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giovedì 25 febbraio 2016

Mai guardarsi dentro..!*

Cresce l’Italia che diserta le chiese: più facile perdere la fede a 55 anni

La secolarizzazione avanza. E uno su cinque non entra mai in un edificio di culto

                                           Fedeli in preghiera
Tra piazze sulle unioni civili, appelli alla tradizione natalizia e fede islamica la religione è da tempo al centro del dibattito politico e sociale del Paese. Ma non è detto che questa sua esposizione mediatica si trasformi poi in un rinnovato interesse degli italiani. Anzi, guardando i freddi dati la tendenza sembra tutt’altra. 

L’Istat ha di recente fotografato la nostra propensione alla pratica religiosa e il quadro che ne viene fuori è quello di un Paese che viaggia verso la secolarizzazione. Non spinta come in altri Paesi europei, è vero, ma tale da mostrare un’evidente disaffezione. Le chiese sono vuote, si dice sempre. È vero come per le moschee e le sinagoghe e ora lo certifica anche la statistica. 

Nel 2006 una persona su tre (esattamente il 33,4%) dichiarava di frequentare luoghi di culto almeno una volta alla settimana. La percentuale, però, oggi è scesa al 29%. E il calo è stato costante negli anni. Al contrario le persone che dichiaravano di non frequentare mai luoghi di culto sono passate dal 17,2 al 21,4%. In pratica oltre una ogni cinque. 


Il dato, messo così, mostra una tendenza generale. Ma se guardassimo più nel dettaglio, noteremmo cose interessanti. Innanzitutto i numeri risultano un po’ “drogati”. Un po’ perché nelle statistiche si tende a dichiarare quel che si vorrebbe fare e non quello che si fa davvero. Un po’ per la presenza dei bambini tra i 6 e i 13 anni che con il loro 51,9% del 2015 spingono in alto una percentuale che altrimenti sarebbe più bassa. 

Il crollo della frequentazione dei luoghi di culto ha colpito ogni fascia d’età. Quella in cui si “perde” la fede per eccellenza resta tra i 20 e i 24 anni. La curva, poi, tende a risalire lentamente fino a quella che potremmo definire l’area della “scommessa di Pascal”. Ma il confronto con il 2006 ci dice che la fascia d’età più disillusa è quella tra i 55 e i 59 anni che nell’ultimo decennio ha perso il 30% dei frequentatori di luoghi di culto. Fascia che potrebbe essere estesa ai 60-64enni, dove il calo è stato del 25%. Il sociologo Franco Garelli, uno dei massimi esperti dell’argomento, spiega: «Questo fenomeno può essere dettato da due dinamiche: da una parte in quella fascia d’età molti si costruiscono una seconda vita alternativa. I figli sono grandi, la carriera è agli sgoccioli, i nuovi impegni allontanano dalla pratica religiosa. Dall’altra può essere un portato della crisi: persone uscite dal ciclo produttivo impegnate a rientrarci».  

Ma sono le nuove generazioni che offrono gli spunti più interessanti. È probabile che da adulti saranno meno vicini alla fede di quanto lo sono gli adulti di oggi. Se è vero che i bambini sono ancora i frequentatori più assidui dei luoghi di culto, le famiglie sembrano sempre meno inclini a far rispettare loro impegni religiosi assidui. Oggi un bambino su dieci non frequenta più come una volta e gli adolescenti tra i 14 e i 17 anni sono calati del 17,6%. Di converso quelli che non frequentano mai sono aumentati del 57% tra i bambini e del 33% tra gli adolescenti. «È molto interessante notare come i 18enni e 19enni, che restano lo zoccolo duro dell’associazionismo cattolico, tengano (siamo intorno al 15% di frequentatori abituali, ndr) ma la loro erosione è importante» dice ancora il professor Garelli. 

Guardando alla geografia, l’Italia appare molto divisa tra Nord e Sud. Se la Sicilia risulta la regione più religiosa (oltre il 37% va almeno una volta a settimana in un luogo di culto), la Liguria è quella più agnostica e atea (oltre una persona su tre non frequenta mai e solo il 18,6% lo fa con assiduità). Siamo lontani dalle percentuali della Svezia (90% si dichiara religioso e 3% praticante), ma la tendenza è ad avere una religiosità sempre più ritagliata sul personale e che non segue i precetti che non ritiene necessari. 





