Le difficoltà dei cardinali Pell, Burke e Sarah: assenza di esperienza e difetto di dottrina
Dopo la fine del Sinodo ordinario, nell’ottobre scorso, abbiamo letto una serie di interventi, interviste e dichiarazioni di cardinali nelle quali suonano con particolare forza una serie di “argomenti” che potremmo riassumere in tre punti:
- Il Sinodo ha confermato la dottrina “di sempre” sul matrimonio
- In seguito al Sinodo non ci saranno aperture agli “irregolari” diverse da quelle previste da Familiaris Consortio;
- Le “porte” non potranno essere aperte, perché non possono esistere “porte” in questo campo.
In modi, tempi e toni diversi, questi sono i contenuti che soprattutto tre cardinali (Pell, Burke e Sarah) hanno ripetuto con insistenza e con forza, non senza la “sponda” di altri cardinali (ad es. Ruini, Ouellet, De Paolis…).
Una valutazione spassionata dei loro interventi mostra, accanto a una certa paura, che sembra trapelare dalle loro parole, una duplice grave difficoltà, che compromette il giudizio che esprimono non soltanto sul Sinodo, ma sul rapporto Chiesa-mondo e sulla eredità del Concilio Vaticano II nella Chiesa di 50 anni dopo.
Io vorrei identificare queste “difficoltà” sia sul piano di una assenza di esperienza, sia sul piano di un difetto di dottrina. Provo a spiegarmi.
a) Una assenza di esperienza
La prima difficoltà consiste, essenzialmente, nel parlare di ciò che si conosce sono “genericamente”. Una delle questioni che il Sinodo ha ripreso in modo più efficace, lungo tutto il suo percorso di svolgimento biennale, è stato il bisogno di maturare una prospettiva adeguata di rapporto con il “mondo delle famiglie”, che non può essere ridotto a stereotipi, tanto più se in gioco vi sono complesse problematiche di vita, di abbandoni, di nuovi legami, di generazioni, di educazione, di speranze…Affrontare questo mondo vuol dire anzitutto “farne esperienza” in modo corretto. Nelle parole di Pell, Burke, e Sarah appare con chiarezza una radicale indisponibilità a mettere in discussione un approccio astratto, generico e pregiudizievole al mondo familiare. E questo è il primo lato della loro difficoltà.
b) Un difetto di dottrina
La seconda difficoltà, che consegue dalla prima, ma che ne è anche una causa, è una comprensione inadeguata della “dottrina” sul matrimonio. Se riduciamo la “dottrina cattolica sul matrimonio” a una serie di “obblighi” o di “divieti”, trasformiamo il pane della dottrina in “pietre”. E’ stato il successore di Pietro a ricordarci il rischio di ridurre tutto a “pietre”. Una comprensione dottrinale adeguata opera una accurata mediazione tra “Parola di Dio” e “esperienza”. Nelle parole di Pell, Burke e Sarah sentiamo invece una ostinata riduzione della dottrina alla difesa di una disciplina che storicamente non è più adeguata alle forme di vita di buona parte della esperienza ecclesiale. Per questi cardinali la Chiesa non ha margine di manovra visto che il “peccato è per sempre”, esattamente come e anche più del vincolo. Dietro le loro parole indignate si vede bene il permanere di una comprensione del “peccato” e del “vincolo” che non discende dalla “parola di Dio”, ma da una comprensione metafisica e giuridica obiettivamente superate. E superate già nel 1981 dalle parole di Giovanni Paolo II inFamiliaris Consortio, quando diceva che “i divorziati risposati non si devono considerare separati dalla Chiesa”. Questo è stato un passaggio epocale, che richiede alla Chiesa cattolica di oggi una proposta della dottrina del matrimonio capace di tener conto di questa novità. Per farlo occorre uscire da una lettura del “peccato” e del “vincolo” che perpetuerebbe semplicemente la “scomunica ecclesiale” degli irregolari.
Vi è dunque in Pell, Burke e Sarah non solo un difetto di esperienza, ma anche un difetto di dottrina. Con una esperienza limitata delle forme di vita possono accontentarsi di una dottrina vecchia; ma con una formulazione dottrinale vecchia “possono vedere” soltanto una parte della realtà e trascurarne un’altra. Le difficoltà di cui Pell, Burke e Sarah sono vittime chiedono un lavoro coraggioso di riflessione ai teologi. Se Pell, Burke e Sarah avessero letto, solo a titolo di esempio, i lavori di Vesco (che è anche loro confratello vescovo) , Angelini, Schockenhoff, Petrà, Huenermann e di tanti altri teologi che hanno scritto cose di valore negli ultimi due anni sul tema, si sarebbero dotati di strumenti di comprensione più adeguati e potrebbero fare oggi una esperienza più ampia e più vera della vita delle famiglie reali, sia di quelle felici, sia di quelle infelici, sia di quelle classiche, sia di quelle allargate. Senza essere costretti a condannare tutto ciò che non entra nelle loro categorie astratte e anguste.
Credo che la Chiesa tutta debba aiutare questi cardinali a superare le loro difficoltà di esperienza e di dottrina.
Settimo Cielo e www.chiesa hanno dato una grande pubblicità all'articolo con cui padre Antonio Spadaro ha tirato le conclusioni dal sinodo sulla famiglia, "aprendo" alla comunione ai divorziati risposati. Conclusioni sue ma anche timbrate da papa Francesco, come avviene per ogni articolo strategico de "La Civiltà Cattolica", ormai divenuta "house organ" di Santa Marta:
Sta di fatto che da quando quel suo articolo è uscito, Spadaro ha ricevuto parecchie cannonate contro, e autorevoli. Dalle quali nemmeno papa Francesco potrà ritenersi al riparo, se nelle conclusioni che trarrà dal sinodo dirà le stesse cose anticipate dal suo confratello de "La Civiltà Cattolica".
