ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

venerdì 13 novembre 2015

Gioco di squadra..(e compasso?)

SCIOCCHEZZE MODERNISTE

Il vero pensiero di Giovanni XXIII su messa in latino don Milani, Teilhard e preti-operai. Le sciocchezze moderniste originate dalla mala fede il cui unico scopo è quello di avvalorare una interpretazione eterodossa del Concilio di F. Lamendola  




Si dice e si ripete, da parte di quei cattolici che si autodefiniscono – non senza compiacimento – “progressisti”, che il Concilio Vaticano II ha relegato in soffitta gli usi liturgici della vecchia stagione cristiana, introducendone di nuovi, radicalmente innovativi e aperti al futuro, secondo la volontà di Giovanni XXIII.
In verità, si tratta di pure e semplici sciocchezze; e, come se non bastasse, di sciocchezze originate dalla mala fede: sciocchezze il cui unico scopo è quello di avvalorare una interpretazione eterodossa e “modernista” del Concilio stesso, attribuendo surrettiziamente la paternità di una simile svolta a colui che meno di ogni altro aveva in mente una operazione del genere: il papa che decise e convocò il Concilio medesimo, ma con tutt’altre intenzioni e con tutt’altra prospettiva rispetto a quelle che gli sono state cucite addosso.
Il fatto che tutti i documenti del Concilio Vaticano II, conformemente alla tradizione, siano stati redatti in latino; il fatto che il Concilio sia stato immediatamente preceduto da un Sinodo romano che tutti gli osservatori hanno riconosciuto di stampo fortemente conservatore, specie per quel che riguarda i doveri dei sacerdoti; il fatto che il papa contasse sul Concilio per avviare il processo di beatificazione di Pio IX, il fautore dell’infallibilità pontificia su qualunque altro organo della Chiesa, concilio compreso; il fatto, infine, che Giovanni XXIII pensasse di concludere i lavori, iniziati l’11 ottobre del 1962, entro la festa dell’Immacolata (8 dicembre) o, al massimo, entro il Natale, vale a dire entro due mesi o due mesi e mezzo dall’apertura: tutti questi fatti, ed altri ancora che potremmo facilmente elencare a volontà, la dicono lunga su quali fossero le vere intenzioni di papa Roncalli e di quanto lontane da esse fossero quelle che gli sono state affibbiate, di voler modificare, se non stravolgere, la vita della Chiesa con una radicale balzo in avanti, che rompesse in maniera sostanziale con la tradizione.
Del resto, è ben noto che il Vaticano II è stato un concilio essenzialmente pastorale: non un Concilio teologico, come quelli di Nicea, di Calcedonia o, più recentemente, di Trento; il suo scopo non era quello di riformare e tanto meno di abolire la Tradizione (stavolta con la maiuscola: cioè nel significato non umano, soprannaturale, divino, della parola), bensì, casomai, di prevenire possibili fughe in avanti di una parte del clero e dell’episcopato, prendendo sul tempo gli innovatori radicali e adoperandosi affinché il concetto di “andare incontro al mondo moderno” non si trasformasse in una abdicazione e in una resa incondizionata di fronte ad esso, ma, al contrario, in uno sforzo per contrapporre alla sua filosofia, al suo stile, ai suoi valori (o disvalori), la forza intatta del Magistero ecclesiastico, saldo sulle sue basi e geloso custode delle sue radici.
Ci sembra più che mai opportuno ricordare, a quei sedicenti cattolici “progressisti”, quanto scritto da Andrea Tornielli nella sua biografia «Papa Giovanni XXIII» (Verona, Mondadori, 2003, pp.  219-221):