Sul fronte delle professioni quadri, impiegati, casalinghe e pensionati sono le più religiose. Dirigenti, imprenditori, liberi professionisti, operai e studenti quelle meno. «Chi riceve stimoli o è impegnato in lavori concettuali o manuali più impegnativi si dedica meno al trascendente» spiega Garelli. 
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La Stampa
(Giacomo Galezzi)  "Colpa dell' edonismo di quell' epoca. Siamo una società basata sull' effimero e sui piaceri immediati". - «La ragione è molto chiara: la secolarizzazione ha scavato in profondità nel contesto sociale e culturale fino ad allontanare dalla fede soprattutto chi era giovane negli anni '80. È il frutto dell' epoca dell' edonismo individualista». Il calo della partecipazione religiosa tra i cinquantenni non sorprende il cardinale José Saraiva Martins, prefetto emerito della congregazione dei Santi, tra i più autorevoli porporati della Curia romana. A cosa attribuisce l' addio alla fede ad un' età avanzata? «In Europa accade nella vita del singolo ciò accade in quella collettiva: la perdita delle radici cristiane, l' allontanamento dai valori religiosi ed autenticamente umani. Per questo il Papa richiama spesso la questione della "ecologia umana" e, sul piano antropologico, la problematica della "laicità diventata laicismo". La secolarizzazione ha prodotto un cambiamento anagraficamente trasversale, ma che particolarmente in età matura ha indotto molti a pensare di poter bastare a se stessi. È l' effetto più negativo di una civiltà basata sull' effimero e sui piaceri immediati». E il nesso con la perdita delle radici spirituali dell' Europa? «Il nostro continente si è sviluppato culturalmente e socialmente attorno alle cattedrali, così chiamate perché i vescovi erano cattedratici. Oggi quel contesto religioso sta scomparendo. Una ferita storica che si riflette sulla vita degli individui e crea disillusione. Già Benedetto XVI aveva lanciato l' allarme: la mentalità edonistica e consumistica predominante favorisce, nei fedeli come nei pastori, una deriva verso la superficialità e un egocentrismo che nuoce alla vita ecclesiale. La secolarizzazione che si presenta nelle culture come impostazione del mondo e dell' umanità senza riferimento alla trascendenza, invade ogni aspetto della vita quotidiana. È così che si una mentalità in cui Dio è assente dall' esistenza e dalla coscienza umana. Le statistiche fotografano l' eclissi del sacro». Qual è il motivo di questa fuga? «Il mondo secolarizzato non riconosce Gesù, al massimo lo considera un uomo illuminato: come ha avvertito Francesco, la società anche quando è accogliente verso i valori evangelici dell' amore, della giustizia, della pace, della sobrietà separa il messaggio dal messaggero, il dono dal donatore. Situazione di scollamento, malgrado la relativamente maggiore vitalità della presenza cristiana in Italia rispetto al resto d' Europa». In piena battaglia sulle unioni civili, la fede non conta meno? «Sono due questioni distinte: la partecipazione religiosa e il rapporto tra la Chiesa e la comunità politica che dal Concilio sono indipendenti e autonome l' una dall' altra nel proprio campo. Ma tutte e due, anche se a titolo diverso, sono a servizio della vocazione personale e sociale degli uomini. Agiscono a vantaggio di tutti in maniera tanto più efficace, quanto più coltivano una collaborazione tra di loro. Con il secolarismo per gli uomini è più difficile pensare di essere legati a Dio. Le azioni umane senza riferimento all' etica portano spesso a pessimi risultati. Meno fede significa meno valori umani. Lontani dalle radici si è più fragili e soli».
http://ilsismografo.blogspot.it/2016/02/vaticano-il-cardinal-saraiva-martins.html

Quelle favole sulle coppie di fatto che ci stanno portando all'estinzione

La società italiana attraversa una fase di rivoluzione che non vogliamo riconoscere. Numeri alla mano, i figli si fanno prevalentemente tra coppie unite in matrimonio o che pensano di sposarsi o che sanno che si sposeranno
di Roberto Volpi | 25 Febbraio 2016 ore 14:59