Una prima bordata contro l'esegesi "aperturista" che Spadaro ha fatto del sinodo è apparsa su www.chiesa per la penna del teologo di New York Robert P. Imbelli, autorevole firma de "L'Osservatore Romano":
> Il sinodo ha perso la strada, ma c'è la bussola del gesuita
> Il sinodo ha perso la strada, ma c'è la bussola del gesuita
Poi però sono entrati in campo contro Spadaro anche due cardinali tra i più competenti in materia di matrimonio canonico e di eucaristia: lo statunitense Raymond L. Burke, già presidente del supremo tribunale della segnatura apostolica, e il guineano Robert Sarah, prefetto della congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti.
Il cardinale Burke ha confutato le posizioni di Spadaro in una nota apparsa sulNational Catholic Register e qui tradotta in italiano nei suoi passaggi principali:
Mentre il cardinale Sarah ha criticato il direttore de "La Civiltà Cattolica" all'interno di un'ampia intervista raccolta da Armin Schwibach, professore di filosofia al Pontificio Ateneo 'Regina Apostolorum' di Roma, per l'agenzia austriaca Kath.net:
> La verità del matrimonio e la porta della conversione
> La verità del matrimonio e la porta della conversione
Più sotto è riportato il passaggio "ad hoc" dell'intervista di Sarah.
Ma prima è utile segnalare che altri due cardinali di primo piano sono intervenuti contro l'esegesi del sinodo fatta da Spadaro, pur senza citarlo espressamente.
Uno è il cardinale sudafricano Wilfrid Napier, anche lui in un'intervista a Kath.net:
E l'altro è il cardinale australiano George Pell, prefetto della segreteria per l'economia della Santa Sede, in un'omelia nella basilica romana di san Clemente, nel giorno della sua festa liturgica, il 23 novembre.
Ecco la conclusione dell'omelia di Pell:
"Alcuni hanno voluto dire, sul recente sinodo, che la Chiesa è confusa e confusionaria nel suo insegnamento sulla questione del matrimonio. Non è questo il caso. La dottrina della Chiesa su sessualità, matrimonio e famiglia continua ad essere basata sul l'insegnamento proprio di Gesù circa l'adulterio e il divorzio. L'insegnamento di san Paolo sulle disposizioni adeguate per ricevere la comunione resta fondamentale sulla controversa questione dell’impossibilità di dare la comunione anche ai divorziati civilmente sposati.
"Una tale 'possibilità' non è nemmeno citata nel documento sinodale. Ora attendiamo l'esortazione apostolica del Santo Padre, che esprimerà ancora una volta la tradizione essenziale della Chiesa e sottolineerà che l'appello al discernimento e al foro interno può essere utilizzato solo per comprendere meglio la volontà di Dio, come insegnato nelle Scritture e dal magistero, e non può mai essere utilizzato per disprezzare, distorcere o confutare l'insegnamento stabilito dalla Chiesa.
"Preghiamo questa sera per il nostro Santo Padre Francesco, che, come san Clemente, prepari questo insegnamento per chiarire ai fedeli cosa significa seguire il Signore, nella sua Chiesa, nel nostro mondo. Preghiamo in questa festa di San Clemente per papa Francesco, affinché continui ad insegnare e a esortarci nel seguire le verità della fede, che sono sempre più forti di un arido laicismo orizzontale".
Sarah, Napier e Pell sono tre dei firmatari della famosa "lettera dei tredici cardinali" consegnata al papa all'inizio del sinodo. Tutti e tre sono stati eletti a pieni voti nel consiglio di cardinali e vescovi che farà da ponte fino al prossimo sinodo. E tutti e tre sono stati promossi a ruoli importanti dallo stesso papa Francesco: Sarah come prefetto della congregazione per il culto divino, Pell come prefetto della segreteria per l'economia e Napier come copresidente delegato del sinodo sulla famiglia.
Tutti e tre dicono apertamente di aspettare da papa Francesco, riguardo ai temi discussi nel sinodo, una parola chiara e in piena continuità con il precedente magistero della Chiesa.
Ed ecco il botta e risposta del cardinale Sarah riguardo all'articolo di padre Spadaro.
*
D. – Nel suo libro “Dio o niente” lei afferma: “Il divorzio è un’offesa grave alla legge naturale e un’ingiuria all’alleanza di salvezza di cui il matrimonio è il segno”. Uno dei temi che negli anni 2014 e 2015 ha occupato tanti cattolici e molti media secolari sono stati i due sinodi sulla famiglia, durante i quali all’opinione pubblica è stato presentato innanzitutto il problema dei sacramenti per i divorziati risposati.
Secondo lei, per quale ragione si metteva in risalto in maniera così accentuata un tema che mette in pericolo il fondamento dell’intera dottrina cattolica, benché questo secondo le statistiche riguardi soltanto un’esigua minoranza di fedeli?
R. – Perché purtroppo, oggi anche nella Chiesa e tra molti sacerdoti, vescovi e cardinali, si ritiene che per andare incontro ai problemi del mondo ci si debba adeguare ad esso, ignorando la parola senza ambiguità di Gesù sull’indissolubilità del matrimonio e staccando, per misericordia, la pastorale dalla dottrina. E lo si fa per comodità, per non rischiare, per non apparire politicamente scorretti. Questo si chiama mondanità, che è quanto di peggio possa colpire i cristiani, laici o consacrati, ed è il pericolo a cui ci richiama sempre papa Francesco. Consiglio a tutti una bella lettura, il romanzo “Il potere e la gloria” di Graham Greene, per verificare quanto dico. Eppure proprio Gesù ci ha chiesto di essere “nel” mondo, non “del” mondo (Gv 15, 18-21). Oggi anziché affermare la bellezza di un sacramento come il matrimonio, la sua apertura alla vita, l’essere base della società di domani, ci incartiamo sulle cose che non funzionano.
