merito alla questione dei castighi divini). La seconda: io non ho la competenza teologica di padre Cavalcoli. Anch’io ho studiato teologia, ma non ho certo i suoi titoli, il suo curriculum né tantomeno ho letto le cose che lui certamente è riuscito a leggere.Sono tendenzialmente restio a scrivere delle risposte-alle-risposte perché in questo modo si corre il rischio di non finire mai. Si fa (anche se in modo contrario) come i due famosi compari della storiella: il primo accompagna il secondo e questi il primo… e nessuno ritorna a casa. Devo però venir meno a questo proposito perché sono in gioco questioni molto importanti: ne va della verità e anche della salvezza delle anime.
Detto questo, però, non posso non insistere su alcuni errori che padre Cavalcoli non solo conferma ma in un certo qual modo aggrava nella risposta al mio articolo. Utilizzerò questo metodo: riporterò i passi problematici secondo l’ordine che ha utilizzato il Padre e li farò seguire da un mio commento. Ciò renderà più esaustivo il mio intervento, anche se meno consequenziale e più ripetitivo. Inizio.
Padre Cavalcoli: “I divorziati risposati, nel giudizio della Chiesa, sono in una posizione “irregolare” e per questo sono esclusi dai sacramenti. Ma il sostenere che con ciò siano in uno “stato di peccato grave” è un giudizio temerario, che non tiene conto di che cosa è il peccato e qual è il suo dinamismo nel concreto delle coscienze.”
Rispondo: Davvero ritenere che i divorziati risposati siano in uno stato di peccato grave è “giudizio temerario”? Vediamo cosa è il “giudizio temerario”. Il “giudizio temerario” si ha “quando –senza un motivo sufficiente- si ritiene fermamente per vero, a carico di un terzo, un difetto morale o una colpa.” (Compendio di Teologia morale di p.Eriberto Jone). In questa definizione si allude anche al “difetto morale” e non solo alla “colpa oggettiva”. Pertanto è un bel po’ forzato affermare che nulla si possa dire a proposito dei singoli divorziati risposati. Certamente un conto è affermare che non si può mai sapere con certezza se una determinata persona è in stato di peccato grave (perché in foro interno giudica solo Dio), altro è rinunciare a giudicare l’atto o la condizione oggettiva di qualcuno. Il “giudizio temerario” non c’è se dico: Mario e Teresa sono in oggettivo stato di peccato convivendo. Ci sarebbe se dicessi: Mario e Teresa andranno sicuramente all’inferno. Se si dovesse utilizzare in maniera così estensiva la concezione di “giudizio temerario” allora sì che cadremmo in una sorta di “fariseismo” (dico questo perché in più punti padre Cavalcoli mi accusa di questo) vedendo il peccato laddove non vi è (chi di fariseismo ferisce… di fariseismo perisce). Inoltre, se un tale giudizio non potrebbe mai essere formulato, non ci sarebbe nemmeno l’obbligo delle opere di misericordia spirituale. Chi sarebbero davvero gli erranti da ammonire?
Padre Cavalcoli: “Se le occasioni di peccare sono frequenti ed inevitabili, la caduta che consegue è meno imputabile, considerando da una parte la spinta della passione e dall’altra la pressione esercitata sulla volontà dall’occasione di peccato. La nostra volontà ha una forza limitata. Il peccato si verifica solo quando, potendo resistere alla tentazione, non lo facciamo. Ma se la tentazione è troppo forte e la volontà non riesce a vincere la concupiscenza, la colpa diminuisce, perché diminuisce il volontario, che è fattore essenziale dell’atto morale, sia buono che cattivo. In questo caso non si pecca perché si è deliberatamente voluto peccare, ma perché le forze di resistenza, colte a volte alla sprovvista, non sono state sufficienti. Se qualcuno mi dà uno spintone e io casco per terra, mi si darà una colpa se son caduto a terra? L’istinto sessuale, soprattutto nei giovani ― dovremmo saperlo tutti ―, è una forza travolgente, alla quale in certi casi è impossibile resistere. Nemo ad impossibilia tenetur. Non possiamo essere incolpati di atti che abbiamo commesso per causa di forza maggiore. Ricordiamoci anche di distinguere il peccato in senso oggettivo, ossia l’azione cattiva in se stessa, dalla condizione soggettiva dell’agente, nel cui atto può mancare la piena avvertenza o il deliberato consenso, sicché la sua coscienza, benché egli oggettivamente abbia fatto del male o un danno a terzi, potrebbe essere in parte o del tutto scusata.”