Succede che certe rivoluzioni riescano a passare inosservate in quanto già introiettate nel senso comune, nel comune sentire delle persone, al punto da non essere percepite come tali bensì come semplici evoluzioni del costume. La popolazione italiana sta cambiando a ritmi vertiginosi nei suoi parametri fondamentali, eppure il cambiamento rischia di passare inosservato, tanta è ormai la noncuranza, se non addirittura l’abitudine, un senso di déjà vue, con cui guardiamo a certi processi. Veniamo al dunque. L’ultima dozzina d’anni sono stati decisivi nell’apparecchiare una società italiana bendisposta all’estinzione. Non si tratta di una frase a effetto, dal momento che per l’estinzione le condizioni ci sono già tutte o quasi. Non capisco bene l’Istat, lo confesso, pur essendone un grande estimatore. Registra certi fenomeni ma sembra preoccupato di andare oltre una blanda, neutrale, scarnificata registrazione. Nelle sue stime preliminari, lo scorso anno l’Istat sopravvalutò le nascite del 2014, che poi si rivelarono 6-7 mila in meno di quelle pronosticate. Per il 2015 ha stimato in 15 mila le nascite in meno rispetto a quelle del 2014 (503 mila), ma già a ottobre 2015 i nuovi nati erano 16 mila in meno di quelle dello stesso periodo del 2014. Perché, ecco il punto, non c’è più previsione di questo tipo che non venga superata al ribasso. Avevamo oltre un milione di nascite alla metà degli anni Sessanta, con 7 milioni di abitanti in meno, ed eccoci qui. Ma i bambini non nascono sotto i cavoli. I bambini, contrariamente a quanto ci viene gabellato da un po’ di anni a questa parte sull’onda di certa ideologia (ma perché non chiamarla col suo nome più specifico: 'moda', 'moda culturale', dato che questo è) dell’indifferenza di genere, di coppie e di famiglie, si fanno prevalentemente tra coppie unite in matrimonio o che pensano di sposarsi o che sanno che si sposeranno, semmai arrivasse un figlio. Anche sui figli che nascono fuori del matrimonio, quante favole si sono raccontate. Frutto di coppie di fatto che, loro sì, non hanno paura di metterli al mondo e di volergli bene senza passare attraverso alcuna istituzionalizzazione, nessun contratto, mica come le coppie sposate, così ufficiali, così per benino e così restie a fare figli, così volutamente sterili. Favole di cui ora l’Italia si appresta a pagare il prezzo in termini di un drammatico restringimento di prospettive e futuro.

ARTICOLI CORRELATI L’Europa dei sepolcri imbiancati Ma chi farebbe quattro figli per avere “una società meno depressa”? Può una nazione morire?L’onda, la cui curvatura anomala ha portato a volumi annui di nascite da vera e propria estinzione, s’è messa in moto con la messa in mora del matrimonio, con il drammatico processo che sta vieppiù trasformando la popolazione italiana adulta in una popolazione di single tranquillamente protesi a giocare la propria vita fuori da ogni prospettiva di coppia e di famiglia, di figli. Prendersela con i single? Ma nemmeno per sogno, è la società, è l’ideologia, è la moda, è la cultura, è il sentire comune a suggerire che il matrimonio tra uomo e donna sia fuori corso come certe monete d’anteguerra, un inutile orpello che non ha più senso apporre su unioni che hanno da essere, quando sono, d’amore, solo d’amore.

Ed ecco allora il risultato. Tra il 2002 e il 2015 la popolazione italiana è aumentata di 3,8 milioni. Ma nei vent’anni d’età decisivi per la formazione di coppie e famiglie, per fare dei figli, quelli tra i 20 e i 40, i coniugati sono scesi di quasi 3 milioni. Uno spicinio. Una decimazione. Maschi che sfarfalleggiano? Troppo facile, perché il crollo del coniugio è ancora più netto tra le femmine, che perdono 1,6 milioni di coniugate contro 1,4 milioni di coniugati persi dai maschi. Certo, stanno venendo al pettine le minori nascite accumulate a partire dalla metà degli anni Settanta. Verissimo, ma sta di fatto che i celibi/nubili di 20-40 anni aumentano comunque di mezzo milione mentre quelli tra 40 e 50 anni crescono addirittura di 1,4 milioni. Cosicché nei trent’anni tra i 20 e i 50 c’è quasi un aumento di 2 milioni di celibi e nubili, mentre arretrano di 2,5 milioni coniugati e coniugate di questa ampia fascia d’età. Il tutto in una dozzina d’anni e in una popolazione aumentata di quasi 4 milioni. Chi si meraviglia che le nascite precipitano, senza vedere che l’Italia inclina paurosamente lungo una china che potrebbe rivelarsi non più risalibile, non coglie neppure la punta dell’iceberg di una tale problema.

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