È come se io dicessi che è meglio non costruire una casa per paura del terremoto, pur avendo gli strumenti per prevenirlo e per rendere quella casa più solida. È lo stesso nel matrimonio, che Gesù ha donato all’uomo e alla donna come unione indissolubile con lui. Siamo così terrorizzati dall’avere Dio nella nostra vita, che preferiamo “ucciderlo” per governare tutto da noi stessi, con risultati sconfortanti, come si vede. Purtroppo la cultura positivista ci ha inculcato solamente i criteri dell’opportunità e dell’efficienza, per cui una cosa si fa solo se e finché è utile, e questa utilità è applicata purtroppo anche ai rapporti umani e ai sacramenti. Dall’altro lato un diffuso “umanesimo senza Dio” ci ha inoculato il morbo del sentimentalismo, per cui una cosa va avanti solo finché è sopportabile e finché siamo pervasi dall’afflato dell’emozione e della passione. Passate queste circostanze l’alleanza si può rompere: e non importa che rompendola, noi mettiamo Dio fuori da casa nostra. Ma è uno scandalo che ragioniamo così! Il cristiano ha come proprio riferimento la Croce, che non vuol dire solo la sofferenza, ma il contrario: il dono di sé nell’amore fino alla fine, perché solo questo salva. È chiaro che il Vangelo è esigente: Gesù ci chiede tutto, ma allo stesso tempo ci offre tutto. Ci può essere una realtà più bella di questa?
Invece oggi ci siamo persuasi del fatto che gli uomini non puntino più alle cose alte e durature. E allora, anche nella Chiesa, per comodità e per paura, preferiamo educarli al contingente. E qui veniamo a un altro punto chiave: l’educazione. La Chiesa deve educare alla bellezza e alla scoperta del proprio percorso battesimale, non all’accettazione del male e del peccato. Questo non significa sottovalutare la crisi antropologica in atto. Esattamente il contrario, anzi io dico: e se questo deserto fosse oggi una grazia da sfruttare per tornare ad annunciare Dio e il Vangelo?
D. – In un articolo de “La Civiltà Cattolica” il suo direttore Antonio Spadaro parla in maniera esplicita di una “porta aperta” per l’eucaristia ai divorziati risposati. Il gesuita scrive: “Sarà sempre dovere del pastore trovare un cammino che corrisponda alla verità e alla vita delle persone che egli accompagna, senza poter forse spiegare a tutti perché essi assumano una decisione piuttosto che un’altra. La Chiesa è sacramento di salvezza. Ci sono molti percorsi e molte dimensioni da esplorare a favore della ‘salus animarum’. Circa l’accesso ai sacramenti, il sinodo ordinario ne ha dunque effettivamente posto le basi, aprendo una porta che invece nel sinodo precedente era rimasta chiusa”.
In quanto padre sinodale che conosce i controversi paragrafi 84-86 della “Relatio synodi”: come giudica queste affermazioni di un altro membro del sinodo che interpreta in questo modo i risultati? Il discorso di “aprire una porta” non equivale a un sempre negato “cambiamento” della dottrina sull’indissolubilità del matrimonio, che è impossibile? Affermazioni del genere non aumentano incertezze e perplessità tra i fedeli, come si sono verificate in maniera particolarmente sensibile durante questi due anni?
R. – Il Sinodo ha voluto aiutare e accompagnare questi battezzati che si trovano in una situazione di vita contraria alle parole di Gesù. E ha annunciato che la porta per loro è sempre aperta, in quanto Dio continua a chiamare alla conversione e ad agire nel loro cuore per rigenerare il loro desiderio verso la vita piena che Gesù ci ha annunciato.
Certamente, proporre delle strade che non conducano a questa vita piena non è "aprire le porte". La porta che Dio apre ci conduce sempre a lui, alla sua dimora in cui possiamo vivere la sua vita. Il peccato chiude la porta della vita. Ammettere una persona alla comunione eucaristica quando vive in manifesta contraddizione con le parole di Gesù significa aprire una porta che non conduce verso Cristo, ovvero chiudere la vera porta della vita. Ricordiamo: la porta è Gesù, la Chiesa può solo aprire questa porta; il pastore che non vuole entrare per questa porta, diceva Gesù stesso, non è un vero pastore. Perché “chi non entra nel recinto delle pecore per la porta, ma vi sale da un'altra parte, è un ladro ed un brigante. Chi invece entra per la porta, è il pastore delle pecore... In verità, in verità vi dico: io sono la porta delle pecore” (Gv 10, 1-2. 7).
Il documento del sinodo (nn. 84-86) non dice altro, e il testo scritto è l’unico sicuro per interpretare rettamente ciò che il ainodo ha voluto dire. Il documento parla del dovere del pastore di accompagnare le persone sotto la guida del vescovo, ma aggiunge anche, e questo è molto importante, che l’accompagnamento deve avvenire “secondo l’insegnamento della Chiesa”. Questo insegnamento include senz’altro la lettura non adulterata, ma completa e fedele della "Familiaris consortio" n. 84 e di "Sacramentum caritatis" n. 29, insieme al Catechismo della Chiesa Cattolica. L’accompagnamento, che terrà conto delle circostanze concrete, ha una meta comune: condurre la persona a una vita in accordo con la vita e la parola di Gesù; e alla fine del cammino la decisione di abbandonare la nuova unione o di vivere in assoluta continenza in essa. Rinunciare a questa meta è rinunciare anche al cammino.
È vero che il testo non ripete esplicitamente questo insegnamento, e in questo senso è stato interpretato in diversi modi dalla stampa. Ma è un interpretazione abusiva, ingannatrice, che ne deforma il significato. Il testo non parla mai di concedere l’eucaristia a chi continua a vivere in modo manifestamente contrario ad essa. Se ci sono dei silenzi, essi devono essere interpretati secondo l’ermeneutica cattolica, vale a dire alla luce del magistero precedente e costante, un magistero che il testo mai nega. In altre parole, ai divorziati risposati civilmente la porta alla comunione eucaristica rimane chiusa da Gesù stesso che ha detto: “Chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di concubinato, e ne sposa un’altra, commette adulterio. Perciò l’uomo non separi ciò che Dio ha unito” (Mt 19, 6. 9). È chiusa da "Familiaris consortio" n. 84, da "Sacramentum caritatis" n. 29 e dal Catechismo della Chiesa cattolica. Sfondare questa porta o arrampicarsi da qualche altra parte significa riscrivere un altro vangelo ed opporsi a Gesù Cristo Nostro Signore. Sono sicurissimo che papa Francesco interpreta i numeri 84-86 della “Relatio synodi” in perfetta continuità e fedeltà ai suoi predecessori. Infatti in un intervista al quotidiano argentino “La Nación” ha affermato: “Che facciamo con loro, che porta si può aprire? C’è un’inquietudine pastorale: e allora andiamo a dare loro la comunione? Non è una soluzione dare loro la comunione. Questo soltanto non è la soluzione, la soluzione è l’integrazione”.