«Appare […] del tutto controcorrente, rispetto a una certa immagine unilaterale e falsata del “Papa rivoluzionario”, la decisione di Giovanni XXIII di promulgare con il massimo della solennità la Costituzione apostolica “Veterum sapientia”, firmata davanti all’altare della Cattedra il 22 febbraio 1962. È il documento che riafferma l’uso del latino come lingua immutabile della Chiesa e tra quelli del suo pontificato è il più dimenticato. Al punto che persino nel Sito Internet della Santa Sede (www.vartican.va), nelle pagine dedicate a Roncalli, non soltanto non ne compare il testo ma non viene nemmeno citato.
Già il 20 giugno dell’anno precedente, quando si erano prese alcune decisioni su aspetti pratici del futuro Concilio, il papa aveva detto: “Quanto al latino, è chiaro che esso deve essere la lingua ufficiale del Concilio; ma, data occasione e necessità, sarà consentito di esprimere e di veder raccolto il proprio pensiero nella lingua parlata”.
Si è molto discusso sull’origine della “Veterum sapientia” e sulla sua origine [sic]. È noto che già prima della sua pubblicazione la più forte opposizione all’uso delle lingue volgari al Concilio era venuta dal cardinale Giuseppe Pizzardo e dall’arcivescovo Dino Staffa, rispettivamente Prefetto e Segretario della Congregazione per i seminari e le università, i cui argomenti in favore del latino anticipavano il documento papale “invocando il primato di Roma e l’autorità universale e immediata” del Pontefice (“Storia del Concilio ecumenico Vaticano II”, diretta da Giuseppe Alberigo, Il Mulino, 1995, vol. I, pag. 226). Sarebbe però riduttivo attribuire interamente la Costituzione apostolica alla Curia romana, immaginando un Giovanni XXIII succube delle pressioni dell’ambiente circostante. Innanzitutto perché questo non risponde affatto al vero, e poi perché […], il Papa bergamasco, pur aperto a certe novità e desideroso di “aggiornare” la vita della Chiesa, non era affatto un “rivoluzionario”. Anzi.
“Poiché in questo nostro tempo – scrive Giovanni XXIII – si è cominciato a constatare in molti luoghi l’uso della lingua Romana e moltissimi chiedono il parere della Sede Apostolica su tale argomento, abbiamo deciso, con opportune norme, enunciate in questo documento, di fare in modo che l’antica e mai interrotta consuetudine della lingua latina sia conservata e se, in qualche caso sia andata in disuso, sia completamente ripristinata”. “Del resto, quale sia il nostro pensiero su tale argomento, crediamo di averlo abbastanza chiaramente dichiarato quando rivolgemmo queste parole ad illustri studiosi del Latino: Purtroppo vi sono parecchi che, esageratamente sedotti dallo straordinario progresso delle scienze, hanno la presunzione di respingere o limitare lo studio del Latino e di altre discipline di tal genere… Precisamente mossi da questa necessità, Noi riteniamo che si debba intraprendere il cammino opposto. Poiché l’animo si nutre e compenetra di tutto ciò che maggiormente onora la natura e la dignità dell’uomo, con maggiore ardire si deve acquisire ciò che arricchisce ed abbellisce lo spirito, affinché i misteri mortali non siano freddi, aridi e privi di amore, come le macchine che fabbricano’”.
“Se in qualche paese, poi – si legge ancora nel documento papale -, per aver adottato un programma di studio proprio delle scuole pubbliche dello Stato, lo studio della lingua latina abbia subito delle diminuzioni, con danno di un insegnamento solido ed efficace, decretiamo che in tal caso sia completamente ripristinato l’ordine tradizionale dell’insegnamento di tale lingua per la formazione dei sacerdoti”. [Qui, evidentemente, si fa riferimento alla riforma della Scuola media di Stato che, appunto nel 1962, avrà come effetto, tra le altre cose, l’abolizione del latino come materia d’insegnamento obbligatoria e la sua riduzione a materia facoltativa per le classi seconde e terze, restando solo qualche elemento fondamentale per le classi prime.] Merita una citazione anche il finale, per comprendere il valore che il papa intendeva dare al suo pronunciamento: “In virtù della Nostra Apostolica autorità vogliamo ed ordiniamo che quanto abbiamo stabilito, decretato, ordinato ed ingiunto con questa Nostra Costituzione, resti definitivamente fermo e sancito non ostante qualsiasi prescrizione in contrario, pur degna di speciale menzione”. Questo testo giovanneo sarà sbrigativamente messo in soffitta e quindi dimenticato. La riforma liturgica post-conciliare andrà infatti ben oltre il dettato dello stesso Concilio Vaticano II, che aveva stabilito di conservare la lingua di Cicerone nei riti della Chiesa latina pur concedendo l’ingresso delle lingue nazionali in alcune parti della Messa. Il latino sarà di fatto definitivamente abolito meno di quattro anni dopo quel solenne documento.
Va detto che papa Roncalli – il quale da nunzio apostolico a Parigi, nel 1949, aveva definito il fatto che l’altare in alcune chiese fosse stato girato per permettere al celebrante d stare di fronte ai fedeli e non di spalle, “innovazioni liturgiche che poco mi piacciono”, ideate da “teste ardenti e un po’ bislacche” – non era contrario all’inserimento delle lingue nazionali in alcune parti del rito.»

