ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

domenica 24 gennaio 2016

La riabiliteranno a breve?

UTA LA TRANSFUGA PROTESTANTE

Uta Ranke-Heinemann: a volte se ne accorgono (e così sia). Transfuga protestante felicemente approdata nella Chiesa cattolica romana, brillante, colta pareva proprio il fiore all’occhiello di una certa teologia progressista
di Francesco Lamendola  


 Forse qualcuno se lo ricorda, benché scialbo interprete di un ruolo politicamente scialbo: Gustav Heinemann (1889-1976), socialdemocratico senza infamia e senza lode, è stato niente meno che Presidente della Repubblica Federale Tedesca dal 1969 al 1974. Ebbene, costui aveva una figlia, Uta, classe 1927, vivente, la quale, benché allevata nella fede calvinista dei padri, si era convertita, insieme al suo maestro, il teologo Heinrich Schlier (1900-1978), al cattolicesimo, nel 1953; e già l’anno dopo si era laureata dottore in teologia, a Monaco. Era poi diventata abbastanza nota, nel 1970, per essere stata la prima donna, in assoluto, che venne abilitata dalla Chiesa cattolica ad insegnare teologia nelle università – a Essen, in questo caso -, ciò che allora fece un certo scalpore e sembrò segnare un punto a favore della “emancipazione” e della “valorizzazione” dell’elemento femminile in seno alla Chiesa postconciliare
(il Vaticano II era finito da soli cinque anni, dopotutto, e i suoi cattivi influssi, non del Concilio in sé, ma delle sue fazioni “progressiste” e neomoderniste, decise a spingersi sempre più avanti, non si erano ancora palesati in tutta la loro gravità) rispetto alle varie Chiese protestanti,  verso le quali, specialmente nell’area centro-europea, i cattolici sembrano aver sempre avuto, e nutrono tuttora, parecchi complessi d’inferiorità, sentendosi quelli che son rimasti indietro sui tempi della storia, che non hanno aperto in tempo un dialogo adeguato con i non credenti, che non hanno ascoltato abbastanza le donne, che non hanno saputo interpellare con sufficiente umiltà gli stimoli e le salutari provocazioni del mondo moderno…
Sta di fatto che la baldanzosa Uta Ranke-Heinemann, transfuga protestante felicemente approdata nella Chiesa cattolica romana, brillante, colta, oltre che figlia di tanto padre, pareva proprio il fiore all’occhiello di una certa teologia progressista e smaniosa di levarsi di dosso, lavandola con la trementina, la spiacevole reputazione di avere ancora qualcosa a che fare con l’antipatica e ottusa tradizione tridentina: una tradizione di repressione (anche sessuale), di chiusura, di bigottismo, di ricorso facile al sostegno dell’Inquisizione e del braccio secolare, oltre che di lettura “ingenua”, letteralista e fideista, della Bibbia. La balda Uta, inoltre, era più che in odore di femminismo, oltre che seguace dichiarata del “metodo” di Rudolf Bultmann, quello d’interpretare simbolicamente gran parte della Storia sacra, sfrondandola spietatamente dei suoi innumerevoli “miti”: per cui la sua promozione sul campo, prima donna docente teologa nel mondo cattolico, sembrava rovesciare un duplice ordine di tabù: che la Chiesa avesse paura della donna moderna e che avesse paura della teologia protestante, sentendosi incapace di misurarsi con entrambe su d’un piano paritario. Adesso, i superciliosi luterani e i calvinisti erano serviti: uno di loro, anzi, una di loro, era passata al cattolicesimo, e i suoi meriti teologici erano stati prontamente riconosciuti: visto che a comprendere e valorizzare il ruolo delle donne non erano loro soltanto?
Ahinoi, l’idillio non è durato moltissimo. Son bastati pochi anni perché l’ambiziosa e irrequieta signora mostrasse chiaramente di non avere alcuna intenzione di posporre le sue convinzioni femministe e “mitologiste” alla dottrina cattolica; e, soprattutto, di non avere affatto compreso che il cattolicesimo, a differenza delle varie confessioni protestanti, non prevede che ciascun credente interpreti a suo  la Rivelazione; che non è un’assemblea democratica dove, a maggioranza, si decide di “aggiornare” la fede, né una federazione anarchica, dove ciascuno procede come gli pare e piace, in ordine sparso, ma un “corpus” di dottrina, di pastorale e liturgia, fortemente unitario, coeso, coerente, nel quale l’apporto individuale si caratterizza non già per l’estrosità o l’originalità delle posizioni soggettive, ma per la capacità di aggiungere qualcosa, e non di toglierla, all’armonia, all’unità e alla coesione dell’insieme. In breve, la bionda Uta ha incominciato a sproloquiare a trecentosessanta gradi, con la massima disinvoltura, senza tenere nel benché minimo conto duemila anni di Tradizione e d’interpretazione della Scrittura, proprio come se lei, ultima arrivata nelle facoltà cattoliche di teologia, fosse la depositaria di una rivelazione nuovissima e speciale, e che la sua missione fosse quella di aprire gli occhi assonnati e abitudinari dei credenti.
