QUEL CHE RESTA DEL GIORNO
Da almeno un paio di secoli stiamo corteggiando la rovina erigendo altari alla nuova religione del Nulla. Siamo i figli crepuscolari di una civiltà crepuscolare che sfrutta gli ultimi raggi di luce prima di sprofondare nel buio
di F.Lamendola
Da almeno un paio di secoli stiamo corteggiando la rovina, il disfacimento, la putrefazione; stiamo proclamando il dovere del disincanto, della disillusione, del pessimismo radicale; stiamo erigendo gli altari della nuova religione del Nulla, del relativismo e dell’indifferentismo. Non c’è da stupirsi, quindi, se la luce si sta effettivamente spegnendo nelle nostre anime, e se il sipario sta per calare sulla nostra civiltà.
Siamo arrivato al crepuscolo: dopo averlo evocato così a lungo e così tenacemente, è effettivamente arrivato ed è troppo tardi per pentimenti, ripensamenti e rimorsi; non c’è più tempo per recuperare le risorse morali e spirituali gettate al vento, l’intelligenza sprecata in sterili giochi, il tradimento nei confronti di noi stessi. Siamo i figli crepuscolari di una civiltà crepuscolare, che sfrutta gli ultimi raggi di luce prima di sprofondare nel buio.
Era questo che volevamo? Oppure abbiamo scherzato col fuoco, abbiamo evocato imprudentemente dei fantasmi che, in fondo, non pensavamo sarebbero arrivati? Abbiamo sbagliato per volontà deliberata di autodistruzione, oppure per leggerezza irresponsabile? Comunque sia, non ha più molta importanza. I fantasmi si sono presentati, i mostri si sono scatenati; il gioco, se anche era tale, si è trasformato in qualcosa di terribilmente, mortalmente serio.
Abbiamo imparato qualcosa, almeno, dai nostri errori? Se potessimo tornare indietro, cambieremmo il nostro atteggiamento? Saremmo capaci di riconoscere il punto in cui ci siamo discostati dalla giusta via, per addentrarci lungo sentieri attraenti, ma ingannevoli, nei quali abbiamo finito per perdere completamente l’orientamento e il significato stesso del nostro andare? Che cosa ci è accaduto? Perché e come siamo arrivati a questo punto, a questa mancanza di speranza, di futuro, di autentico amore per la vita?
Molti si preoccupano di sopravvivere, di ripristinare la possibilità di credere ancora nel domani. A noi pare piuttosto che dovremmo fare un profondo e salutare esame di coscienza; ammettere pienamente le nostre gravissime responsabilità; chiedere perdono per la presuntuosa follia cui ci siamo abbandonati, e per aver defraudato noi stessi, e soprattutto i nostri figli, della speranza nel futuro. Questo è più importante che sopravvivere materialmente: perché ne va della salvezza delle nostre anime. La fine di un mondo è ancora il male minore, purché scampi al naufragio la nostra essenza spirituale.
Dovremmo preoccuparci di questo. Il dovere di fare i conti con noi stessi, lealmente e onestamente, viene prima del fatto di chiederci se e come riusciremo a spegnere l’incendio che noi stessi abbiamo appiccato, o a scampare al naufragio da noi stessi reso inevitabile. La parabola della nostra civiltà, la cosiddetta civiltà moderna, è quella dell’orgoglio e della presunzione: è questo che ci ha resi folli e ci ha condotti fuori strada. È stato quello il momento in cui abbiamo acconsentito a che una forza malvagia si insinuasse dentro di noi e ci trascinasse, gonfi di superbia, verso la nostra stessa rovina. Eppure eravamo lucidi: non è accaduto per una distrazione. Ci piacerebbe pensarlo, ma sarebbe una consolazione troppo facile, che non meritiamo: perché vedevamo bene dove stavamo andando, eppure abbiamo imboccato, con decisione e senza esitare affatto, il sentiero sbagliato. Eravamo fuori di noi, sì, ma in modo perfettamente lucidi. E ora siamo giunti qui: alla fine del giorno.
IL TRADIMENTO DELLA PERSONA.
Il primo e più grave tradimento è stato nei confronti di noi stessi, del nostro essere persone. Adoratori delle cose, siamo regrediti a cose noi stessi. Abbiamo smesso di vederci come persone; abbiamo preferito vederci, desiderarci e amarci come cose: come le cose delle quali siamo divenuti insaziabili consumatori. Mai si era verificata una simile regressione, e con tanta euforia.
