ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

venerdì 13 maggio 2016

Al suo posto, né ora, né mai!

LA METAMORFOSI DELLA CHIESA

    A chi vuol cambiare la Chiesa manca l’essenziale: un briciolo di carità cristiana. Coloro che fanno parte della Chiesa dal papa sino all’ultimo fedele sono lì per custodirla non per cambiarla il concetto stesso di cambiarla è aberrante 
di F.Lamendola  



Per capire un fenomeno storico, per comprenderlo sino in fondo, non è sufficiente studiarlo sulla base dei documenti; bisogna inserire quei documenti nello spirito vivo dell’epoca, nel contesto storico e culturale di cui furono parte, nella dimensione spirituale di cui sono stati espressione; altrimenti, si rischia di fare non storia, ma entomologia: di prendere i fatti, anestetizzati e devitalizzati, e di collocarli in bella mostra, come campioni allineati in fila, uno accanto all’altro. Meglio ancora se, di quei fatti, si è stati, in qualche modo, testimoni (ma non parte in causa), purché siano passati molti anni, abbastanza da smorzare le passioni, senza però cancellare l’impressione complessiva che se ne è ricevuta.
Sono ormai trascorsi più di cinquant’anni da quando si concluse il Concilio Vaticano II; e mezzo secolo è appunto un tempo abbastanza lungo da smorzare le passioni vive del momento, non però sufficiente a cancellare i ricordi e da rendere quel fatto interamente estraneo; meglio ancora, non sufficiente ad estinguere, nella memoria di chi c’era (e sia pure bambino), una chiara impressione della atmosfera complessiva di quel tempo, né il ricordo, che anzi è ben vivo, di come i vescovi, i preti, le suore, i fedeli, gli adulti praticanti rispetto ai loro figli, vivevano il loro essere cattolici, di come percepivano il fatto di essere credenti, di come lo esprimevano, di come lo testimoniavano, non solo nelle occasioni solenni (celebrazione dei sacramenti, nascite, morti, ricorrenze particolari), ma anche e soprattutto nella dimensione della vita quotidiana.