È vero che ci sono “molti percorsi e dimensioni da esplorare”, come segnala padre Spadaro. Vorrei solo aggiungere che questi sono percorsi verso una meta, e questa meta per la Chiesa può essere solo una: portare la persona a Gesù, mettere la vita in sintonia con Gesù e con il suo insegnamento sull’amore umano e coniugale. L’accesso all’eucaristia, che è la comunione con il corpo di Gesù, è aperto per tutti coloro che sono pronti a vivere nel loro corpo secondo la parola di Gesù. Se la Chiesa apre la porta verso un'altra meta, verso un altro luogo, allora questa non è la porta della misericordia. Allora si tratterebbe di un vero cambiamento della dottrina, perché ogni dottrina, come quella sull’indissolubilità del matrimonio, è confessata in primo luogo dove l'eucaristia è celebrata. Quando un cristiano dice “Amen” nel ricevere l’eucarestia, egli afferma, non solo che l’eucaristia è il corpo di Gesù, ma anche che vuole conformare a lui la sua vita nel corpo, conformare a Gesù le sue relazioni, perché crede che la parola di Gesù è parola di vera vita.
Questo significa che c’è un cammino, che c’è una speranza anche per chi vive lontano, e questo il sinodo ha voluto ribadirlo. Se queste persone non si sentono pronte a vivere secondo la parola di Gesù, allora è compito della Chiesa ricordare loro, con pazienza, delicatezza, misericordia, che appartengono alla Chiesa, che sono figli di Dio. È compito della Chiesa accompagnarle perché si possano avvicinare a Gesù in tanti modi, partecipando alla celebrazione liturgica, contribuendo alle opere di carità e di misericordia, alla missione della Chiesa... Una volta che sono più vicine a Gesù, potranno capire meglio le sue parole, potranno essere convinte della forza di Dio nella loro vita che rende possibile la conversione, l’abbandono del peccato e la rottura totale con esso.
Certo, l’accompagnamento si fa caso per caso, come anche si fa caso per caso la preparazione al matrimonio. Ma questo non vuol dire che a quelli che si preparano al matrimonio la Chiesa offra diversi tipi di matrimonio, di varia durata secondo i casi individuali. Il matrimonio a cui si preparano è sempre lo stesso, come è sempre la stessa la meta per i divorziati risposati. Ed è così perché viviamo in comune, non siamo monadi, condividiamo la stessa chiamata alla santità e una stessa vocazione all’amore, quella appunto che è contenuta nel matrimonio monogamico, stabile e indissolubile.
D. – Secondo lei, almeno per quanto è stato presentato dai media, il sinodo è stato troppo determinato da temi europei o tedeschi? Come ha percepito i punti di vista in parte molto eurocentrici e in che cosa vede la possibilità di evitare una riduzione unilaterale della discussione?
R. – Senza voler offendere nessuno, si potrebbe parlare di una presentazione eurocentrica da parte dell’"Istrumentum laboris" e di certi media, non solo perché si sono scelti determinati temi che preoccupano più in Occidente (come la comunione ai divorziati in nuova unione civile), ma soprattutto per una insistenza eccessiva sull’individuo e sulla coscienza soggettiva. Il pericolo di eurocentrismo, in questo senso, vuole dire il pericolo di adeguarsi in modo eccessivo alla prospettiva della modernità o della postmodernità senza Dio, che ormai è globalizzata e che in tanti modi, come ha denunciato papa Francesco nel suo viaggio nelle Filippine, significa per gli altri paesi un “colonialismo ideologico”.
Secondo questa prospettiva “eurocentrica” la famiglia è vista come una realtà privatizzata, misurata solo secondo il desiderio di un soggetto individualista, che riduce l’amore a una emozione. Dare una risposta ai problemi della famiglia da questo punto di vista consisterebbe, come si è fatto, nel sottolineare il primato di una coscienza autonoma, di un soggettivismo della coscienza, che decide da sé. Ecco perché un punto di vista troppo eurocentrico vuole ad ogni costo giustificare situazioni che sono contrarie alla verità del matrimonio, come il concubinato o la convivenza o il matrimonio civile, e vederli come una strada verso la pienezza, invece di riconoscere il male che fanno alla persona, perché possiedono una logica contraria al vero amore. Inoltre, questo sguardo tende a contrapporre l’amore e la verità, la dottrina e la pastorale, secondo un punto di vista dualista che è proprio anche del pensiero postmoderno.
Penso che il sinodo abbia voluto proprio abbandonare questo punto di vista. È proprio nelle altre culture, che sono nelle periferie, che si possono vedere luci nuove per la famiglia, una visione della famiglia al centro della società e della Chiesa. La società e la Chiesa non sono formate da individui, ma da famiglie, da cellule di comunione viva. Questo corrisponde con una visione per così dire “familiare” dell’uomo, che non è coscienza isolata ma vive ricevendo tutto da altri e d è chiamato a donarsi ad altri. Nasce così una fiducia maggiore che l’amore di Dio è capace di rigenerare il cuore delle persone. Si capisce anche meglio che la luce della dottrina è unita alla pratica vitale e al rito liturgico: non è una luce solo teoretica, come l’ha concepita un certo dualismo moderno. Ma questo, in realtà corrisponde al vero pensiero europeo, che ha radici cristiane che l’Europa è chiamata a recuperare, se vuole sopravvivere.