L’IPERTROFIA DELL’EGO.
Dopo aver perso completamente il senso del limite, ci siamo follemente innamorati di noi stessi. Ma di quale parte di noi stessi, se non la peggiore? La più viziata e capricciosa; la più narcisista e infantile; la più banale e superficiale. Quella meno personale, meno individuale: quella che ci accomuna ad infiniti altri. Banali e narcisisti come noi.
LUSSURIA, SUPERBIA, AVARIZIA.
Il nostro bisogno di amore è diventato smania di sesso, cioè lussuria; il nostro bisogno di affermazione e di riconoscimento è diventato superbia; il nostro bisogno di sicurezza si è trasformato in avarizia e in cupidigia: in una tendenza compulsiva ad accumulare sempre più cose, al di là di ogni reale necessità, fino ad esserne ossessionati, a non poter pensare più ad altro.
L’ATTRAZIONE PER LA MORTE.
Abbiamo voluto escludere la morte dal nostro orizzonte esistenziale; non pensarci, non vederla: e il risultato è stato che essa, cacciata dalla porta, è rientrata silenziosamente dalla finestra; si è insinuata nella nostra anima, l’ha corrotta e avvelenata, ha spento in essa ogni gioia di vivere. Siamo diventati dei corteggiatori della morte, ma senza averne consapevolezza: dunque, con pena e con cattiva coscienza. Come il topo ipnotizzato dal serpente che si appresta a divorarlo.
LA CULTURA DEL SOSPETTO.
La nostra cattiva coscienza e il nostro rimorso, non riconosciuto come tale, ci ha resi non solo infelici, ma anche diffidenti. Abbiamo smesso di credere alla verità e abbiamo incominciato a vedere ovunque l’inganno, la falsità, la menzogna, l’ipocrisia. Abbiamo rispecchiato all’esterno le nostre miserie, le nostre paure e le nostre deformità. In realtà, diffidavamo di noi stessi.
DISPERAZIONE, CRUDELTÀ, SADISMO.
Il vicolo cieco in cui ci siamo infilati ci ha portati alla disperazione, ma la cattiva coscienza ci ha impedito di riconoscerlo, di cercare aiuto, di ritornare sui nostri passi. Disperati, abbiamo cercato sfogo nella crudeltà; e la crudeltà è divenuta una forma di risarcimento, di gratificazione sostitutiva: abbiamo scoperto il piacere sadico. Anche il masochismo, che è sadismo contro se stessi.
DISONESTÀ INTELLETTUALE, GELOSIA, INVIDIA.
Il nostro modo di vivere e di porci ci ha condotti alla disonestà intellettuale: vediamo il bene, ma facciamo il male; però non abbiamo il fegato di chiamare le cose col loro nome, e contrabbandiamo il male per bene, volendo autoassolverci. Al tempo stesso, siamo gonfi di gelosia e d’invidia per chi è migliore di noi: per chi vede il bene e cerca di farlo, mentre si sforza di evitare il male.
CORTO CIRCUITO DEL LOGOS CALCOLANTE.
Abbiamo fatto del Logos strumentale e calcolante la sola forma legittima di conoscenza, e questo ha provocato un corto circuito. Tutto ciò che non rientra nei suoi schemi è stato negato o rimosso; quel che vi rientra, ma come verità parziale, è stato assolutizzato. Pur senza mentire in modo esplicito, abbiamo orribilmente deformato il volto della realtà, secondo il nostro sogno di potenza.
DERISIONE DEL BENE, DEL GIUSTO, DEL VERO E DEL BELLO.
Non ci è bastato allontanarci dalla retta via; abbiamo voluto tagliarci i ponti dietro le spalle e spargere ovunque semi di odio, disprezzo e derisione per il Bene, il Giusto, il Vero e il Bello. Abbiamo eretto blasfemi monumenti al male, all’empietà, alla falsità e alla bruttezza. Abbiamo perfino perseguitato chi incarnava l’onestà e la rettitudine, per tacitare i nostri sensi di colpa.
Animati da una malizia subdola e infernale, abbiamo proclamato di detestare i dogmi, i fanatismi, l’intolleranza, ma quel che volevamo era instaurare il relativismo più assoluto: perché solo nelle tenebre dell’anima potevamo sottrarci alla vergogna di quel che facevamo. Come ladri nella notte.