Ora, chi ha un ricordo diretto di quel periodo storico, possiede anche una cosa che le generazioni successive non hanno, se non per averla letta sulle pagine morte di qualche libro: la possibilità di confrontare il prima e il dopo di quell’evento; di porli uno accanto all’altro, per coglierne le differenze, non in senso ideologico, ma nella realtà viva del ricordo, nella esperienza immediata e indubitabile di una cosa vissuta in prima persona, e non unicamente sentita dire da altri. Ebbene: possiamo affermare, con piena cognizione di causa, e con una sicurezza che oltrepassa la mera nozione “oggettiva”dei fatti (che molti storici considerano un punto d’osservazione privilegiato, ma che ha, sicuramente, lo svantaggio non lieve di edulcorare e appiattire le vive impressioni di ciò che fu realtà concreta, prima di essere storia scritta sui libri) che si è trattato di un mutamento capillare, impressionante, e pressoché totale, pur se condotto con molta abilità, nel costante sforzo di minimizzarlo, di non farlo emergere, di dissimularlo.
La Chiesa del post-concilio è una Chiesa completamente diversa da quella preconciliare; nel giro di alcuni anni, non molti in verità, diciamo quattro o cinque, essa ha assunto una prospettiva, una direzione, un modo di porsi e di percepire se stessa, che è completamente diverso, per non dire quasi opposto, a quelli anteriori; e quasi tutti i mezzi d’informazione cattolici, la maggioranza dei sacerdoti e dei vescovi, lo stile dei pontefici che si sono da allora succeduti sulla cattedra di San Pietro, presentano delle sostanziali novità rispetto al periodo anteriore il 1962. Radicalmente  mutato è il modo di fare catechismo, di tenere le omelie, di parlare di Dio e di porsi fisicamente davanti a lui (rivoluzione degli altri, che ha comportato anche una serie di orrendi scempi dal punto di vista artistico); radicalmente mutato è il rapporto fra la Chiesa e il mondo, fra il cattolicesimo e le altre confessioni cristiane, per non dire delle altre religioni; radicalmente mutato è il modo di intendere la pedagogia, la pastorale, la liturgia, il concetto stesso del peccato, del libero arbitrio, della grazia e del soprannaturale; il modo di guardare al culto mariano (almeno per una parte del clero e dei fedeli), il sentirsi Chiesa, di considerare il significato globale della vita e della morte.
Non crediamo affatto di esagerare se diciamo che, per taluni aspetti, un cristiano del 1962 poteva leggere Dante e sentirsi più vicino al modo di concepire Dio, che è presente nella Divina Commedia (si pensi solo al canto più sublime di tutti, il XXXIII del Paradiso), di quanto non lo sia un cristiano del 1962 rispetto a uno del 1980, o del 2000, o del 2016. Sicuramente un cristiano del 1962 poteva leggere e capire I promessi sposi in un senso più vicino a quello che volle imprimervi Manzoni, che un cattolico dei nostri giorni.
Qualcuno potrebbe obiettare che ciò sarà pur vero, ma che è dipeso dalla evoluzione complessiva della società, anche e soprattutto nelle sue componenti laiche e profane; evoluzione che si è svolta sotto il segno di una crescente secolarizzazione, di un crescente indifferentismo religioso e di un crescente relativismo etico. Può darsi. Resta però il fatto che la Chiesa, e i cattolici tutti, sia consacrati che semplici fedeli, ciascuno per la sua parte, avrebbero avuto il compito, precisamente, di difendere e custodire il patrimonio che era stato loro affidato dalle generazioni precedenti; che, al secolarismo montante, avrebbero dovuto opporre la loro fede e la loro fedeltà alla tradizione cattolica; che, alla omologazione culturale e alla relativizzazione dei valori della società profana, imbevuta di diabolico consumismo, avrebbero dovuto rispondere facendo perno sul loro specifico sentire, sul loro specifico credere, sul loro specifico essere ciò che erano, cioè dei cattolici. Mentre essi, o gran pare di essi, fecero esattamente il contrario: introiettarono le logiche del mondo, del consumismo, del relativismo, del secolarismo e dell’edonismo, e li importarono dentro la loro Chiesa, dentro la loro pastorale, dentro la loro liturgia, dentro il loro modo di pensare, di sentire e perfino di credere: e ciò fecero a partire dal luogo deputato, per eccellenza, alla trasmissione dei valori e del modo di essere specificamente cristiano, vale a dire nei seminari. Laicizzata la teologia, annacquata la morale, svirilizzata o cancellata l’apologetica, e, quasi, quasi, domandato scusa al mondo, ai protestanti, ai giudei, ai musulmani, agli atei, di essere quel che