Rispondo: Su questo nulla da dire. Ma –preciso- anche questo tipo d’indagine è di competenza di Dio che ovviamente valuta tutte le eventuali attenuanti che hanno preceduto o accompagnato l’atto oggettivamente negativo. Se invece questo discorso lo si estende, non solo il giudizio morale viene di fatto nullificato, ma può scandalosamente (nel senso di dare scandalo) svilupparsi un’ulteriore perdita del senso del peccato. Ognuno potrebbe addurre situazioni che lo avrebbero spinto, suo malgrado, a peccare: “La donna che tu mi hai posto accanto mi ha dato il frutto, e io ho mangiato!” (Genesi, 3) Adamo cerca di discolparsi inutilmente.
Padre Cavalcoli:“Tutte queste premesse devono portarci a un’importante distinzione, che gioca immediatamente nella nostra discussione e cioè quella tra il peccato come atto volontario, protraibile o interrompibile nel tempo a volontà; e certe situazioni o condizioni pericolose, interiori o esterne, soggettive od oggettive, che spingono più o meno fortemente al peccato, ma non sono ancora peccato, perché la volontà, per quanto sollecitata, resta libera di decidere. Possiamo tuttavia chiamare “stato di peccato” un peccato o una colpa volontariamente protratta nel tempo, quello stato psichico e morale colpevole che chiamiamo “ostinazione” e la Bibbia chiama “cuore indurito”. Anche in tal caso, però, la volontà, mossa dalla grazia, può sempre, in linea di principio, interrompere questo stato, spezzare queste catene e tornare al bene, come avviene per esempio nelle conversioni. Ciò che accade nel caso dei conviventi, è una cosa che si può verificare in tanti altri casi della vita, nei quali occorre distinguere il peccato dall’occasione di peccare. Il peccato possiamo toglierlo subito; l’occasione può restare, anche se non vogliamo.”
Risposta: Due sono le cose. Se le sollecitazioni sono involontarie è un conto, ma se le sollecitazioni nascono da condizioni e situazioni che possono volontariamente essere evitate o interrotte, è un altro conto. Che la condizione peccaminosa non conduca necessariamente all’atto del peccato è vero, ma questo non vuol dire che non si abbia l’obbligo di togliersi dalla condizione peccaminosa, altrimenti si corre il rischio di “mettere alla prova” Dio. Insomma, padre Cavalcoli sembra sorvolare (e questo fa specie) su una distinzione che esiste sul piano formale ma non conduce ad una differenza sostanziale. Il peccato non sta solo nel suo atto, ma anche nella sua intenzione. Gesù ha detto chiaramente che è peccato anche il desiderio non realizzato: “Ma io vi dico che chiunque avrà guardato una donna desiderandola, avrà già commesso adulterio nel suo cuore.”(Matteo 5) Due conviventi non mutando vita, dimostrano che la loro intenzione di non peccare è inesistente. Insomma, la prospettiva farisaica mi sembra molto più presente nelle parole di padre Cavalcoli. Mi spiego. Prendiamo la Confessione. Questa, perché sia valida ha bisogno di alcune condizioni, fra cui l’essere sinceramente pentiti e il proposito di non peccare più. Nel proposito entra in gioco anche il comportamento futuro. Se ho rubato e sono convinto che una determinata occasione mi ha spinto a farlo, ho l’obbligo morale di evitare quella occasione prossima di peccato. Lo stesso vale se convivo con una donna come se fosse mia moglie non essendo questa mia moglie Lo ripeto: da un punto di vista formale il ragionamento di padre Cavalcoli potrebbe anche avere valore, ma non da quello sostanziale e intenzionale. Ecco perché Gesù dice le parole che ho citato prima: “Se si guarda una donna desiderandola…”
Padre Cavalcoli: “La situazione, che è una circostanza dell’atto, non costituisce l’atto come tale nella sua sostanza, ma è solo una modalità accidentale o un’occasione dell’azione umana, buona o cattiva che sia. Ma non è la vera causa, che è solo la cattiva volontà. Quindi la sostanza del peccato, cioè la cosa che oggettivamente e sostanzialmente vien fatta, è indipendente dalle situazioni e dalle occasioni. Si può compiere un peccato in situazioni che inducono al bene; e si può compiere un atto di virtù, laddove la situazione ci spingerebbe a peccare. Che io compia un gesto di carità in uno stato d’animo di gioia, perché ho superato un esame, o di sofferenza, perché è morta mia madre, il valore morale del gesto è sempre lo stesso.”