Settimo Cielo
Gänswein: il libro del cardinale Sarah "Dio o niente", un radicale sospiro di felicità
Da sinistra: il cardinale Sarah, l'arcivescovo Fisichella e l'arcivescovo Gänswein Foto: Gianluca Gangemi / CNA |
CITTÀ DEL VATICANO , 03 dicembre, 2015 / 10:00 AM (ACI Stampa).-
“Questo libro non è né un manifesto, né uno scritto polemico. È una guida per giungere a Dio che, in Gesù Cristo, ha mostrato il suo volto umano. È un vademecum per l’Anno Santo che sta per iniziare.”
Il Libro è “ Dio o niente” del cardinale Robert Sarah, e la frase è di Georg Gänswein, Prefetto della Casa Pontificia e segretario di Benedetto XVI.
Lo scritto del cardinale africano è ormai un best seller in diverse nazioni, le traduzioni si moltiplicano e gli eventi in cui il libro è protagonista sono delle vere occasioni di riflessione per quella parte degli intellettuali cattolici alla ricerca di stimoli intellettuali che arricchiscano la fede senza perdere di vista la realtà.
Lo scorso 20 novembre uni di questi eventi si è svolto al Pontificio istituto teutonico di Santa Maria dell’ Anima a Roma. Tra i relatori il cardinale Pell, l’arcivescovo Fisichella e proprio l’arcivescovo Gänswein che ha proposto una lettura del libro decisamente originale con un ritorno “alle radici”, al rapporto tra Chiesa e sfide della Storia, alla lettera di Papa Gelasio I inviata all’ imperatore di Costantinopoli, una lettera in cui il Papa, africano, in una Roma devastata dalle stirpi germaniche,
“metteva sullo stesso piano potere spirituale e potere temporale. Non avrebbe dovuto esserci alcun potere totale. A partire da Dio, Papa e imperatore – per il bene di tutti gli uomini ! – venivano pensati come partner.”
Ma Gelasio, spiega Gänswein, andava oltre: “aggiunse che, per diritto divino, l’imperatore di Costantinopoli a lui, al successore di Pietro, era comunque un poco subordinato. Infatti, non dovevano forse gli stessi sovrani assoluti ricevere umilmente i sacramenti dalle mani di ogni sacerdote? Quanto più, allora, l’imperatore aveva il dovere di mostrare umiltà verso il Papa, la cui sede episcopale sovrasta ogni altra?
Era una pretesa enorme. E così non c’è da meravigliarsi se in quel momento l’imperatore bizantino reagì facendo spallucce.
E tuttavia la “dottrina delle due spade” – così che da quel momento in poi si chiamò la pretesa di Gelasio basata sulla sua lettera – per circa seicento anni caratterizzò il rapporto tra Chiesa e stato.”
In pratica però “il Papa inerme – inaspettatamente e impavidamente – negò al più potente signore della terra il diritto di regnare anche sulle anime dei suoi sudditi” così “la Chiesa romana andò costituendosi come la decisiva forza ordinatrice dell’Occidente.”
Anche da questo parte la visione della Chiesa nella storia del cardinale Sarah secondo Gänswein.
E oggi il cardinale africano, come Papa Gelasio, “vede come oggi di nuovo molti stati, con tutto il potere e la forza, pretendono di disporre anche di quel “potere spirituale” che un tempo la Chiesa, in un lungo processo e per il bene dell’intera società, gli aveva sottratto.
Perché se oggi gli stati dell’Occidente, seguendo la regia di gruppi di pressione che agiscono a livello globale, vogliono progressivamente scardinare il diritto naturale e pretendono essi stessi di decidere sulla natura dell’uomo – come dimostrano i programmi assolutamente ideologici del gender-mainstreaming –, se le cose stanno così, allora non si tratta solo di una fatale ricaduta nel dominio dell’arbitrio, si è in presenza soprattutto di una nuova forma di assoggettamento a quella tentazione totalitaria che sempre, come un’ombra, ha accompagnato la nostra storia.”
In “Dio o niente” il cardinale insite proprio “che la Chiesa non soccomba di fronte allo spirito dei tempi, anche se questo spirito si mimetizza e si traveste da scienza, come già accadde con il marxismo e il razzismo.
E anche mai più dovrà esserci il potere totale di una qualsivoglia istituzione. E tale potere totale non spetta né allo stato, né allo spirito di tempi, e naturalmente nemmeno alla Chiesa. A Cesare, quel che è di Cesare. Assolutamente. Ma a Dio quel che è di Dio! Il Cardinal Sarah oggi tiene ferma questa distinzione, da solo, schietto e impavido”.
Il libro diventa così davvero “radicale” aggiunge l’arcivescovo “nel senso etimologico della parola: radix in latino significa “radice”; ed è proprio alle radici, alle radici della nostra fede che ci riconduce questo libro. È la radicalità del Vangelo che lo ispira. L’Autore è persuaso che “uno dei compiti più importanti della Chiesa consiste nel far riscoprire all’Occidente il volto radioso di Gesù”.” Così, prosegue Gänswein, Sarah “ci apre gli occhi sul fatto che le nuove forme di ateismo e d’indifferenza verso Dio non sono semplicemente trascurabili strade sbagliate nell’ambito del pensiero. Nelle profonde trasformazioni morali delle nostre società egli scorge una minaccia mortale per la stessa civiltà umana.”
Ecco che allora la visione di Sarah si fa profeticaperché “quel Vangelo che un tempo ha trasformato le culture oggi rischia di essere esso stesso trasformato dalle così dette “realtà della vita”. Per duemila anni la Chiesa con la forza del Vangelo ha civilizzato il mondo. L’inverso non funzionerà. La rivelazione non deve essere adattata al mondo. Il mondo vuole fagocitare Dio, ma Dio vuole guadagnare noi e il mondo.”