erano, cioè cattolici, i vescovi e i sacerdoti di quella stagione si compiacquero di smantellare ciò che di meglio esisteva nel loro patrimonio, lo svendettero per un piatto di lenticchie, come Esaù la sua primogenitura, per inseguire affannosamente, in maniera penosa, grottesca, a volte blasfema, lo stile e le mode del mondo; per arrendersi al mondo e per corteggiarlo, vezzeggiarlo, blandirlo, facendo propri i suoi punti di vista, non solo riguardo al consumismo, ma anche al suo (apparente) nemico mortale di allora, il marxismo. Quanti preti operai, quanti - ci duole dirlo – missionari, in quel momento cruciale, “scoprirono” che il marxismo aveva ragione, dopotutto, anzi, che diceva proprio le stese cose che aveva detto Gesù, e si posero alla sua sequela, anche se, nella maggior parte dei casi, lo fecero in maniera ipocrita, cioè senza ammetterlo apertamente, senza dichiararlo: eppure lo fecero, eccome se lo fecero, mutuandone il linguaggio, l’ideologia, i concetti-chiave, la lettura sociologica della realtà, e persino la prospettiva finale: la (supposta) liberazione dell’uomo!
In conclusione: nel giro di pochi anni, la Chiesa fu cambiata: e questo, ormai, lo riconoscono quasi tutti gli storici. Ora, la domanda è: ne avevano il diritto? Qui non stiamo parlando di un partito politico, o d’un movimento ideologico, o culturale; non stiamo parlando di qualcosa di puramente umano, ma della religione cattolica romana, la quale fonda le sue certezze sul concetto della Verità divina, eterna e immutabile, e che, per duemila anni, ha saputo difenderla vittoriosamente contro deviazioni, eresie, scismi, apostasie, persecuzioni, incomprensioni, contro tutti i nemici, sia esterni che interni. Coloro che fanno parte della Chiesa, dal papa sino all’ultimo fedele, sono lì per custodirla, non per cambiarla: il concetto stesso di cambiarla è aberrante. Eppure è proprio quello che è accaduto; ed è accaduto con mentalità gesuitica, nel peggior senso del termine: cioè senza avere la franchezza e l’onestà di dichiararlo, di ammetterlo, di riconoscerlo. Si è voluto cambiare tutto, ma facendo finta che non cambiasse nulla: si è parlato di “mutamento nella continuità”, ma erano vuote formule, perché restava il fatto della “rivoluzione antropologica”: quel che si stava costruendo era una Chiesa ed una religione a misura dell’uomo, e non più di Dio.
Ma c’è un’alta cosa che molti, anche fra i cristiani, nati dopo quella svolta, non possono aver percepito; e cioè la maniera brutale, sbrigativa, impietosa, con la quale una siffatta rivoluzione è stata portata avanti; l’assoluta mancanza di carità verso quei fratelli che non la capivamo, che non la condividevano, che non la sottoscrivevano; e il paradosso per cui i “novatori”, dopo essersi impadroniti di tutte le leve di comando e di quasi tutti gli organi d’informazione e di stampa (basti vedere il radicale, traumatico cambiamento dell’editoria cattolica, prima e dopo il 1965: a partire  dai testi di catechismo e dalle “mitiche” Edizioni Paoline), e mentre sbandieravano la loro volontà di dialogo, di riconciliazione e di fratellanza con tutti i “diversi” possibili e immaginabili, ai cattolici bollati di “tradizionalismo”, invece, ed a loro soltanto, riservavano il massimo disprezzo, un fastidio e una repulsione quasi di ordine fisico, una insofferenza e una durezza inusitati. I “tradizionalisti”, infatti, rappresentavano quel passato che si voleva cancellare; e i progressisti, si sa (anche questa è una lezione che viene dal mondo, ma che non faceva parte per nulla della cultura cattolica) vedevano in loro tutto ciò di cui ora si vergognavano, tutti gli “errori” fatti dalla Chiesa in precedenza, tutto un modo di essere che li metteva fortemente a disagio nel loro brillante e più che amichevole “dialogo” con le realtà del mondo profano.
Un buon esempio di questa durezza ideologica, di questa sostanziale assenza di carità cristiana, peraltro ammantata da buonismo tanto dolciastro, quanto ipocrita, è offerta dalla poderosa (quasi 600 pagine) e decisamente agiografica, biografia di papa Roncalli, scritta dal giornalista Peter Hebblethwaite, Giovanni XXIII, il papa del Concilio, dalla quale riportiamo, a mero titolo di esempio, una pagina dedicata al cardinale inglese William Godrey (Liverpool, 1889- Londra, 1963), le cui idee “non allineate” poco piacevano, evidentemente, al suo connazionale, autore del libro (titolo originale: John XXIII. Pope of the Council, London, Chapman-Cassell 1984; edizione italiana a cura di Marco Roncalli, Milano, Rusconi, 1989, pp. 613-615):