Rispondo: Se è vero che la circostanza dell’atto non costituisce l’atto, è pur vero che si ha l’obbligo di eliminare la circostanza. Altrimenti si cade in una sorta di spiritualismo antropologico che l’autentica dottrina cattolica ha sempre rifiutato. Non a caso Pio XII diceva che dalla santità delle strutture politiche dipende la salvezza dell’uomo. Non perché l’uomo sia determinato incontrovertibilmente, ma perché l’uomo risente di particolari influenze esterne. Da qui l’obbligo di cambiare in positivo queste influenze. Sant’Alfonso Maria dei Liguori, nel suo Istruzione e pratica dei confessori (1. a. 7. §. I.) parla chiaramente di obbligo di evitare le occasioni prossime del peccato. D’altronde nell’Atto di dolore diciamo: “(…) propongo di non offendervi mai più e di rifuggire le occasioni prossime del peccato.”
Padre Cavalcoli: “Una delle eresie di Lutero condannate dal Concilio di Trento, fu proprio quella di credere che la concupiscenza, che è l’inevitabile ed invincibile tendenza permanente a peccare, presente in tutti noi, coincidesse con un inesistente stato permanente ed inevitabile di peccato.”
Rispondo: L’esempio di Lutero qui non lo vedo. Anzi. Un conto è dire che vanno obbligatoriamente eleminate le occasioni prossime del peccato, altro è dire che la natura umana è costitutivamente irrecuperabile. Un conto è la “concupiscenza” luterana, altro il fomite cattolico.
Padre Cavalcoli: “Se la Chiesa esclude attualmente i conviventi dalla Santa Comunione, non è perché essa supponga che essi sono sempre in peccato, ma solo per una misura pastorale, che vuol essere: primo, un richiamo alla loro coscienza; secondo, il rispetto dovuto ai sacramenti; terzo, evitare lo scandalo e il turbamento dei fedeli. Ma di per sé non è impossibile che essi si accostino alla Comunione in stato di grazia. Il che è come dire che, nonostante la situazione sia irregolare, essi possono vivere in grazia, benché ciò sia certo per loro difficile.”
Rispondo: Qui non ci siamo proprio. Ripeto: è vero che non si possono giudicare i singoli erranti perché ciò spetta solo a Dio. Da qui la possibilità da parte della Chiesa di sapere chi è certamente in Paradiso (fermo restando che anche sulle canonizzazioni ci sarebbero questioni aperte, ma non è di questo che dobbiamo parlare), ma non di sapere chi è certamente all’inferno. Ma ciò non vuol dire che non si possa essere sicuri di atti oggettivamente peccaminosi. I divorziati risposati non possono accedere all’Eucaristia perché la loro condizione è oggettivamente negativa. La Familiaris Consortio (n.84) parla per i divorziati di condizione di vita che contraddice “oggettivamente” la verità naturale e cristiana sul matrimonio: “Sono essi (i divorziati risposati) a non poter esservi ammessi, dal momento che il loro stato e la loro condizione di vita contraddicono oggettivamente a quell’unione di amore tra Cristo e la Chiesa, significata e attuata dall’Eucaristia.”