E al cardinale non interessano le “singole questioni controverse, ma la fede nella sua interezza”. Ecco perchè è un libro per l’ Anno Santo, che si apre l’8 dicembre a Roma, ma si è aperto il 29 novembre proprio nel continente di origine del cardinale Sarah: l’ Africa. “Potremo trarre da questo libro insegnamenti estremamente preziosi sull’essenza della misericordia” e questo perché, conclude Gänswein, “il cardinale Sarah è uno che ama. Ed è un uomo che qui mostra in quale opera d’arte Dio vuole trasformarci se non resistiamo alle sue mani d’artista. Il suo è un libro su Cristo. È una confessione. Dobbiamo immaginarne il titolo come fosse un sospiro di felicità: Dio o niente!”
http://www.acistampa.com/story/ganswein-sul-libro-del-cardinale-sarah-dio-o-niente-un-radicale-sospiro-di-felicita-2162
Lo spirito del mondo.
Avendo presentato in breve sintesi alcuni elementi della visione che la Chiesa ha del Matrimonio, sia dal punto di vista della ragione sia da quello della Fede, vogliamo svolgere adesso una breve trattazione sulla visione che ne ha il Mondo.
Mentre la Chiesa guarda al Matrimonio come realtà basilare e irriducibile, il Mondo guarda alla sessualità in quanto tale.
Il Mondo non si interessa al Matrimonio: ignora la sua finalità primaria che è la procreazione; ignora la sua finalità secondaria che è l’amore sponsale, se non in quanto si esprime con la sessualità. Ciò a cui il Mondo si interessa è dunque la sessualità, i suoi desideri e i suoi sentimenti, le sue emozioni e le sue azioni, da solo o con altri, indiscriminatamente secondo i dettami dei sensi.
Tra queste azioni, il Mondo ha preferenza per il rapporto extraconiugale tra l’uomo e la donna, cioè il rapporto di amore sensuale, dove tipicamente per motivi di prudenza carnale i figli sono esclusi mediante la contraccezione o l’aborto. Se, invece, i figli sono desiderati, ogni metodo artificiale per generarli viene ritenuto lecito. Tre slogan del Mondo sono: “Dio mi ha fatto così”, “l’amore parla per se stesso” e “non faccio male a nessuno”.
Questa è dunque la visione del figlio del Mondo: una visione di libertà e di piacere, una visione del fac quod vis, in una parola dell’edonismo. Dentro questo edonismo si possono distinguere due estremi: l’egoismo e l’umanesimo. L’egoista va in cerca dello sfogo senza tener conto dell’altro. L’umanista, invece, ha un certo rispetto per se stesso e per l’altro: evita l’aborto, almeno quello tardivo; cerca rapporti di più lunga durata che corrispondono ad emozioni più profonde cui preferisce dare la forma di Matrimonio civile ed eventualmente sciogliere tramite il divorzio civile; ha l’ideale della decenza, della pace dell’anima, e della ‘felicità’ che intende come può.
Ci sono tre obiezioni principali contro la visione del Mondo, che sono le tre obiezioni principali contro l’edonismo:
essa è
1.) irreale;
2.) superficiale;
3.) incoerente.
1. IrrealismoLa visione del Mondo è irreale nel senso che non si rapporta all’ordine oggettivo rivelato dalla ragione e dalla Fede. Quest’ordine, che abbiamo esposto sopra, può essere sintetizzato in modo assai breve. La ragione rivela un ordine oggettivo: un universo di cose che hanno un senso e un fine. Seguono una legge che è la legge creata da Dio. Secondo questa legge, la facoltà sessuale è creata per la procreazione come l’occhio per la visione.
La procreazione ha come conseguenza naturale, e dunque voluta da Dio, la famiglia e la conservazione del genere umano. La procreazione, in quanto voluta da Dio, è un bene; in quanto è un bene, viene accompagnato dal piacere, anzi da un gran piacere, perché è un gran bene, essendo ordinato alla conservazione del genere umano. Abusare di un gran bene è un gran male. La Fede rivela altri aspetti di quest’ordine oggettivo: per prima cosa che la natura umana è disturbata e disordinata dal Peccato originale, così che le emozioni sono difficili da controllare. Questa condizione non è creata da Dio, come pretende il Mondo, che dice ‘Dio mi ha fatto così’. La Fede rivela poi che il Matrimonio è un vincolo indissolubile e per i battezzati è segno dell’unione di Cristo alla Sua Chiesa. Il figlio del Mondo, per contrasto, ignora l’ordine oggettivo.
Per lui l’universo e la propria vita non hanno senso: hanno senso solo i suoi sentimenti e le sue emozioni. L’amore parla per se stesso: attira ad una persona, appassisce, e poi attira ad un’altra. La vita è agro dolce: la si vive come si può.
Le altre due obiezioni all’impostazione del Mondo sono la sua superficialità e la sua incoerenza. Sono aspetti del suo irrealismo, perché, se una visione è staccata dalla realtà, non può possedere nessun fondamento in re. E se non possiede un fondamento in re, non ha né profondità né alcun principio interno di coerenza.
2. SuperficialitàIl figlio del Mondo non agisce secondo i principi oggettivi che derivano dall’ordine oggettivo, bensì secondo sentimenti ed emozioni, che solo hanno senso per lui, come abbiamo appena detto. Per lui la realtà non è oggettiva, bensì soggettiva. Tratta la persona – propria o altrui – solo come oggetto del piacere (nel caso dell’edonismo egoista) o al massimo della felicità (nel caso dell’edonismo umanista). L’edonismo egoista si manifesta chiaramente nei media, che ci presentano un nuovo pantheon di dei pagani, cosmeticamente perfetti, da consumare o da cui venir consumati, in una vera consumazione del consumismo. Come modello tipico della virilità propongono il machismo, e come modello della femminilità l’essere oggetto del machismo. Il Mondo indulge, cerca la soluzione facile ed immediata: lo zucchero senza la medicina. Dietro giace l’immaturità, il rifiuto di controllarsi e di assumersi responsabilità. Il machista pretende di essere forte e accusa il vergine di essere debole, ma sotto la sua maschera di bravura si nasconde la debolezza: la cedevolezza e la mollezza che per l’uomo equivale all’effeminatezza. La visione del Mondo è superficiale: non è seria, non è degna di un uomo. Di fatti nell’ultima analisi è una visione dell’uomo come animale, perché l’animale è l’essere motivato solo da istinti e piacere.