Il giorno dopo, 13 ottobre [cioè il terzo giorno dopo l‘apertura ufficiale del Concilio, l’11 ottobre 1962], papa Giovanni incontra gli “osservatori” nella Sala concistoriale e i giornalisti – affinché si assumano la loro terribile responsabilità in modo corretto – nella Cappella Sistina. La sua esortazione è questa: osservatori e giornalisti sappiano  e facciano sapere che questo concilio sarà diverso. […]
Gli osservatori rimangono affascinati. Joseph Jackson, presidente della Convenzione azionale battista, di Chicago, ministro negro che si trova là perché papa Giovanni l’aveva incontrato e l’aveva invitato, prende atto della “buona volontà di entrambe le parti”. John Moorman, vescovo anglicano di Ripon, dice: “Sentivamo di essere membri di una stessa famiglia”. Max Thurian, di Taizé, sottolinea “la semplicità e la cordialità” di papa Giovanni; “dicendo queste parole parlava come un sacerdote” (Caprile, II, p. 15). Interrogati sulle loro impressioni, gli osservatori ortodossi russi rispondono gentilmente “no comment”, proprio come rispondono alla maggior parte delle domande.
Introdotti e accompagnati dagli uomini di Agostino Bea, partecipano subito alla nuova impresa, e, nel gergo romano curiale, parlato dell’”aula” (l’assise conciliare) e degli “schemata” (i testi preparatori). Fanno speso la dolorosa esperienza di sentirsi mal compresi negli “schemi” e di essere maltrattati nell’”aula”. Il cardinale William Godfrey, per esempio, si dichiara contro l’uso della lingua nazionale adducendo come scusa [sic]che gli anglicani l’hanno adottata e che, malgrado la bellezza del loro culto, “le loro chiese sono vuote e le loro sono piene” (“Acta Synoidalia Concilii Vaticani II, I, 1, p. 374; 23.10.1962).
Cercando di correggersi, il 4 dicembre, egli spiega che è completamente falso sostenere che i cattolici inglesi diano prova di “freddezza e di mancanza di simpatia nei confronti dei loro fratelli separati”. Li amano molto, ma non vogliono ingannarli. Sarebbe dar prova di un “falso irenismo” lasciar credere che “tutti i credenti non cattolici ci sono vicini nella fede” (Ibidem,, I, 4, p.  221). Francamente, non sarebbe stato meglio che Godfrey, condannato da una malattia mortale, fosse rimasto a casa sua?
Godfrey era molto, molto malato. L’arcivescovo Derek Worlock tiene a precisare che qualsiasi giudizio sul suo operato al Concilio non deve dimenticare che quella era la sua condizione e le sofferenze che accompagnavano la sua condanna a morte, sentenziata dal cancro (lettera all’Autore, 19.3.1985). Il suo successore, l’arcivescovo John Carmel Heenan, scrive nel suo diario: “Il cardinale soffre ancora dei postumi di un intervento chirurgico che risale all’anno scorso ed è difficile trovare qualcosa da dire che egli comprenda chiaramente o rapidamente” (“Crown of Thorns”, p. 347).
Bea e il suo entourage consolano gli osservatori facendo notare che il Vaticano I è stato ben peggio; quando il vescovo Joseph Strossmayer, della Bosnia, ebbe a dire che vi sono molti protestanti che “sono nell’errore in buona fede”, venne insultato : “Vergognati, eretico, scendi dalla cattedra! Antahema sit!” (McGregor, p. 36). Si sono dunque fatti progressi. Gli osservatori credono che papa Giovanni stia tutto dalla loro parte e sanno che attraverso la mediazione di Bea e del vescovo Emile Josef de Smedt, di Bruges, possono persino far ascoltare la loro voce persino [sic] in “aula”. Il titolo di “osservatore” dà l’idea di una passività che non corrisponde correttamente al loro effettivo ruolo. Nelle sessioni seguenti assumerà una considerevole estensione.