Ma, si dirà, la questione liturgica non è stata, in fondo, che un aspetto marginale, o, comunque, secondario del Concilio, in confronto alla “grandiosa” trasformazione della prospettiva dottrinale aperta dal Vaticano II. Può darsi: ciascuno è libero di interpretare i fatti come preferisce; però, fino a prova contraria, senza offendere l’intelligenza, propria e altrui; senza pretendere che i fatti siano altra cosa da quello che sono.
Nel nostro caso, occorre forse ricordare a certi smemorati che Giovanni XXIII, dopo aver letto il libro «Esperienze pastorali» di don Lorenzo Milani, figura simbolo del “neo-modernismo” conciliare, aveva definito il suo Autore «un povero pazzerello fuggito dal manicomio» (lettera di Roncalli al vescovo di Bergamo, Giuseppe Piazzi, del 1° ottobre 1958)?
Occorre ricordare, sempre a quei tali smemorati, i quali vorrebbero arruolare Giovanni XXIII fra i “rivoluzionari” del Vaticano II, che, a proposito della questione dei preti operai, egli si schierò perfettamente in linea con il Sant’Uffizio, che dichiarava quella esperienza come incompatibile con la concezione tradizionale del sacerdozio e ne stabiliva la graduale conclusione (lettera di Roncali all’arcivescovo di Parigi, Maurice Feltin)?
Occorre ricordare, infine, a quanti non si peritano di manipolare la figura e il pensiero di Giovanni XXIII, per farlo passare come il Papa che volle abolire il latino dalla liturgia e porre fine alla “monarchia assoluta” della Chiesa, nonché come il papa che spalleggiò silenziosamente la “rivoluzione” teologica di Teilhard de Chardin, che, a detta di due  testimoni che ben conobbero papa Roncalli all’epoca del Concilio, il vescovo di Imperia e Ventimiglia, Angelo Raimondo Verardo, e il notaio del Sant’Uffizio, monsignor Sebastiano Masala, che Giovanni XXIII non fu affatto “costretto” ad adeguarsi al monito emesso dal Sant’Uffizio contro le ultime opere di Teilhard, pubblicato il 30 giugno 1962, ma che, contrariamente a quanto sostenne monsignor Loris Capovilla, egli condivideva in pieno quel giudizio e quell’ammonimento, ritenendo Teilhard un gesuita che era andato troppo oltre, cadendo in una certa qual forma di panteismo?
Da questi fatti (non opinioni), e da altri ancora, che potremmo citare a volontà, emerge un quadro molto diverso, completamente diverso, da quello delineato – e oggi quasi ufficialmente accreditato -  da quanti hanno cercato di avvalorare una perfetta equivalenza fra il pensiero e le intenzioni di Giovanni XXIII, le posizioni più avanzate, e quasi estreme, che vennero assunte da alcuni Padri conciliari, e, soprattutto, un non meglio precisato “spirito del Concilio”, che, come poi avrebbe fatto notare il papa Benedetto XVI, veniva – e viene – adoperato, non sempre in buona fede, per avvalorare non quel che il Concilio aveva realmente detto e fatto, ma quello che avrebbevoluto dire e fare, beninteso se non fosse stato trattenuto, frenato e ostacolato in ogni modo dai vescovi conservatori e dal partito curiale, avverso alle riforme e allergico, per partito preso, anzi, per sua stessa natura, a qualsiasi innovazione.