Padre Cavalcoli: “Se quindi la Chiesa un domani dovesse concedere loro la Santa Comunione, ciò non vorrebbe affatto dire che la Chiesa – cosa impensabile – compia un attentato contro la sostanza dei sacramenti, ma semplicemente che usa della sua facoltà di legiferare e mutar leggi per una migliore recezione dei sacramenti. La Chiesa tiene provvidamente a che anche i divorziati risposati vivano in grazia di Dio, nonostante la loro situazione. D’altra parte, se la disciplina attuale resta immutata, io non avrei problemi, perché nella mia lunga esperienza di confessore e guida delle anime, sono sempre riuscito a rasserenare queste persone, semplicemente ricordando loro che comunque esse possono percorrere un personale cammino penitenziale ed essere quindi in grazia, anche se non possono accedere ai sacramenti.”
Rispondo: E invece toccare questa norma vuol dire mettere in discussione l’indissolubilità del matrimonio. Ripongo ciò che dice la Familiaris Consortio: “Sono essi (i divorziati risposati) a non poter esservi ammessi, dal momento che il loro stato e la loro condizione di vita contraddicono oggettivamente a quell’unione di amore tra Cristo e la Chiesa, significata e attuata dall’Eucaristia.” Dunque, la norma in questo caso non attiene ad un regolamento puramente disciplinare, che potrebbe essere anche cambiato dalla Chiesa, ma è l’esito di una situazione oggettiva. Ecco perché il documento dice che non è la Chiesa ad escluderli, sono loro stessi che si escludono.
Padre Cavalcoli: “D’altra parte, se la disciplina attuale dovesse essere allargata o mitigata, non vedo proprio perché, come temono alcuni, che non sanno distinguere il dogma dalla pastorale, ciò dovrebbe costituire un attentato ai Sacramenti. La pastorale mette in pratica il dogma e non lo contraddice. Tra dogma e pastorale c’è un rapporto simile a quello che esiste tra il ritmo biologico dell’organismo e due differenti metodi di cura della salute. Il medico non può fissare la cura senza compromettere la salute del paziente? La Chiesa fa discendere la pastorale dal dogma, in quanto nel dogma vi sono leggi divine intangibili e immutabili, che devono essere applicate nella vita. Molti e mutevoli sono i modi con i quali le leggi divine possono essere applicate dalla Chiesa, la quale invece interpreta e rispetta sempre ed infallibilmente l’immutabilità del dogma.”
Rispondo: In questo caso padre Cavalcoli confonde ciò che dovrebbe essere con ciò che purtroppo non sempre è.
Padre Cavalcoli: “È chiaro che stiamo parlando di una convivenza illegittima. Io però ho parlato di “situazioni peccaminose” e non di “condizioni di peccato”, le quali non sono la stessa cosa. Come ho respinto la prima espressione nel senso che ho precisato, sarei disposto invece ad accettare la seconda, nel senso di “condizioni di vita che inducono al peccato”. Ma allora anche qui non c’è ancora in gioco il peccato. Come ho detto per la situazione, così devo dire per la condizione: esse non possono essere qualificate come “peccaminose”, perché non sono peccati, ma sono circostanze del peccato, come ho spiegato sopra. Non costituiscono la sostanza del peccato ma una proprietà aggiunta accidentale, che può mancare, senza che la specie del peccato muti. Anche due legittimi sposi possono commettere un peccato di lussuria. Così, per tornare al nostro caso, l’unione illegittima non conduce necessariamente di per sé all’atto del peccato, pur costituendo una situazione o condizione, che induce a peccare ed è sorta dal peccato.”
Rispondo: Qui padre Cavalcoli confonde occasione prossima con occasione remota. E’ chiaro che tutto potrebbe essere occasione, ma non per questo si deve evitare tutto.
Padre Cavalcoli: “Certo, allora, che convivere è un atto di volontà. Ma il peccare dei conviventi, per quanto pecchino, non è necessariamente coestensivo al loro convivere. Non è che tutto il loro vivere sia peccato. Possono benissimo possedere buone qualità per altri versi, qualità che essi possono e debbono valorizzare, senza per questo peccare nel merito. Se lui è ingegnere e lei è infermiera, non possono forse far del bene sotto questi aspetti? È vero che le opere buone fatte in stato di peccato mortale non valgono per la salvezza. Ma sarebbe giudizio gravemente temerario e crudele pensare che questi esseri umani, redenti dal sangue di Cristo, siano in un continuo ed irrimediabile stato di peccato mortale, a meno che non si lascino. E la grazia divina che ci sta a fare? Il loro convivere, infatti, nonostante l’oggettiva irregolarità della loro posizione, può comportare anche, almeno in certi momenti, l’intervento e la presenza della grazia. Dipende dai due peccare o non peccare, in forza del libero arbitrio. Solo i dannati dell’inferno sono in uno stato continuo ed irrimediabile di peccato. Supponendo quindi quanto ho detto, non è detto che i due vivano necessariamente e in continuazione nel peccato, quasi fossero anime dannate, per il semplice fatto che la loro è un’unione illegittima.”