Ci domandiamo se autori come questo – si legga la sua biografia di prete spretato, di ex gesuita che vuol continuare a fare il gesuita più del papa, e che, infatti, è entrato nelle grazie dei vertici supremi della Chiesa, lui e sua moglie Margareth, teologa divenuta molto amica di Bergoglio – si siano mai domandati se la cinica osservazione, chi gliel’ha fatto fare a quel cardinale, che stava per morireecc., se la siano mai posta nei confronti del loro idolo, quel Giovanni XXIII che era, anch’egli, condannato da un male incurabile – e lo sapeva -, tanto è vero che non poté vedere come il Concilio da lui convocato (e che si era illuso di chiudere in un paio di mesi) si concluse in effetti. Oppure il cinismo vale solo in una direzione, cioè quando viene rivolto contro quanti non erano favorevoli alla “svolta”? Ebbene: questo cinismo, questa durezza, furono riservati non solo, come nel caso di Godfrey, alla memoria di un morto, ma a migliaia di sacerdoti ben vivi, rei di non volersi intruppare nell’esercito progressista, sotto le cui bandiere spiegate stava marciando, al suono dei pifferi e al rullo dei tamburi, l’intera Chiesa cattolica. E lo stava facendo in un tempo brevissimo, senza quasi dare il tempi ai fedeli di rendersene conto (anche se lo “spirito del Concilio” è stato presentato come dettato da una urgente, pressante richiesta montante “dal basso”). Peter Hebblethwaite intitola il capitolo, da cui abbiamo estratto la pagina sopra riportata, Sessanta giorni per cambiare la Chiesa. Già, appunto. Ma c’è qualcuno, e sia pure il papa, che ha il diritto di cambiare la Chiesa, e di farlo, per giunta, in sessanta giorni?
E poi quella calunnia, quel giudizio sprezzante sul Concilio Vaticano I; quel dare per sottinteso che, di concili importanti, nella storia della Chiesa, ce n’è stato uno solo, tanto è vero che basta dire “il Concilio” per capire al volo che si parla del Vaticano II – l’unico, si noti bene, che fu convocato in totale assenza di motivazioni dogmatiche e dottrinali: tutto questo è accettabile? E, soprattutto, è effettivamente cristiano? È cattolico? Giornalisti ed autori come Hebblethwaite – che, lo ripetiamo, non è uno qualsiasi, ma era considerato uno dei massimi vaticanisti, e, senz’altro, uno dei più graditi alla Santa Sede – non si permetterebbero mai di esprimere simili giudizi su esponenti del mondo protestante, tanto meno su esponenti del giudaismo o dell’islamismo; nei confronti di personaggi come il cardinale Godfrey, però, si sentono autorizzati – nonché spalleggiati - a parlare in questa maniera sprezzante, impietosa, crudele. E qual è la colpa di uomini come Godfrey, se non quella di voler difendere la Tradizione cattolica, così come l’hanno a loro volta ricevuta, per tramandarla alle generazioni successive nella sua integrità e purezza?
Decisamente, qui c’è qualcosa che non quadra. In una “normale” evoluzione storica, le cose non vanno in questo modo (senza contare che una “normale” evoluzione storica non cambia la Chiesa, due volte millenaria, in sessanta giorni o in quattro-cinque anni); oppure, se ci vanno, ciò avviene nel mondo profano, dove i vincitori del momento si preoccupano innanzitutto di far sparire le ragioni dei vinti, cioè di riscriverla storia a loro uso e consumo. Ma una simile logica, all’interno della Chiesa cattolica, è inammissibile. Qui ci troviamo in presenza di un colpo di mano contro la verità: contro la verità storica, prima a ancora che contro la Verità soprannaturale del cristianesimo.
Chi si è assunto la responsabilità di fare una cosa del genere, e chi continua per questa via, si assume una responsabilità terribile: davanti agli uomini e davanti a Dio.
Non vorremmo essere al suo posto, né ora, né mai.


A chi vuol cambiare la Chiesa manca l’essenziale: un briciolo di carità cristiana

di

Francesco Lamendola

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