Non è sufficiente, a tutti costoro, il fatto che Giovanni XXIII giudicasse assurde e pericolose le idee pastorali del tanto celebrato (dai neo-modernisti) don Lorenzo Milani, da essi fatto assurgere alle vette del pensiero pedagogico, nonché del “vero” spirito evangelico e del rinnovamento ecclesiastico; che considerasse come inopportuna e meritevole di essere rapidamente conclusa l’esperienza francese dei preti-operai, in quanto non consona alle finalità e alle modalità liturgiche del sacerdozio; che nutrisse ampie riserve teologiche e dottrinali sull’opera di Teilhard de Chardin, il nume tutelare di quasi tutti i cattolici “progressisti”, che essi considerano tale, proprio per il suo confuso e pasticciato tentativo di conciliare la scienza evoluzionista e materialista (la paleontologia di matrice darwiniana) con una visione del Cristo, del destino umano e della relazione fra l’uomo e Dio, che si risolve in una specie di deismo panteistico, nel quale si stenta parecchio a riconoscere ancora qualcosa di cristiano, e specialmente di cattolico?
E non è sufficiente che egli non volesse affatto abolire il latino dalla liturgia, né far rivolgere gli altari verso i fedeli?
Certo: esiste la libertà di pensiero ed esiste la libertà d’interpretare; non, però, quella di falsificare a proprio piacere la storia, e meno ancora la fede religiosa. Se la Chiesa cattolica appare ad alcuni suoi figli troppo chiusa ed angusta, troppo “arretrata” e conservatrice, perché continuano a rimanervi, con la pretesa di scardinare dall’interno la sua Tradizione? Non sarebbe più onesto e leale uscirne e andarsene per la propria strada? Perché non mettere le carte in tavola, e dichiarare apertamente, senza sotterfugi, le proprie intenzioni?
Abbiamo sentito l’altro giorno, nel corso di una intervista televisiva (11 novembre 2015), una giovane ragazza dichiarare, con aria entusiasta, dopo aver partecipato ad un incontro con il papa Francesco: «Il papa è contro la Chiesa; quindi io sto con lui!»; e nessuno dei partecipanti alla trasmissione ha fatto una piega; nessuno, credenti o non credenti che fossero, ha fatto rilevare l’enormità e l’assurdità una simile dichiarazione, la totale inconsapevolezza di cui essa offre testimonianza. Viene da chiedersi se vi siano ancora molte persone capaci di pensare, di ragionare; e quanto sia facile, per chi desidera stravolgere, ma senza averne l’aria, le verità stabilite e consolidate da secoli e millenni, agire su tanta confusione mentale, su tanta superficialità, su tanta inconsapevolezza,portare a compimento il suo disegno.
In un momento storico in cui è possibile affermare qualsiasi cosa, senza minimamente preoccuparsi di documentarlo e di dimostrarlo, bisogna aspettarsi di tutto. Di falsificazione in falsificazione, possiamo essere docilmente condotti versi qualsiasi meta, senza un moto di ribellione, senza un soprassalto di lucidità. Oggi si dice e si ripete che Giovanni XXIII volle rinnovare, capovolgendole, le basi stesse della vita della Chiesa cattolica, attraverso l’opera del Concilio Vaticano II (quel concilio che egli desiderava chiudere in due mesi!); domani, che cosa mai non si riuscirà a far dire ai papi, ai capi di governo, agli esponenti della cultura?


