CRISTO RE E MODERNITA'
Una sfida aperta a tutte le idee-cardine della modernità. L’edificio ideologico della modernità è costituito da un vocabolario di base che comprende in particolare l’egualitarismo la libertà il relativismo il consumismo
di Francesco Lamendola
L’edificio ideologico della modernità è costituito da un vocabolario di base che comprende, in particolare, l’egualitarismo (paravento di ogni appiattimento e di ogni rancore sociale), la libertà intesa in senso negativo (libertà da qualcosa e non per qualcosa), il relativismo (presentato come un valore e non come una assenza della verità), il consumismo (quintessenza di tutto ciò che di diabolicamente egoistico vi è nell’anima umana).
La solennità di Cristo Re dell’Universo, introdotta nella liturgia cattolica da Pio XI, con l’enciclica Quas Primas, l’11 dicembre 1925, contrasta frontalmente con tutte queste idee base, e smaschera implacabilmente tutti questi falsi valori, o disvalori; tanto più che essa venne decisa, dopo pressanti richieste da parte del clero e del popolo cristiano (erano altri tempi, evidentemente), in un momento storico che vedeva l’istituzione monarchica fortemente ridimensionata: la Prima guerra mondiale aveva distrutto i quattro grandi imperi - tedesco, austro-ungarico, russo e ottomano - e segnato un deciso balzo in avanti della democrazia, specialmente americana, quale modello di riferimento per tutti i popoli dell’Europa e del mondo.
L’enciclica papale, nel motivare l’istituzione della nuova solennità, diceva testualmente: E perché più abbondanti siano i desiderati frutti e durino più stabilmente nella società umana, è necessario che venga divulgata la cognizione della regale dignità di nostro Signore quanto più è possibile. Al quale scopo Ci sembra che nessun’altra cosa possa maggiormente giovare quanto l’istituzione di una festa particolare e propria di Cristo Re. E si rammenti che, in quegli anni, nel Messico post-rivoluzionario, si perpetrava una durissima repressione anticristiana, alla quale il popolo cattolico rispose, fra il 1923 e il 1926, con la cosiddetta guerra dei Cristeros, così chiamati, spregiativamente, dalle forze governative del presidente Plutarco Elias Calles - un criminale, responsabile di spaventose atrocità, che occupava il 33° grado della Massoneria - dal grido di battaglia che li contraddistingueva: Que viva Cristo Rey!
Più in generale, la cultura della modernità è pervasa dall’idea, ora esplicita, ora sottintesa, della auto-divinizzazione dell’Uomo e, pertanto, dalla negazione di qualsiasi istanza, forza o entità superiori all’Uomo stesso, o che dell’Uomo non siano, in ultima analisi, espressione. È questo un processo storico che parte da lontano, dall’umanesimo, e più ancora dal rinascimento; che prosegue con la rivoluzione scientifica, e che diviene pienamente consapevole con l’illuminismo, poi con il positivismo: per culminare, ai nostri giorni, con il disegno, neanche tanto nascosto, di matrice gnostico-massonica, di abolire, o meglio, di svuotare e di relativizzare tutte le religioni (e tutte le culture e le identità, compresa l’identità di genere dell’individuo, maschile e femminile), onde poterle poi sostituire con una super-religione immanentista e panteista, culminante nella glorificazione dell’Uomo e nella assolutizzazione della Ragione, del Progresso e della Modernità medesima.
Come è noto, il concetto della regalità di Cristo trova la sua base storica ed esegetica in quel passo del Vangelo di Giovanni (episodio che è riferito anche dai tre Sinottici, ma in forma molto più succinta e non del tutto chiara) in cui Gesù, interrogato da Pilato, durante il processo, se egli sia il re dei Giudei, risponde di essere re, ma precisa, allo stesso tempo, che il Suo regno non è di questo mondo (Gv., 18, 33-38):
Poi Pilato rientrò nel palazzo, chiamò Gesù e gli chiese: “Sei tu, il re dei giudei?”.
Gesù rispose: “Hai pensato tu questa domanda, o qualcuno ti ha detto questo di me?”.
Pilato rispose: “Non sono ebreo, io. Il tuo popolo e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me: che cos’hai fatto?”.
Gesù rispose: Il mio regno non appartiene a questo mondo. Se il mio regno appartenesse a questo mondo, i miei servi avrebbero combattuto per non farmi arrestare dalle autorità ebraiche. Ma il mio regno non appartiene a questo mondo”.
Pilato gli disse di nuovo: “Insomma, sei un re, tu?”