IL DISPREZZO DEL CREATO E DEL CREATORE.
Più che mai decisi a farci gli dèi di noi stessi, abbiamo negato e disprezzato il vero Dio e ci siamo arrogati il diritto di manipolare la creazione, illimitatamente, diabolicamente. Non abbiamo arretrato davanti a nulla, a nessuna pratica perversa: sempre in nome della scienza e del progresso. Come se esistesse un progresso che giustifichi un simile stravolgimento dello statuto ontologico degli enti.
LA VOLUTTÀ DEL NICHILISMO.
Divenuti cavalieri del Nulla, ci siamo sprofondati nella voluttà dell’autodistruzione: e l’abbiamo chiamata salute. Abbiamo cercato di dissimulare, dietro un vitalismo esasperato, la triste consapevolezza di essere già morti e di trascinare attorno i nostri pallidi cadaveri. E, quel che è peggio, avremmo rifiutato qualunque medico: troppo godevamo di una tale degradazione.
RESPONSABILITÀ DEI CATTIVI MAESTRI.
Ci siamo cercati dei “maestri” degni della nostra perversione: e, naturalmente, li abbiamo trovati. La domanda crea l’offerta: se non ci fossero stati, li avremmo inventati. Dopo di che, li abbiamo applauditi, ammirati, adorati. Essi hanno procurato un male immenso alla società, ma siamo noi che lo abbiamo permesso. Se la società fosse stata sana, li avremmo riconosciuti per quel che erano, e li avremmo cacciati a furor di popolo, tra fischi e risate di scherno.
NECESSITÀ IMPROROGABILE DELLA CONVERSIONE.
Se vogliamo salvare almeno l’anima, dobbiamo fare un bagno di umiltà: dobbiamo convertirci dalla vita falsa e adulterata alla vita vera, alla vita buona. Dobbiamo ritrovare il senso delle cose, tirarci fuori dalla palude del pessimismo, del nichilismo e del disamore di noi stessi. Il nostro narcisismo, infatti, non è vero amore, ma un goffo tentativo di dissimulare il disprezzo per noi stessi.
GRAZIA E REDENZIONE, DONI CELESTI.
Non possiamo redimerci a soli: questo, almeno, è chiaro. Non ci redimerà la scienza, non ci salverà il progresso. Dobbiamo imparare a chiedere; dobbiamo ritornare a sentirci creature e a sentire, pensare ed agire come tali. Non siamo piccoli dèi: siamo deboli, fragili e imperfetti. Però possiamo fare grandissime cose; ma non da soli, bensì con l’aiuto della Grazia celeste. In definitiva, dobbiamo riscoprire tutto il valore salvifico della preghiera.
LA LEGGE NATURALE, PREMESSA DELLA LEGGE DIVINA.
Finora ci siamo fatti legge a noi stessi. E siamo giunti fin sull’orlo dell’abisso, dove tuttora ci troviamo, paurosamente in bilico. Da adesso, dobbiamo tornare a seguire la legge naturale, che ci parla del Creatore prima ancora d’averlo incontrato. Osservando la legge naturale, possiamo cominciare a mettere un piede fuor della palude; il resto verrà dopo, se saremo animati dalla buona volontà. Non dovremo fare tutto da soli. E, del resto, nemmeno lo potremmo. Qualcuno ci aiuterà. Ma solo se sapremo morire al nostro uomo vecchio e rinascere all’uomo nuovo che è in noi, e che soffre e geme nelle doglie del parto.
L’AMOR CHE MOVE IL SOLE E L’ALTRE STELLE.
Non si vive a caso: si vive per uno scopo. Lo scopo è cercare, trovare, amare e servire Dio, meta suprema e punto omega di tutto ciò che esiste. L’amore di Dio è il solo perfetto, perché sciolto dai lacci e dalle scorie dell’io; ed è il solo che rinasce continuamente da se stesso, non si logora mai, non si esaurisce mai, perché la sua sorgente non è nel nostro mondo finito, ma nell’Assoluto.
E ADESSO, CORAGGIO.
Intelligenza, sentimento, volontà: dobbiamo fare appello alla nostra umanità profonda e semi-dimenticata. Dobbiamo tornare a volerci bene, ma nel modo giusto; ad amare la vita, a vedere nel “tu” non l’ostacolo, ma il completamento di noi stessi. Dobbiamo avere fede. E adesso, coraggio…
Quel che resta del giorno
di Francesco Lamendola
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