Il vero pensiero di Giovanni XXIII  su messa in latino, don Milani, Teilhard e preti-operai

di Francesco Lamendola

Francesco Lamendola

di quando Paolo VI ruppe la diga di contenimento degli abusi liturgici

Parrocchia di Ognissanti, Roma, 7 marzo 1965: papa Paolo VI propugna la riforma liturgica celebrando per la prima volta col Messale provvisorio (non era la Novus Ordo: infatti solo la prima parte - la liturgia della Parola - era in italiano) pubblicato quello stesso mese:


La Novus Ordo fu costruita successivamente; la prima celebrazione di quest'ultima, per i soli padri a porte chiuse, avvenne nel 1967 ed esclusivamente in latino.

Nella stessa Messa, ecco Paolo VI che distribuisce la Comunione e i fedeli la ricevono "in piedi"; non c'è più nemmeno la balaustra:


La scena doveva essere sicuramente di grande impatto.

Fino a quel momento nelle Messe celebrate dal Papa, infatti, il Papa non distribuiva mai l'Eucarestia. Inoltre col Messale tradizionale, la cui ultima edizione era di appena tre anni prima (1962), vigeva ancora l'obbligo della Comunione in ginocchio.

"Se il Papa spazza via le norme liturgiche, allora possiamo spazzarle via anche noi", si saranno detti tutti quelli che erano stufi della liturgia cattolica.

http://letturine.blogspot.de/2015/11/di-quando-paolo-vi-ruppe-la-diga-di.html

La persuasione dopo la rettorica. Un sacerdote testimone delle grazie del Summorum Pontificum di Benedetto XVI

Quasi come conferma di quanto recentemente annotato nella chiosa alla Lettera ai conservatori perplessi di Radio Spada (quiriprendiamo da Chiesa e postconcilio (qui) la preziosa testimonianza di un sacerdote cattolico, uno tra i molti in tutto il mondo, giunto alvetus Ordo grazie al Motu Proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI. Di fronte a queste parole viene da ripetere con Sant'Agostino di Ippona: "Securus judicat orbis terrarum".

Alla Pontificia Università Gregoriana il prof di liturgia ha sempre insegnato che il "prima della chiesa era qualcosa di incomprensibile e inutile. Qualcosa da cambiare". Tutto questo sdegno mi ha spinto a cercare cosa c'era... Tante cose è stato un bene lasciarle, altre un grosso male. Oggi ricorre il mio primo anniversario che, seguendo le indicazioni del Sommo Pontefice Benedetto XVI nelSummorum Pontificum, mi sono accostato all'altare del Dio della mia giovinezza.
Ho trovato una ricchezza incommensurabile nel Rito Romano ante riforma; ho letto e scoperto il vero senso del sacerdozio che, come insegna il Concilio Vaticano II, è differente dal sacerdozio battesimale per gradi ed essenza (LG 10), e si pone come un ponte che dona agli uomini la grazia di Dio e a Dio porta le preghiere del popolo. Ho scoperto il senso del sacro e la potenza della Messa come ripresentazione viva ed efficace della Croce di Cristo Signore. Che meraviglia e che gran dono!
Non ho trovato ostacoli tra la gente comune, quelli che a Messa vanno per fede, ma tra i sacerdoti, che mi hanno visto come uno da eliminare, come uno che "gioca alla messa". Ebbene, riprendendo la sapienza degli Atti degli Apostoli, chiedo: se questo rito è considerato come vecchio e noioso, incomprensibile... Perché lo temete? Perché odiate chi lo celebra? Perché gli spezzate le gambe in segreto? Se è volontà di Dio che questo venga celebrato, lasciate fare... Se è volontà umana, prima o poi passerà come tutti i capricci umani. Non fate che vi troviate a combattere contro Dio!
http://vigiliaealexandrinae.blogspot.it/2015/11/la-persuasione-dopo-la-rettorica-un.html

Contro il veto del Vescovo, funerali tradizionali per un prete


Mons. Stephan Ackermann, Vescovo di Treviri, in Germania, ha avuto l’ardire di vietare che il funerale di un suo prete venisse celebrato nella forma straordinaria, nonostante fosse stato esplicitamente richiesto dal defunto. Ma la notizia, immediatamente diffusa dal blog Rorate Caeli e daGloria.tv, ha sollevato tali e tante proteste da parte di sacerdoti, tra cui anche molti Vescovi, di tutto il mondo, da convincere il prelato a recedere dallo sconcertante rifiuto, affidando a Padre Andre Hahn, della Fraternità sacerdotale di San Pietro, la celebrazione, venerdì 13 novembre, di una S. Messa tradizionale da Requiem.