Gesù rispose: “Tu dici che io sono re. Io sono nato e venuto nel mondo per essere un testimone della verità. Chi appartiene alla verità ascolta la mia voce”.
Pilato disse a Gesù: “Ma cos’è la verità?”.
Ma è ancora possibile, si chiedono quei cristiani pavidi e succubi delle logiche del mondo, parlare di Cristo Re, pensare a Cristo Re, santificare Cristo Re, in una società e in una cultura le quali non solo non vogliono sentir nemmeno parlare di regalità, o di qualunque altro concetto ad essa correlato – perché ormai ogni imbecille ritiene di essere, press’a poco, un Aristotele o un Pico della Mirandola -, ma neppure di autorità, di dovere, di obbedienza, di umiltà, di sacrificio, di peccato, di insufficienza dell’uomo a far da solo, a redimersi da se stesso? Ammesso e non concesso che, nella società e nella cultura moderne, vi sia ancora spazio per l’idea di “redenzione”, che implica la coscienza della fragilità umana e, appunto, il senso del peccato, e che essa non sia stata del tutto soppiantata dalla auto-glorificazione e dalla auto-deificazione dell’Uomo.
Prima di rispondere a questo interrogativo, è giusto chiarirsi bene le idee circa il concetto della regalità di Gesù Cristo, onde sgombrare il campo da possibili fraintendimenti. A questo proposito, ci piace riportare qui una pagina di monsignor Armando Rolla, biblista, originario di Ivrea, già docente di Antico e Nuovo Testamento presso la Facoltà teologica dell’Italia meridionale, sezione “San Tommaso d’Aquino” (Napoli Capodimonte), e presso il Seminario diocesano di Benevento (in: A.A. V.V., Manuale di predicazione per i Vangeli domenicali e festivi, a cura di G. B. Guzzetti, Torino, Marietti, Editori, 1956, pp. 1142-1143):
Sono le prime ore del venerdì santo (Gv 18, 28). Dopo il processo religioso davanti al Sinedrio, Gesù è sottoposto al processo civile, davanti a Pilato, procuratore rimano della Giudea dal 26 al 36 d. C. Il pretorio di Pilato doveva essere collocato nella Fortezza Antonia, all’angolo nord-ovest del tempio di Gerusalemme, oppure nel palazzo di Erode nella città alta [la questione è tuttora aperta e controversa, a più di sessant’anni da quando queste parole furono scritte, e nonostante i grandi progressi effettuati nel campo degli studi biblici e nell’archeologia neotestamentaria; nota nostra].
1. LA REGALITÀ DI CRISTO.
Nel primo interrogatorio, a motivo delle accuse mosse contro Gesù (cfr. Lc 23, 2) dai membri del Sinedrio, e anche a motivo degli avvenimenti degli ultimi giorni, come l’ingresso messianico in Gerusalemme, Pilato chiede a Gesù se veramente egli sia il re dei Giudei. Prima di rispondere, Gesù s’accerta se Pilato intenda parlare di regalità in senso politico – quale la poteva concepire un Romano – oppure in senso religioso – quale la intendevano le S. Scritture. Per un pauroso deviazionismo, pure gli Ebrei contemporanei di Gesù concepivano il Messia come un re politico e nazionalistico. La responsabilità di ciò cadeva sulla letteratura apocrifica e rabbinica, la quale aveva trascurato le idee essenziali, decisamene spiritualistiche, dei profeti, per fermarsi all’elemento materialistico, da loro accennato accessoriamente, per necessità didattiche. Con la sua risposta sprezzante, Pilato fa capire che la domanda viene da lui e che egli intende parlare di regalità in senso politico.
2. LA NATURA DELLA REGALITÀ DI CRISTO.
Gesù allora lo assicura che Egli non è re in senso politico e che, perciò, non può costituire alcun pericolo per l’Impero romano: infatti non ha alcuno di quei mezzi difensivi e offensivi che caratterizzano le potenze politiche terrene. Egli però è Re: allo scopo di dirigere gli uomini alla realizzazione del fine soprannaturale, per mezzo della grazia e della verità. La regalità è una delle caratteristiche del Dio del Vecchio Testamento, come lo fu di numerosi dei orientali. Jahvè infatti impera su tutto il mondo e su Israele. Su Israele però ha un titolo speciale: in seguito alla alleanza sinaitica, esso è il suo popolo, sua “speciale proprietà”, “un regno di sacerdoti”, “gente santa” (Es. 19, 5-6): è una nazione teocratica il cui re terreno non è altro che il vicario di Jahvè (1 Sam., 8-7). Pure il Messia è presentato dai profeti come Re: il suo Regno sarà universale, definitivo e spirituale (Is., 11, 10; 42, 1-7; Ger., 31, 31-34).
