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giovedì 30 giugno 2016

La ‘preghiera per la pioggia’

“Preghiera per la pioggia” palestinese: Israele e l’uso dell’acqua come arma di guerra

di  Ramzy Baroud
Comunità intere, in Cisgiordania, non hanno accesso all’acqua o hanno avuto il rifornimento idrico ridotto quasi della metà.
Questa situazione drammatica è in corso da settimane, da quando l’azienda idrica nazionale israeliana, la ‘Mekorot’, ha deciso di tagliare – o di ridurre in modo considerevole – la fornitura a Jenin, a Salfit, in molti paesi attorno a Nablus e in altre zone.
Secondo il primo ministro dell’Autorità palestinese, Rami Hamdallah, Israele sta conducendo una ‘guerra dell’acqua’ contro i palestinesi. La cosa paradossale è che l’acqua fornita da Mekorot è in realtà acqua palestinese, usurpata da fonti acquifere della Cisgiordania. Mentre gli israeliani, compresi quelli delle colonie illegali di Cisgiordania, ne usano la maggior quantità, ai palestinesi l’acqua viene rivenduta a caro prezzo.
Chiudendo i rifornimenti idrici quando funzionari israeliani hanno in programma l’esportazione di acqua in realtà palestinese, Israele usa l’acqua come mezzo di punizione collettiva.
Questa non è una novità. Ricordo ancora l’ansia nella voce dei miei genitori quando temevano che il rifornimento idrico venisse abbassato a livelli pericolosi. Se ne discuteva quasi quotidianamente, a casa.
Quando scoppiavano degli scontri tra ragazzini che tiravano pietre e le forze di occupazione, intorno al campo profughi, correvamo sempre, istintivamente, a riempire i pochi secchi e contenitori sparsi intorno a casa.
Ciò avveniva durante la prima intifada palestinese, scoppiata nel 1987 nei Territori palestinesi occupati.
Ogniqualvolta scoppiavano degli scontri, una delle prime cose attuate dall’amministrazione civica israeliana – titolo meno infausto per gli uffici dell’Esercito di occupazione israeliano – era la punizione collettiva dell’intera popolazione del campo profughi in cui la ribellione era esplosa.
Le misure intraprese dall’Esercito israeliano divennero ridondanti e più vendicative col tempo: un rigido coprifuoco militare (ovvero la chiusura dell’intera area e la reclusione di tutti i residenti nelle loro case sotto minaccia di morte), il taglio della fornitura elettrica e il taglio della fornitura idrica.
Chiaramente queste misure vennero prese solo nella prima fase della punizione collettiva, che durava giorni o settimane, a volte mesi, spingendo alcuni campi profughi alla fame.
Poiché i rifugiati potevano fare poco per sfidare l’autorità di un esercito ben equipaggiato, essi investivano ogni scarsa risorsa del loro tempo per ingegnarsi alla propria sopravvivenza.
Così nacque l’ossessione per l’acqua, in quanto una volta tagliata la fornitura c’era poco da fare, se non, chiaramente, intonare la Salat al-Istisqa’, la ‘preghiera per la pioggia’, che i musulmani devoti invocavano nei periodi di siccità. Gli anziani del campo insistono a dire che funziona, e raccontano storie miracolose del passato, quando questa preghiera speciale portava i suoi risultati d’estate, quando la pioggia era meno attesa.
Hanno pregato per la pioggia più palestinesi dal 1967 che in qualsiasi altro periodo. Durante quell’anno Israele occupò le ultime due regioni della Palestina storica: la Cisgiordania, con Gerusalemme est, e la Striscia di Gaza. E in questi 49 anni Israele ha messo in atto una protratta politica di punizione collettiva, limitando ogni tipo di libertà e utilizzando la negazione dell’acqua come un’arma.
In realtà l’acqua è stata usata per sottomettere i palestinesi ribelli durante molte fasi della loro lotta. Anzi, questa storia risale al 1948, quando le milizie sioniste tagliarono l’acqua nei villaggi palestinesi intorno a Gerusalemme per facilitare la pulizia etnica della regione.
Durante la Nakba (catastrofe) del 1948, se un villaggio o una città venivano conquistati, le milizie immediatamente ne distruggevano i pozzi per impedirne il ritorno degli abitanti. I coloni illegali israeliani usano ancora oggi questa tattica.