Don Adolf Mohr, di Rheinböllen, è morto venerdì scorso di cancro. Aveva 86 anni. Da quando si era ritirato per raggiunti limiti di età, aveva ripreso a celebrare nel rito tridentino, come faceva da giovane. Con grande beneficio spirituale per la sua anima e per quella dei fedeli, che assistevano alle sue S.Messe.
Nel suo testamento aveva pertanto espresso il desiderio esplicito che le sue esequie si tenessero nella stessa forma. Il suo parroco gli aveva personalmente garantito – e per iscritto – che tale richiesta sarebbe stata rispettata. Niente da fare. Il Vescovo della sua Diocesi vi ha opposto un rifiuto fermo e definitivo. Definitivo, almeno inizialmente. Ma non aveva tenuto conto della reazione popolare. Così, benché avesse già stabilito che la celebrazione avvenisse Novus Ordo, ha dovuto, obtorto collo, far marcia indietro.
Mons. Ackermann (nella foto, durante una cerimonia in cui riceve il “rinnovo del battesimo” da una “pastora” luterana) non è nuovo a prese di posizione decisamente sopra le righe, prevedibilmente sempre nel senso di un progressismo spinto: nel febbraio dell’anno scorso fece scalpore una sua intervista al quotidiano Allgemeine Zeitung, in cui già prefigurava molte delle affermazioni più eterodosse risuonate poi all’ultimo Sinodo. Ad esempio, sui rapporti prematrimoniali, per i quali suggeriva di «elaborare criteri per i quali in questo o quest’altro caso concreto siano giustificabili»; sulla contraccezione definì «artificiosa» la distinzione tra quella «naturale e non. Temo che nessuno la capisca più», come se il criterio interpretativo fosse questo; sull’iscrizione delle coppie gay in un apposito registro, che a suo giudizio sarebbe equivalente ad un’«assunzione di responsabilità», da «non ignorare»; sul celibato dei preti, che ci tenne a sottolineare come non avesse mai rappresentato canonicamente «un dogma»; e via demolendo. Al punto da giunger ad attaccare pubblicamente in un’altra intervista, questa volta al Trierische Volksfreund, il Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il card. Gerhard Müller, “colpevole” di aver ribadito la Dottrina della Chiesa in fatto di divorziati risposati; secondo mons. Ackermann lui non avrebbe avuto la facoltà di chiudere la questione per via autoritativa, dovendosi «tener conto con maggior impegno ed onestà della realtà concreta, che vivono molte coppie e famiglie».
Ed ora questo nuovo, inqualificabile rifiuto opposto alla volontà chiaramente espressa da un suo prete defunto; benché questa volta abbia dovuto piegare il capo e tornare sui propri passi, di fronte alla stizzita reazione di confratelli e fedeli ormai esasperati dai “capricciosi” abusi di certi loro pastori (M. F.).








22:08

VIDEO. Testimonianza di un sacerdote sulla rivoluzione operata nel post Concilio.

6 commenti:

  1. Ma sto Lamendola ci è o ci fa???

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Né l'uno né l'altro, credo.
      Forse vuol dimostrare che "la lettera" in sé non basta, come forse speravano i tanti padri cpnciliari che la firmarono, ma che i giochi si facevano intorno..
      Certo non è solo un problema di "lettera" sulla quale poi han barato tanti, ma del piano complessivo, come ha poi attuato Montini & c.
      Per questo motivo ho aggiunto il secondo articolo e fatto un titolo diverso.

      Elimina
  2. Prossimo deliri, pardon articoli:
    "Le vere intenzioni della Massoneria": "Siamo amici della Chiesa, tra noi dialogo possibile ed auspicabile infatti accogliamo anche fratelli cattolici"
    "Le vere intenzioni di Satana: "Ero in buona fede, volevo solo che diventaste come Dio"
    "Le vere intenzioni del Comunismo": "Siamo dalla parte dei poveri e aborriamo la guerra!"
    "Le vere intenzioni dei Musulmani": "Siamo moderati, se mai dovessimo dovervi decapitare lo faremmo in modo che sentiate il meno dolore possibile"
    "Le vere intenzioni di Paolo VI": "Il fumo di Satana è entrato nel tempio di Dio, quando gli ho aperto la porta sembrava una così brava persona!"
    "Le vere intenzioni del Lupo nella favola di Cappuccetto Rosso": "Vieni cara, la nonna stava tanto male per questo l'ho divorata per alleviarle il dolore!"
    "Le vere intenzioni di Hitler": "Non ho idea di come possa essere accaduto, io avevo chiesto delle docce per bagni".......

    RispondiElimina
  3. http://vaticanocattolico.com/anti-papa-giovanni-xxiii/#.VkaRRJWFPIU

    RispondiElimina
  4. Roncalli fu iniziato in Loggia in Turchia, già prima era legato agli ambientini del modernismo (il nume tutelare Radini Tedeschi dice nulla, Lamendola? Magari a te no, ma ad altri sì...),basti pensare all'uso del Duchêne in didattica, Roncalli era già marcio a vent'annivent'anni figuriamoci a settanta.

    RispondiElimina

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.