Rispondo: Qui padre Cavalcoli cade nell’eresia di oggi: il peccato di per sé non esiste, va piuttosto considerato come un bene dimezzato. Padre Cavalcoli dovrebbe sapere che se esiste il bene assoluto, non esiste il male assoluto, ma non per questo il male non è e non resta male.
Padre Cavalcoli: “Questa unione peccaminosa, certo, è la loro situazione o condizione di vita. Ma la situazione non fa da sé ancora il peccato, il quale non nasce dalla situazione, ma dalla volontà, volontà che può cambiare, mentre la situazione può restare la stessa. Il permanere di una situazione o condizione di vita, dalla quale, per ipotesi, non si può uscire e che comporta una continua tentazione al peccato, non vuol dire che in molti casi i due non possano, con la grazia di Dio, vincere la tentazione o, sempre con la grazia d Dio, risorgere dal peccato.”
Rispondo: Mi limito semplicemente a sottolineare: un’unione peccaminosa che non è peccato. Bah!
Padre Cavalcoli: “Per quanto riguarda poi la questione dell’educazione dei figli, sollevata da Gnerre, è evidente che la nuova coppia ha un dovere primario nei confronti dei figli, eventualmente nati dalla nuova unione, mentre la nuova coppia dovrà interessarsi, per quanto è possibile e conveniente, stando alle disposizioni della legge civile e possibilmente sotto una guida spirituale, anche di eventuali figli nati nel precedente matrimonio e di altri avuti da un nuovo eventuale legame contratto con altri dal coniuge precedente.”
Rispondo: Qui padre Cavalcoli non mi ha capito. Mi riferivo soprattutto ai figli nati in una situazione peccaminosa. In questo caso si ha il dovere di dare un’educazione adeguata ai figli. Prima fra tutte quella di riconoscere peccaminosa quella falsa unione e offrire loro un’altra immagine di convivenza dei genitori, non più come marito e moglie.
Padre Cavalcoli: “Noi possiamo discernere quando il Papa parla in nome della Tradizione e quando no. Certo anche a noi è possibile conoscere i documenti della Tradizione e verificare la fedeltà del Papa ad essi. Ma anche quando il Papa parla al di fuori della Tradizione, non parla mai contro di essa.”
Rispondo: Dire che il Papa non può mai parlare contro la Tradizione, pur dovendone essere custode, significa di fatto ritenerlo infallibile su tutto. Cosa che ovviamente non è, basti pensare al caso di Giovanni XXII. Ricordo inoltre che se il Papa non può essere deposto, rimane possibile la tesi del poter essere giudicato in caso di eresia. Nel medioevo si affermò chiaramente l’impossibilità che il Papa potesse essere giudicato da qualcuno, tranne però una sola eccezione, il peccato di eresia. Lo ricorda Graziano nel suo Decreto quando scrive: “A nemine est judicandus, nisai deprehenditur a fide devius”, che significa: “non debba essere giudicato da nessuno, a meno che non si allontani dalla fede.” A ricordo inoltre le parole di san Vincenzo da Lerino (V secolo): “Ci sono papi che Dio li dona, ci sono papi che Dio tollera, ci sono papi che Dio infligge.”
Ormai è tardi per il vaccino: ha già preso il cimurro. jane
RispondiEliminaL'influenza di quel superbo ed strafottente Ariel Levi ha giocato la sua parte... Cavalcoli è partito per la tangente da tempo e nessuno più dovrebbe "frequentare" il suo pensiero! Così come con Padre Livio, i suoi scritti è oggettivamente rilevabile che non scaturiscano più da carità disinteressata. Vanno semplicemente ammoniti e ignorati finchè non ritrovino prima ancora che la Fede il lume della ragione!
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