3. Incoerenza
La visione del Mondo è logicamente incoerente, per due motivi. Il primo motivo è che il Mondo cerca di separare il piacere e la felicità dall’ordine oggettivo, dal Vero e dal Bene oggettivi, che costituiscono la loro unica autentica sorgente. Il figlio del Mondo non può dunque raggiungere la vera felicità. I suoi desideri terreni difatti, usurpando il suo desiderio esistenziale per Dio, assumono una certa infinità, tormentandolo senza tregua e senza la possibilità di soddisfazione.
Inoltre, nei momenti di lucidità, se e quando raggiunge la maturità o la vecchiaia, soffre di una coscienza inquieta, di un senso di colpa e di vergogna, di tristezza e persino di disperazione quando riflette su ciò che ha fatto da solo o con altrui e sull’influenza malsana che ha esercitato su di altri quando diceva: “Non faccio male a nessuno” nei giorni spensierati della sua giovinezza. «Sofferenza e infelicità nelle loro vie, e la via della pace non hanno conosciuta» (Sal 13,3). L’incoerenza della visione del Mondo si manifesta in particolar modo nel campo dell’aborto.
Questo peccato è una fonte profonda di sofferenza: fisica, psichica, e spirituale, anzitutto per la madre spingendola non di rado verso il suicidio ma soprattutto per l’infante affogato, avvelenato, decapitato, o mutilato nel suo grembo. L’edonista non può giustificare l’aborto pretendendo che l’infante non senta dolore (almeno all’inizio della gravidanza) poiché è logicamente impossibile accedere al mondo interno altrui. Il secondo motivo per cui la visione del figlio del Mondo è incoerente sta nel fatto che si basa su un errore. Esso consiste in questo che il mondo presente, da cui trae il suo stesso nome, è l’unico mondo, di cui si deve dunque godere come si può: «La nostra esistenza è il passare di un’ombra e non c’è ritorno alla nostra morte […] Su, godiamoci i beni presenti, facciamo uso delle creature con ardore giovanile […] non lasciamoci sfuggire il fiore della primavera» (Sap.2.1-9). Il figlio del Mondo non riconosce che c’è un altro mondo, il mondo della vera ed eterna felicità; non comprende che il mondo presente è il luogo di preparazione per esso tramite una vita buona ed onesta; e che chi vive diversamente perderà la felicità eterna, mutandola con la sofferenza eterna.
La visione della Chiesa, invece, come l’abbiamo brevemente schizzata in questo saggio, è altra. Essa rispetta l’ordine oggettivo, sia della ragione sia della Fede: è una visione realista, profonda, e coerente. La vita viene intesa come una battaglia tra il bene e il male, come una sfida al coraggio e alla responsabilità.
Questa battaglia richiede soprattutto la pratica dell’umiltà, perché il casto è umile, come il figlio del Mondo è superbo: il figlio del Mondo assolutizza i suoi desideri, si fa maestro della legge morale, e si impone sugli altri; il casto invece modera i suoi desideri, si sottomette alla legge morale, e rispetta gli altri. Chi intraprende questa battaglia con determinazione avrà la pace e la più grande felicità che sia possibile quaggiù: questa è la testimonianza di tutti i santi e di moltitudini di fedeli dall’inizio della Cristianità fino ad oggi.
E chi vincerà la battaglia erediterà la beatitudine del Paradiso. In questa visione, il modello della mascolinità è l’uomo virtuoso, come è già manifesto nella parola ‘virtù’ che deriva dal latino vir ‘uomo’. Le virtù in questione sono soprattutto il coraggio, la fortezza, la perseveranza, e la responsabilità: per sé, ma anche per la sua famiglia, se è sposato. Il modello della femminilità, invece, è la vergine e la madre. Il modello per eccellenza di ogni persona – come anche per ogni perfezione umana – è Nostro Signore Gesù Cristo; dopo di Lui, modello più insigne è la Sua Beatissima Madre. Costei è in particolare modello eccellente della donna, riunendo in sè le sue due glorie: la verginità e la maternità.
Dunque chi vive nel peccato si converta e torni alla casa del Padre; chi ha vissuto nel peccato ma si è convertito, perseveri nel bene in ispirito di profonda compunzione; e chi ha mantenuto fino ad oggi la verginità, sappia che consacrandola a Dio con un voto o una promessa solenne per darsi completamente a Lui con cuore indiviso, condurrà una vita che è un segno dell’unione di Cristo alla Sua Chiesa ancora più chiaro rispetto al Matrimonio. Acquisterà così una bellezza spirituale più luminosa di tutte le bellezze di questo mondo “come il giglio del campo – dice san Bernardo – a cui Salomone con tutta la sua gloria non era paragonabile – il giglio del campo, col capo chino alla terra nella sua umiltà”.
FONTE:Padre Konrad Loewenstein;Il Matrimonio e gli Atti contrari
http://www.stellamatutina.eu/lo-spirito-del-mondo/Povertà, carceri, aborto, islam. Ecco la misericordia di Francesco
I punti cardine sono innovativi e pieni di sorprese. Rispecchiano fedelmente la personalità (anche teologica) del Pontefice
I punti cardine sono innovativi e pieni di sorprese. Rispecchiano fedelmente la personalità (anche teologica) del Pontefice
Non sarà soltanto un caso se nel suo primo Angelus, era il 17 marzo 2013, Papa Francesco dalla sua finestra del palazzo apostolico, al termine della preghiera domenicale, abbia citato il libro Misericordia scritto dal cardinale Walter Kasper, fedelissimo di Jorge Bergoglio e insigne teologo.