Sta di fatto che, dopo aver suscitato parecchio scandalo ed essersi attirata una pioggia di critiche, la signora Uta venne allontanata dall’insegnamento e anche scomunicata, nel 1987, in particolare per avere negato la verginità di Maria, almeno in senso fisiologico; ma, più in generale, per tutta una serie di prese di posizione assolutamente inconciliabili, non solo con l’insegnamento della teologia in senso cattolico, ma anche, semplicemente, con la fede cattolica rettamente intesa. Ci erano voluti diciassette anni perché le autorità ecclesiastiche si rendessero conto di aver commesso un errore madornale nel dare tanta fiducia e tanta visibilità a quella persona: l’averne fatto quasi una bandiera dell’apertura e del progressismo cattolici si trasformava ora in un malinconico boomerang, in un imbarazzatissimo: “Scusate, ci eravamo sbagliati del tutto”. Né la disavventura mise un po’ di prudenza o suggerì un minimo di riflessione all’ormai scatenata ex teologa: appena tre anni dopo, ella licenziava alle stampe il libro che le avrebbe dato un fugace momento di autentica celebrità internazionale, anche più di quella conosciuta nel 1970, forse proprio perché preceduto dal battagepubblicitario che la presentava come l’ennesima vittima dell’Inquisizione e del cieco e ottuso  conservatorismo romano: «Eunuchi per il regno dei cieli. Le donne, la sessualità e la Chiesa cattolica» (1990; pubblicato in Italia da Rizzoli).
Ripetiamo: sarebbe riduttivo vedere nel severo provvedimento preso dalla Chiesa nei suoi confronti la risposta ad una singola deviazione dogmatica (la questione della verginità di Maria), anche se ciò piacerebbe a chi vuol dipingere la Chiesa, sempre e comunque, come la cittadella assediata di una teologia anacronistica e antifemminista. È l’insieme delle idee di Uta Ranke-Heinemann che non ha assolutamente nulla di cattolico: dalle sue idee sulla Trinità, che considera una invenzione degli uomini; alla storia stessa della Chiesa, che ella interpreta come la Chiesa dei maschi avversi alla emancipazione femminile. Ma l’elenco delle sue affermazioni eretiche sarebbe lungo: Gesù, per lei, non è Dio e Figlio di Dio, ma solo un uomo (e questa, da sola, basterebbe a mostrare di quale stoffa fosse fatto il suo cattolicesimo); Maria, pertanto – ed è una logica conseguenza - è la madre di Gesù e non  la madre di Dio; Dio ha creato la terra e il Paradiso, ma non l’Inferno, che  è solo una perversa immaginazione dei cattolici; sia il Diavolo che il Peccato originale sono invenzioni umane; la Redenzione di Gesù sulla croce non è che un residuo di paganesimo, un culto sanguinolento che ricorda gli antichi sacrifici umani degli uomini preistorici. Ce n’è più che abbastanza per dire che chi dichiara simili convinzioni non ha alcun diritto di dirsi cattolico: se fosse stata intellettualmente onesta, la vivace signora non avrebbe aspettato di farsi cacciare via a pedate nel sedere, ma se ne sarebbe andata con le sue gambe, coerentemente e dignitosamente. Ma, evidentemente, la cosa non avrebbe fatto lo stesso effetto che essere cacciata e scomunicata: non le avrebbe permesso di apparire come la vittima di una istituzione retriva, brutta e cattiva; non le avrebbe reso possibile di indossare i panni della libera e coraggiosa pensatrice, indegnamente perseguitata.
Passata all’insegnamento di Storia delle religioni, sempre nella Università di Essen, l’infaticabile ex teologa cattolica ha voluto proseguire la sua “battaglia” per la Verità e la liberazione della donna, e ha consegnato alle stampe un altro libro-scandalo: «Così non sia. Introduzione al dubbio di fede», nel 2002 (tradotto in Italia sempre da Rizzoli), nel quale ha promosso a virtù la negazione del ”così sia” (il titolo tedesco suona: «Nein un Amen. Men Abschied von traditionellen Christentum»), e si fa un vanto di dire “no” a tutto ciò che il cristiano crede, o pensa di credere: no ai miracoli, no agli angeli, no alle “fiabe”, no alla storia di Abramo e Isacco (che un finissimo teologo luterano come Kierkegaard aveva trovato esemplare, ma che la nostra signora definisce semplicemente “orrenda”). E via di questo passo. Affinché la fede possa “vivere”, bisogna fare piazza pulita di tutto l’apparato “mitologico” del cristianesimo, sulla scia del suo mai dimenticato maestro, Bultmann; e il credente “adulto” è quello che non crede più a niente, o, per lo meno, che dubita di tutto. La scuola del sospetto, appunto: quella iniziata da Marx, Nietzsche e Freud; quella per cui è peccato di somma ingenuità, se non di connivenza con le struttura ingiuste e violente del mondo, credere in qualcosa, fidarsi di qualcuno, prendere per vero ciò che l’altro ci dice. E questi maestri del sospetto, la signora Uta li prende alla lettera: sembra di leggere Nietzsche (ma quale incommensurabile abisso d’intelligenza, di finezza, di sensibilità, fra i due), quando ella dichiara, con la massima naturalezza, che i cristiani sono nemici della vita, che hanno eretto la tristezza a norma della loro esistenza e che si nutrono di tristi favole per alimentare la loro misantropia e la loro teologia “da boia” (e, manco a dirlo, la loro inveterata e incorreggibile misoginia).
Ci sembrano totalmente condivisibili le meste riflessioni di Vittorio Messori in «Dicono che è risorto. Un’indagine sul sepolcro vuoto», Torino, S.E.I., 20000, pp. 273-276):

