E' L'ORA DEL "DISCERNIMENTO"?
Discernimento per Cristiani omosessuali e Lgtb. La mèta cristiana è conquistare un di più di vita? Ci domandiamo se l’insegnamento della Chiesa sia cambiato, senza peraltro che a qualcuno sia venuto in mente di spiegarcelo
di Francesco Lamendola
Pullulano, ormai, in Italia e nel mondo, gruppi che si autodefiniscono di Cristiani omosessuali o di Cristiani LGTB. E cominciano a pullulare sacerdoti, e anche qualche vescovo, i quali indirizzano una specifica missione pastorale verso di essi, chiamandolo “cammino di accompagnamento”. Già, ma accompagnamento verso che cosa? Verso che cosa è in cammino il cristiano, il cristiano in quanto tale, senza sigle o simboli di sorta, ma semplicemente come persona?
A questa domanda risponde don Christian Medos, triestino, definito “prete delle frontiere esistenziali”, che, dal 2012, sta dedicando gran parte del suo impegno sacerdotale ai divorziati e alle persone omosessuali, presso la Casa del Sacro Cuore di Galloro (Roma), insieme ad alcuni altri religiosi e religiose. Egli sostiene, come parecchi altri preti dei nostri giorni, che – da un punto di vista cristiano - non esistono solo il bianco e il nero, e che l’importante, nell’azione pastorale del sacerdote, è il “discernimento”, parola venuta di gran moda durante il pontificato di Bergoglio, che significa, in pratica, che i Sacramenti e gli stessi comandamenti non sono più una norma di vita assolutamente vincolante (indissolubilità del matrimonio; condanna del “peccato impuro contro natura”), perché prima viene la persona, e i casi umani sono sempre complessi, ragion per cui bisogna valutare caso per caso – gira e rigira, è sempre il vecchio “casuismo” gesuitico – se una cosa sia buona oppure no, e se sia moralmente lecita o illecita. Soprattutto, non si deve giudicare mai (“e chi sono io per giudicare?”), facendo una maledetta confusione fra l’esortazione di Gesù a non giudicare i propri fratelli, e il diritto/dovere, per il cristiano, di giudicare il peccato, senza di che egli stesso incorrerebbe in un altro peccato: quello d’aver omesso di testimoniare la verità, offrendo al fratello peccatore la possibilità di capire che sta sbagliando, e, così, di ravvedersi. Perché questa è la vera carità: testimoniare – innanzitutto, con il proprio modo di vivere, e poi, anche, all’occorrenza, con atti e parole ben precisi – il Vangelo: il che non può voler dire che si debba tacere, o addirittura approvare, in presenza di comportamenti oggettivamente sbagliati, disordinati, immorali, i quali scaturiscono dall’egoismo degli istinti umani e non obbediscono alla Verità proclamata dal Vangelo. Oggi si nota perfino la tendenza, da parte di esponenti del clero, e di molti sedicenti teologi cattolici, a negare che vi sia il peccato, in nome di una pretesa “naturalità” della vita umana: il che - a proposito di discernimento, ma quello rettamente inteso e non quello manipolato ad uso di logiche opportuniste – equivale a uno stravolgimento e ad un capovolgimento della legge di Dio, secondo il metro delle passioni umane.
Ed ecco qual è la filosofia, anzi (fino a prova contraria) la teologia del “discernimento”, nelle testuali parole di don Medos (dal settimanale Credere, n. 11 del 2016): quella il cui unico obiettivo è raggiungere un “di più” di vita, un “magis” nella persona; mentre il “lavoro” del sacerdote (“lavoro” è la sua espressione) spesso consiste nell’aiutare le persone a sentire e gustare questa presenza [cioè di Dio] e a superare paure e sensi di colpa. Strano: credevamo che aiutare le persone a superare paure e sensi di colpa non fosse compito del sacerdote, ma, semmai, di psicologi e (per chi ci crede) psicanalisti; paure e sensi di colpa, infatti, sono passioni umane, e, tutt’al più, in un’ottica cristiana si possono considerare come effetti di un disordine morale, non come “mali” in se stessi, da eliminare. Quanto al fatto di raggiungere un “di più” di vita, ci sembra una posizione cristianamente insostenibile: a meno di specificare che non si sta parlando della “vita” in senso neutro, in senso naturalistico; che non si sta parlando della vita naturale, biologica e psichica, ma della vita dell’anima, cioè della vita soprannaturale: quello è il “di più” a cui il cristianesimo tende, e che si sforza di raggiungere, ben sapendo, peraltro, che il raggiungimento finale, quello pieno, non può aver luogo nel corso della vita terrena, ma solo nell’altra. Perché,per il cristiano, la vita “vera” non è questa, ma quella: questa è solo un passaggio, un pellegrinaggio, un “momento”.