Anche i militari israeliani continuano ad attuare questa strategia, soprattutto nelle prime o seconde rivolte. Durante la seconda intifada gli aerei israeliani bombardarono i pozzi di qualsiasi villaggio o campo profughi che intendevano invadere o sottomettere. Durante l’invasione e il massacro nel campo profughi di Jenin, nell’aprile 2002, il rifornimento idrico del campo venne fatto saltare in aria prima dell’invasione da ogni direzione dei militari che ferirono e uccisero centinaia di persone.
Gaza rimane, ad oggi, l’esempio più estremo di punizione collettiva attuata con l’acqua. Non solo gli impianti di rifornimento idrico vengono bombardati, durante la guerra, ma i generatori elettrici, che sono utilizzati per purificare l’acqua, vengono anch’essi fatti saltare dal cielo. E quando l’assedio decennale sarà terminato, saranno poche le speranze di poter riparare gli uni e gli altri.
È ora un dato di fatto che gli Accordi di Oslo sono stati un disastro politico per i palestinesi; meno noto è come Oslo abbia facilitato le ineguaglianze in corso in Cisgiordania.
La così detta Oslo 2, o l’accordo ad interim israelo-palestinese del 1995, rese Gaza un settore idrico separato dalla Cisgiordania, lasciando alla Striscia lo sviluppo delle proprie fonti d’acqua. Con l’assedio e le guerre continue, le falde acquifere di Gaza riescono a produrre tra il 5 e il 10% di acqua potabile. Secondo Anera, il 90% dell’acqua di Gaza non è adatta al consumo umano.
Pertanto, la maggior parte dei gazawi fa uso di acqua inquinata da liquami o di acqua non trattata. Ma la Cisgiordania dovrebbe – almeno in teoria – godere di un maggiore accesso all’acqua rispetto a Gaza. Questo però accade difficilmente.
La risorsa d’acqua maggiore della Cisgiordania è la falda montuosa, che comprende diversi bacini; quello settentrionale, quello occidentale e quello orientale. L’accesso dei cisgiordani a questi bacini è ristretto da Israele, che vieta loro anche l’accesso all’acqua del Giordano e della falda costiera. Oslo 2, che sarebbe dovuto essere un accordo temporaneo fino alla conclusione dei negoziati, ha permesso la continuazione delle ineguaglianze esistenti concedendo ai palestinesi meno di un quinto della quantità d’acqua goduta da Israele.
Ma nemmeno quell’accordo svantaggioso è stato rispettato, anche perché un comitato misto incaricato di risolvere la questione dell’acqua dà a Israele potere di veto sulle richieste palestinesi. In pratica, ciò si traduce nell’avallo del 100% dei progetti idrici israeliani, compresi quelli delle colonie illegali, e nel rifiuto di quasi la metà delle necessità palestinesi.
Secondo Oxfam attualmente Israele controlla l’80% delle risorse idriche palestinesi. “I 520mila coloni israeliani utilizzano approssimativamente sei volte il quantitativo d’acqua utilizzato dai 2 milioni e 600mila palestinesi in Cisgiordania.
Secondo Stephanie Westbrook, che scrive per la rivista indipendente israeliana +972, il ragionamento che sottende questa situazione è chiaro: “L’azienda che estrae l’acqua è la Mekorot, azienda nazionale israeliana. Essa gestisce oltre 40 pozzi in Cisgiordania, appropriandosi di risorse idriche palestinesi. Israele pertanto controlla le valvole, decidendo chi avrà l’acqua e chi no”.
“Non sorprende se la priorità va alle colonie israeliane, mentre le città palestinesi subiscono tagli o riduzioni”, come sta accadendo ora.
È un’ingiustizia inspiegabile, ma da quasi 50 anni Israele impiega le stesse politiche contro i palestinesi, senza incontrare troppe censure o altre azioni significative da parte della comunità internazionale.
Con le attuali temperature, che in Cisgiordania arrivano ai 38 gradi, intere famiglie vivono con appena 2 o 3 litri d’acqua a disposizione pro capite. Il problema sta raggiungendo dimensioni catastrofiche. Questa volta la tragedia non può essere accantonata, il benessere e la vita di intere comunità è a rischio.
Fonte: Infopal
Traduzione:  di Stefano Di Felice

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