«Già, dicevamo, è sorprendente che l’episcopato tedesco proprio a una siile “studiosa” le virgolette son di rigore – abbia conferito il primato storico della prima cattedra teologica al femminile. Ma è francamente inquietante che, poi, le abbia rinnovato l’incarico sino al 1987, quando la signora aveva già sessant’anni e da anni infliggeva ai suoi allievi - con tanto di mandato ufficiale, e stipendio della Chiesa,- le tesi estremiste di “Eunuchi per il regno dei cieli, anch’esso, a suo tempo, tradotto da noi, come lo è ora “Così non sia”. […] E quando la professoressa, più che essere esclusa, si autoescluse dalla facoltà di teologia cattolica, quei monsignori nulla ebbero a obiettare che passasse alla cattedra di Storia del cattolicesimo all’Università di Essen., la stessa dove così a lungo aveva insegnato Nuovo Testamento su mandato ufficiale della Chiesa. Né si è levata alcuna obiezione sul fatto che nei suoi libri ed articoli, si dica “cattolica” questa signora che definisce, testualmente, Giovanni Paolo II  come “un povero complessato sessuale, come tutti i vescovi della sua comunità fallocratica”.
Del resto, è illuminante, per comprendere il personaggio, quanto dichiara all’intervistatrice de “L’Europeo”. Questa, comprensibilmente perplessa, le chiede (la Heinemann le ha appena detto, che “il vangelo altro non è che un tessuto di favole dannose e di kitsch di cattivo gusto” e che, per i risultati nefasti che ha provocato, “il cristianesimo è la peggiore di tutte le religioni”), le chiede, dunque, perché insista allora nel dirsi “cattolica”. La “teologa” con mandato episcopale replica che è “per far dispetto”, aggiungendo: “E poi non è detto che non sia più cattolica io del papa. Interpretiamo entrambi la parola di Dio. E sono convinta che lui sbaglia più di me”[…].
Per aprire quasi a caso le pagine di questo “Così non sia” (per non parlare del precedente “Eunuchi”), Frau Uta cita con convinzione Goethe e Schiller , da lei presi ad appoggio della tesi che così testualmente sintetizza, facendola propria: ”I cristiani non sono che crudeli nemici della vita, veneratori della croce, smarriti in un campo penitenziale, uccisori nemici del mondo, fanatici, uomini che hanno urgentemente bisogno di una redenzione: e, cioè, di una religione dell’uomo” (pag. 311). […] D’altro canto, come si ribadisce in altra pagina, “attraverso la sua religione da sacrificio umano, il cristianesimo ha sostituito la parola di Gesù con una teologia da boia e arriva addirittura a una blasfema affermazione da assassino, quando sostiene che Dio voleva redimere l’umanità attraverso questa morte in croce” (pag. 300). […] Quanto alla nostra Ranke-Heinemann, sempre “per indispettire i cattolici” non esce dalla Chiesa  e continua a pagare la “tassa ecclesiastica”: l’anno scorso 39 mila marchi sono andati dalle sue tasche ai vescovi, provenendo quasi tutti dai diritti d’autore di libri dove quei presuli medesimi sono presentati come un “mix” di imbroglio, cinismo, sessuofobia…»

In effetti, in tutta questa trista vicenda, non si sa se sia più sconcertante la lunga, incredibile tolleranza di questa serpe in seno, da parte dell’episcopato tedesco, o la totale mancanza di pudore e di lealtà della “teologa”, che sputava sistematicamente nel piatto ove mangiava, e che continua ad esternare idee dichiaratamente anticristiane, seguitando però a dirsi “cattolica”, e questo ”solo per dispetto”. Come per i vari Vito Mancuso, o, più subdolamente, per gli Enzo Bianchi, il veleno diffuso dall’interno è sempre più efficace di quello spruzzato stando all’esterno. Del resto, e costoro lo dicono chiaro, gli uomini han bisogno di “una nuova redenzione”. Vuol candidarsi lei, Frau Uta?

 Uta Ranke-Heinemann: a volte se ne accorgono (e così sia)

di Francesco Lamendola

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