Il cristiano non è stato chiamato in questa vita per piantare le tende e accamparsi a tempo indeterminato, cioè per godersela fino in fondo; non pensa che tutto quel che è lasciato, sia da considerarsi perso, e che, quindi, bisogni sfruttare ogni occasione, cogliere al volo ogni possibilità di piacere e di realizzazione che la vita offre, sapendo che potrebbe non essercene una seconda. Niente affatto: le occasioni possono essere buone o cattive: sono buone se offrono la possibilità di crescere nella perfezione spirituale; cattive, se vanno nella direzione opposta. Il cristiano non è sulla terra per godere; non è neppure un masochista che desidera soffrire, per il gusto della sofferenza: è un penitente, conscio del fatto che esiste una maniera sola per crescere spiritualmente, lasciarsi provare dalla sofferenza, pur senza averla cercata; accettare la croce; accogliere serenamente le prove che lo stesso Gesù Cristo, quando si è fatto uomo, ha affrontato prima di lui.
Ma torniamo a don Medos e alla sua teologia dei marginali, che presenta una somiglianza superficiale con il fatto che Gesù andava a cercare i peccatori e mostrava per essi una speciale sollecitudine: superficiale, perché Gesù non incoraggiava i peccatori a perseverare nel peccato, né, tantomeno, negava che il peccato fosse tale, o li rassicurava sul fatto che, pur essendo peccatori, la cosa andava ugualmente bene: al contrario, Gesù andava dai peccatori per convertirli e aiutarli a cambiar vita, e infatti sosteneva che, come i malati han bisogno del medico, così i peccatori hanno bisogno di una speciale attenzione da parte del Figlio di Dio. Alla peccatrice sorpresa in flagrante adulterio, comunque, non disse: Va’ in pace, e continua a fare il tuo comodo; ma disse: Io non ti condanno: va’, e, da ora in avanti, non peccare più. Sono parole chiarissime: nondimeno, i preti confusionari e buonisti hanno trovato il modo di confonderle e imbrogliarle in maniera tale, da averne smarrito completamente il significato. Don Medos, poi, porta due esempi a favore delle sue posizioni: quello di due divorziati risposati, “molto credenti” (dice testualmente) e quello di una persona omosessuale che scopre l’esistenza dei cosiddetti cristiani omosessuali. Ecco le sue parole:
Si avvicinava il giorno della prima Comunione di loro figlio [cioè della coppia di divorziati risposati, e tuttavia, chi sa come, anche “molto credenti”] e, dopo un lungo discernimento fatto con il parroco, decisero di partecipare alla Messa senza prendere l’ostia. [Ma ecco che al termine della Messa il figlio corre da loro e li abbraccia forte.] I genitori sentirono qualcosa di grande: Gesù Eucaristia in qualche modo stava scaldando il loro cuore attraverso l’abbraccio di loro figlio: altro che comunione spirituale! Qui c’è ben di più.Incredibile: un prete cattolico definisce l’Eucaristia una semplice ”comunione spirituale” (altro che transustanziazione! nemmeno i luterani arrivano a svalutare così il Sacramento eucaristico), che è cosa da nulla, in confronto all’abbraccio del figlio ai suoi genitori: perché in quel’abbraccio era Gesù stesso che stava scaldando il loro cuore. E chi lo dice, questo? Il prete, soggettivamente. Il prete decide che Gesù, facendo abbracciare dal figlio due genitori divorziati e risposati – e dunque in doppio peccato mortale: perché divorziati e perché risposati – ha inteso che quell’abbraccio valga infinitamente di più della semplice Comunione. Del “non peccare più”, s’è persa ogni traccia; i due genitori, divorziati e risposati, ma, per carità, molto credenti, mediante quell’abbraccio, ricevono da Gesù stesso la remissione del loro peccato, e senza nemmeno l’esortazione a pentirsi e convertirsi: no, va tutto bene così Tutti gli uomini, indipendentemente dalla loro vita, anche i peccatori mortali, sono già nell’amore di Cristo, senza bisogno di pentirsi. In fondo, a questo punto, perché ostinarsi a chiamare “peccato” ciò che Gesù stesso mostra di non considerare più nemmeno tale?