Papa Francesco e Tidiani Moussa Naibi, imam di una moschea a Bangui
Forse Francesco aveva già all'epoca un'idea che gli ronzava per la testa: quella di indire, un giorno, un Giubileo straordinario della misericordia, di certo per riflettere ancora una volta su ciò che ha nel perdono di Dio il suo fondamento e per ritrovare quelle basi teologiche apprese nel suo Paese, l'Argentina, e che oggi sono i cardini di questo Anno Santo. E, infatti, il Papa, come il cardinale Kasper nel suo libro, ha fatto sua e ha esplicitato in gesti pratici quella definizione teologica fornita da San Tommaso d'Aquino, ovvero che «misericordia significa avere il cuore nella miseria altrui». È partito proprio da qui Francesco, dalla miseria africana, Bangui (nella Repubblica Centrafricana), luogo simbolico trasformato dal Papa, al termine del suo viaggio pastorale nel continente nero, in capitale mondiale della spiritualità. Con l'apertura di una «misera» porta della misericordia, con oltre una settimana d'anticipo sull'apertura della porta della Basilica di San Pietro, Bergoglio ha voluto rimarcare anche il senso rivoluzionario di questo Giubileo «francescano», basato teologicamente proprio sulla misericordia.
I gesti innovativi sono tanti e le sorprese nel corso dell'Anno Santo non mancheranno («un venerdì di ogni mese farò un gesto diverso», ha annunciato Francesco), ma il Papa ha colto anche l'occasione per sottolineare ancora una volta i temi cruciali del suo magistero, dall'aborto al problema delle carceri, dalla misericordia per i condannati all'attenzione per gli ultimi, gli ammalati, gli anziani, gli scarti delle periferie del mondo. È proprio qui una delle tante innovazioni volute dal Pontefice per questo Giubileo: una moltitudine di porte sante per permettere anche ai più poveri di ottenere il perdono, l'indulgenza giubilare, senza bisogno di viaggiare in pellegrinaggio fino a Roma. Nella bolla d'indizione dell'Anno Santo, intitolata Misericordiae Vultus, Francesco, oltre a invocare il dialogo e l'incontro con ebraismo e Islam, «espellendo ogni forma di violenza e discriminazione», stabilisce infatti che nella domenica successiva all'apertura della Porta Santa di San Pietro (quindi domenica 13 dicembre), «in ogni chiesa particolare, nella cattedrale che è la chiesa madre per tutti i fedeli, oppure nella concattedrale o in una chiesa di speciale significato, si apra per tutto l'Anno Santo una uguale Porta della Misericordia. A scelta dell'Ordinario», spiega il Papa, «essa potrà essere aperta anche nei santuari, mete di tanti pellegrini. Il Giubileo, pertanto, sarà celebrato a Roma così come nelle chiese particolari quale segno visibile della comunione di tutta la Chiesa».
L'attenzione del Papa è rivolta soprattutto, come dimostrano anche i gesti del suo pontificato, agli ultimi che non hanno voce. In questo caso il Pontefice ha voluto applicare il concetto teologico di misericordia anche «a chi sperimenta la limitazione della propria libertà», i carcerati, che quindi non hanno diritto, per motivi giuridici, a raggiungere la Porta Santa di San Pietro: in una lettera del 1° settembre scorso inviata da Francesco a monsignore Rino Fisichella, presidente del Pontificio consiglio per la nuova evangelizzazione e «regista» del grande Giubileo, il Pontefice parla chiaramente di «amnistia» dicendo che «l'Anno Santo ha sempre costituito l'opportunità di una grande amnistia, destinata a coinvolgere tante persone che, pur meritevoli di pena, hanno tuttavia preso coscienza dell'ingiustizia compiuta e desiderano sinceramente inserirsi di nuovo nella società portando il loro contributo onesto». Per questo motivo con un ennesimo gesto rivoluzionario rispetto ai predecessori e ai giubilei del passato, Bergoglio ha voluto indicare una via per il perdono, anche senza la necessità di dover uscire dall'istituto di pena. «Nelle cappelle delle carceri» scrive il Papa, «i carcerati potranno ottenere l'indulgenza, e ogni volta che passeranno per la porta della loro cella, rivolgendo il pensiero e la preghiera al Padre».
Un altro elemento chiave di questo Giubileo, che ha ottenuto reazioni entusiaste in America Latina soprattutto da molti teologi della liberazione, come il brasiliano Leonard Boff, ma allo stesso tempo aspre critiche dagli ambienti più tradizionalisti della Chiesa e dal mondo laicista, riguarda l'aborto e la decisione del Papa di concedere il perdono per le donne o per i medici che hanno indotto l'aborto e poi si sono pentiti. «È una decisione assolutamente coerente con il messaggio di Francesco» ha spiegato Boff aggiungendo: «Tutto ciò significa aprire una porta. E una volta che la porta è aperta, non è più possibile richiuderla».
Nella sua lettera a mons. Rino Fisichella, Bergoglio, ha «giustificato» questa scelta esponendo il suo punto di vista e la sua esperienza personale: «So che quello dell'aborto è un dramma esistenziale e morale, ho incontrato tante donne che portavano nel loro cuore la cicatrice per questa scelta sofferta e dolorosa». Ancora una volta, il perno fondamentale per comprendere la scelta di Papa Francesco è il perdono di Dio che, a dire del Pontefice, «non può essere negato a chiunque è pentito, soprattutto quando con cuore sincero si accosta al sacramento della confessione per ottenere la riconciliazione con il Padre». La decisione di Bergoglio va di certo controcorrente ed è lui stesso, consapevole delle eventuali critiche, ad affermarlo nella lettera: «Ho deciso, nonostante qualsiasi cosa in contrario, di concedere a tutti i sacerdoti per l'Anno Giubilare la facoltà di assolvere dal peccato di aborto quanti lo hanno procurato e pentiti di cuore ne chiedono il perdono. I sacerdoti si preparino a questo grande compito».
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