Per predicare la verità e rendere ad essa la testimonianza, anche con il sacrificio della vita, Gesù è venuto al mondo (Gv. 1, 14; 8, 46). Però per conoscere la verità bisogna desiderarla e accettare l’influsso della grazia. Soprattutto perché la verità, di cui Cristo parlava, non era quella fredda e teorica a cui tendeva con veemente passione lo spirito greco., ma era la verità religiosa, che proviene da Dio e che deve portare a Dio, in una continuità di vita vissuta. Questa verità dev’essere “fatta” (1 Gv. 1, 6).
Qui, fra l’altro, incontriamo un concetto importantissimo, che oggi – in quella gran confusione che rischia di diventare il cosiddetto dialogo inter-religioso, in questo caso fra cristianesimo e giudaismo – sta andando smarrito, per una forma di timidezza e anche di eccesiva delicatezza, da parte dei cristiani, verso i giudei: non è stato Cristo, non è stato il cristianesimo, a sovvertire le attese messianiche dell’Antico Testamento, ma il giudaismo stesso, che, all’epoca, era traviato da una falsa immagine del Messia da sempre atteso, ora concepito come un Messia in veste guerriera, politica e nazionalista: falsa, sia chiaro, rispetto al giudaismo stesso. In altre parole: il cristianesimo non ha “tolto” nulla al giudaismo; al contrario, lo ha pienamente inverato. Si leggano i profeti, si legga Isaia, si legga la profezia dell’Emmanuele: non è stato Cristo a bestemmiare davanti al Sinedrio di Gerusalemme, che lo volle (illegalmente) processare e condannare a morte; ma è stato il Sinedrio, sono stati i giudei dell’epoca, a tradire il senso delle profezie messianiche e l’idea del Salvatore spirituale, che essi attendevano, per sostituire l’immagine del Messia, cioè di Dio salvatore, con una figura e con un messaggio di tipo rozzamente materiale, politico e militare. E infatti, a riprova di ciò, ricordiamo che questa fu la linea di predicazione tenuta da san Pietro, dagli Apostoli e, subito dopo, da San Paolo, nei loro tentativi di predicazione ai giudei: ««Quel Dio che aspettavate, è venuto, ed è venuto in accordo con le Scritture, così come lo avevano annunciato i profeti: ma voi non lo avete riconosciuto, lo avete rifiutato e lo avete messo a morte sulla croce; e adesso rifiutate anche la sua parola, che noi portiamo a voi dopo che è risorto e tornato al Padre, affidandoci questa missione».
Ora, è evidente che la solennità di Cristo Re non deve esse intesa, per non replicare l’errore del giudaismo, in senso materiale: Cristo ha affermato chiaramente di essere Re di un regno spirituale, che non conosce confini di razza o di lingua, ma che abbraccia tutti gli uomini i quali si pongono sinceramente e onestamente alla ricerca della verità. Ed è questo, soprattutto, che il Sinedrio e i giudei non perdonarono a Cristo: l’universalità del regno che veniva ad annunziare, laddove essi coltivavano, con feroce esclusivismo, l’aspettativa di vedersi affidata, da Dio, la signoria del mondo, o, quanto meno, l’assoluta supremazia, proprio in senso politico e nazionalista, sull’intera regione ( la “Mezzaluna fertile”) che va dal Nilo all’Eufrate. No, disse Cristo a Pilato, il mio regno non è di questo mondo. Ciò non toglie che Cristo sia Re: ben più Re, Lui, di qualunque altro sovrano, di qualsiasi imperatore, per quanto potente, i quali mai abbiano regnato sugli esseri umani; perché Egli è il re di tutta la terra, anzi, dell’intero universo; ma non in senso materiale, bensì in senso spirituale, perché Egli è la Verità, e quest’ultima non coincide pienamente con alcuna cosa di quaggiù, per quanto grande e, umanamente parlando, gloriosa.
Affermare che la regalità di Cristo non è di tipo materiale non equivale a dire che essa è qualcosa di meno, ma infinitamente di più di ciò che, nel parlare comune, si intende per “regalità”. Al tempo stesso, se Cristo è re, significa che noi siamo sudditi: e l’uomo vecchio (anche se si crede moderno), gonfio di superbia e falso amor di sé, recalcitra con tutte le forze davanti a un simile pensiero. Egli pretende d’essere padrone, non suddito. E infatti, non si sognerebbe di lavare i piedi ad alcuno, lui...
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