Ed ecco il secondo episodio: quello di una persona omosessuale che, dice don Medos, ha negato la propria identità fino ai 50 anni, per non rattristare i propri genitori, con i quali viveva. Morti i genitori, si sentì quasi esplodere. La sofferenza di essersi privato della possibilità di amare ed essere amato lo condusse a una crisi profondissima, umana e di fede. Poi venne a conoscenza dell’esistenza dei gruppi di omosessuali cristiani sparsi in giro per l’Italia. Iniziò a partecipare agli incontri di preghiera e di riflessione e gli si aprì un mondo nuovo. Parole testuali di don Christian. Ma è così che deve sentire, parlare, ragionare ed agire un prete cattolico? Con tutto il rispetto dovuto alla buona fede di quel sacerdote e alla sofferenza di quella persona omosessuale, se le parole hanno un senso e la coerenza è un valore, qui siamo proprio fuori dal solco del Vangelo. Vorremmo sapere, da questi preti progressisti e dialoganti con tutti (tranne che con i loro fratelli ch’essi giudicano retrogradi, intolleranti e, in fondo, anche poco cristiani, e verso i quali hanno solo espressioni di disdegno e insofferenza), in quale passo del Vangelo, in quale insegnamento papale, in quale enciclica, in quale concilio, in quale aspetto della Tradizione, essi trovano il necessario appoggio teologico e pastorale per fare simili affermazioni e per agire in tale maniera. Il Vangelo afferma che “non bisogna negare se stessi”? Tutto al contrario: dice che bisogna negare se stessi, prendere la propria croce e seguire Gesù. Dice che bisogna crocifiggere il proprio egoismo e morire alla vita del mondo, per divenire degni della vita eterna. Domandiamo, sommessamente, se l’insegnamento della Chiesa sia cambiato, senza, peraltro, che a qualcuno sia venuto in mente di spiegarcelo; se la dottrina cattolica non sia più quella che è sempre stata; se sia normale che, oggi, certi preti affermino cose perfettamente opposte a quelle che essi affermavano, o che affermavano i loro colleghi, fino a pochissimo tempo fa. E, se così non è, chiediamo con quale diritto quei preti stravolgano la dottrina cattolica. Se lo è domandato anche una signora, lettrice del settimanale suddetto, la quale si dice “colpita” dall’espressione “gruppi di omosessuali cristiani”; e chiede (sul n. 24): Come si fa a essere cristiani e commettere uno dei peccati che “gridano vendetta al cospetto di Dio”? Vale la pena di riportare integralmente la risposta del direttore, don Antonio Rizzolo:
L’espressione “peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio” si trova nel catechismo di san Pio X. Si tratta dell’omicidio volontario, del peccato impuro contro natura, dell’oppressione dei poveri e del defraudare della giusta mercede chi lavora. L’origine dell’elenco è biblica, come risulta nell’attuale Catechismo, che al numero 1867 li definisce “peccati che gridano verso il cielo”, cioè verso Dio. Che cosa chiede al Signore di intervenire subito? Il sangue di Abele (Genesi, 4, 10); il peccato dei Sodomiti (Genesi, 18, 20; 19, 13); il lamento del popolo oppresso un Egitto (Esodo, 3, 7-10); il lamento del forestiero, della vedova e dell’orfanello (Esodo, 22, 20-22); l’ingiustizia verso il salariato (Deuteronomio, 24, 14-15; Giacomo, 5, 4). Riguardo al peccato degli abitanti di Sodoma, dal testo biblico emerge la loro mancanza di ospitalità. In ogni caso, ESSERE OMOSESSUALI NON È UN PECCATO. BISOGNA INFATTI DISTINGUERE, DICE IL CATECHISMO, TRA LE PERSONE E I LORO ATTI [la sottolineatura è nel testo]: “Un numero non trascurabile di uomini e di donne presenta tendenze omosessuali profondamente radicate. Questa inclinazione, oggettivamente disordinata, costituisce per la maggior parte di loro una prova. Perciò devono essere accolti con rispetto, compassione, delicatezza. A loro riguardo si eviterà ogni marchio di ingiusta discriminazione. Tali persone sono chiamate a realizzare la volontà di Dio nella loro vita, e, se sono cristiane, a unire al sacrificio della croce del Signore le difficoltà che possono incontrare in conseguenza della loro condizione”.
Quale capolavoro di gesuitica ambiguità, di melliflua evasività: sono frasi che vorrebbero dire tanto, e non dicono nulla. Punto primo: certo, è stato san Pio X a stilare l’elenco dei quattro peccati che gridano vendetta a Dio; e perfino il Catechismo attuale, pur inquinato di modernismo, lo ribadisce: dunque, il Magistero non ha cambiato posizione (e come lo potrebbe? non si tratta di cosa umana, ma divinamente ispirata). Punto secondo: che cosa sta dicendo, don Antonio Rizzolo: che gli abitanti di Sodoma provocarono l‘ira di Dio, e che furono puniti con la distruzione della loro città, per essere stati poco ospitali? Ma dove ha letto la Bibbia, caro padre: su qualche riduzione a fumetti? Di questa strada, possiamo anche sostenere che Gesù Cristo è morto sulla croce di… raffreddore.Altro che mancanza di ospitalità: di “ospitalità”, ma quella brutalmente omosessuale, essi ne volevano offrire sin troppa, agli stranieri capitati nella casa di Lot (i quali, in realtà, erano due angeli). Punto terzo: è verissimo che essere omosessuali non è un peccato (parlando, si capisce, delle persone che sono realmente tali, e che lo sono fin dalla nascita; non di quelle che indulgono al vizio per curiosità o per mera ricerca di un piacere sessuale “diverso”): e non ci piove sul fatto di accoglierle con rispetto, compassione e delicatezza: ma cosa significa che esse sono chiamate a realizzare la volontà di Dio nella loro vita, e, se sono cristiane, a unire al sacrificio della croce del Signore le difficoltà che possono incontrare in conseguenza della loro condizione? Bisogna essere chiari, su questo punto; stiamo parlando delle difficoltà che quelle persone incontrano nel resistere a una tendenza oggettivamente disordinata della loro natura, oppure delle difficoltà che incontrano perché a quella tendenza si abbandonano, cosa che suscita la riprovazione altrui? Qui sta il punto...
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