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mercoledì 6 luglio 2016

Il mistero della grazia

SCRITTURA E VITA INTERIORE

    La piena attuazione della Scrittura si attua solo nel vertice della vita interiore. Quante idee confuse ci sono oggi intorno al cristianesimo e alla lettura delle Sacre Scritture: Vangelo e Bibbia non sono libri qualsiasi 
di Francesco Lamendola  

  


Quante idee confuse ci sono oggi intorno al cristianesimo; e, quel che dà maggiormente da pensare, quanta confusione viene proprio di là, donde dovrebbe venire la luce: dai vescovi, dai sacerdoti, dai teologi che si dicono cattolici. In linea generale, è diffusa l’idea che essere cristiani equivalga ad aver letto il Vangelo, a condividerne il messaggio, a cercar di attuare la morale predicata da Gesù Cristo: e questo sarebbe, più o meno, tutto quel che occorre. Quasi che il cristianesimo fosse una delle filosofie, o uno dei tanti sistemi di etica, che l’uomo moderno trova offerti a sua disposizione e dai quali attinge liberamente, per quello che gli serve e se ritiene d’averne bisogno.
Le cose stanno in maniera un po’ diversa.
Il cristianesimo è, innanzitutto, una chiamata alla partecipazione alla vita divina, annunciata da Gesù Cristo e permeata dall’azione dello Spirito Santo; in altre parole, è una chiamata alla santità. Non è, o non è principalmente, un sistema di pensiero; non è una morale fra le tante; e non è nemmeno un annuncio “ideologico”, una proclamazione di principi, una affermazione di valori. No: è l’invito a farsi tutt’uno con la vita di Cristo; a lasciar andare il proprio io e a sciogliersi nella volontà di Dio; è un dire  a ciò che Dio vuole e non a ciò che vogliamo noi.
L’idea che la santità sia una cosa specialissima e pressoché irrealizzabile, anche se teoricamente desiderabile, insomma che sia una cosa riservata ai santi, è una delle false idee più radicate di tanti, di troppi cristiani. Nessun uomo nasce santo e nessuno resta escluso dalla chiamata alla santità. La santità, o, per dir meglio, la santificazione (poiché si tratta di un processo, prima di essere uno stato, e di una battaglia quotidiana, che non finisce mai, sino all’ultimo istante della vita terrena) è una meta realizzabile, possibile, addirittura necessaria, per essere cristiani. Chi non si propone, almeno in linea di massima, di realizzare in se stesso la santificazione, non ha capito niente del Vangelo, anche se va a Messa ogni giorno e consuma i banchi a forza d’inginocchiarsi.
Ma che cosa vuol dire realizzare la propria santificazione? Vuol dire che, per capire davvero il Vangelo, bisogna sforzarsi di viverlo. Tutto qui. Certo, è un compito immenso: e, nondimeno, un compito possibile, purché si tenga sempre presente che non siamo chiamati a realizzarlo con le nostre povere forze umane, ma con l’aiuto soprannaturale della Grazia. La Grazia è il ponte che Dio getta fra Lui e noi, per la nostra santificazione, cioè per chiamarci a Sé. E tuttavia, il mistero è questo: che senza la Grazia non possiamo fare niente, non possiamo partecipare alla vita divina; la Grazia, però, non ce la possiamo dare da soli: possiamo solo bussare alla porta e attendere che ci venga aperta. Forse è più esatto dire che la porta è già aperta, è sempre stata aperta, non è mai stata chiusa: ma noi, nella nostra pigrizia e mancanza di fede, abbiamo preferito pensare che lo fosse, proprio come lo studente pigro e sfiduciato pensa che sia inutile sforzarsi di studiare la matematica, tanto non la capirà mai e non riuscirà mai a passare gli esami. Però non ci ha mai provato veramente; non si è mai messo in gioco con dedizione assoluta.
In altre parole, leggere il Vangelo va bene; leggere la Bibbia, va bene: ma non ne comprenderemo mai l’intimo significato finché leggiamo quelle pagine come si leggerebbe un libro qualsiasi, per quanto bello e affascinante. No: bisogna cercare di viverle; bisogna prendere a modello Gesù Cristo, il quale, come uomo, ebbe Lui pure il suo momento di smarrimento, e pregò il Padre suo che gli fosse risparmiato di bere il calice della Passione; ma poi, subito si riprese (con il conforto di un Angelo mandato apposta per ciò) e concluse la preghiera, dicendo: Tuttavia, non quello che voglio io, ma sia fatto quello che vuoi Tu. Ecco, questo è il modello. Il cristiano non si limita a leggere quelle parole; deve farle proprie, deve calarle nella realtà della sua vita, nei suoi pensieri e nelle sue azioni; soprattutto nel suo sentire. Deve abbandonare anche l’ultima illusione di poter fare da sé, di poter contare sulle proprie forze, e riporre tutta la sua fede in Dio solo, sorgente di ogni buona ispirazione e di ogni possibile risorsa per affrontare le prove della vita, e meta finale di ciascuno dei passi che ci riconducono verso il punto da cui abbiamo avuto inizio. In altre parole, il Vangelo e la Bibbia non vanno solamente letti, e magari imparati a memoria, ma meditati in profondità, con un abbandono totale della mente e del cuore, che si chiama fede.
Uno dei più illustri teologi morali del secolo scorso, il salesiano padre Amato Dagnino (1918-2013), scriveva, in uno dei suoi preziosi manuali di spiritualità, La Vita cristiana, o il mistero pasquale del Cristo mistico (Cinisello Balsamo, Milano, Edizioni Paoline 1973, pp. 983-985):

Vorremmo concludere cercando di dimostrare […] un pensiero da cui non abbiamo mai saputo liberarci e che ci pare molto interessante, cioè: LA PIENA ATTUAZIONE DELLA SCRITTURA SI HA SOLO NEGLI STATI PIÙ ELEVATI DELLA VITA INTERIORE DESCRITTI DA S. GIOVANNI DELLA CROCE, DA S. TERESA D’AVILA, DA S. FRANCESCO DI SALES; stati che di conseguenza, sono, per sé, la NORMALE ED OBBLIGATORIA attuazione della medesima.
Questa la tesi che dovremmo documentare. Non faremo che riferire alcune espressioni scritturistiche seguendo l’interpretazione che di esse danno i nostri quattro Grandi.
“… Colui che ci chiamò per la sua gloria e potenza, per le quali ci ha donato i preziosi e magnifici beni promessi, affinché, mediante questi, voi diveniste partecipi della divina natura, dopo aver fuggito la corruzione che è nel mondo per la concupiscenza” (2 Pietro 1, 3-4).
Noi siamo convinti che il mistero della grazia non è penetrato in tutta la sua divina profondità. Non ci si rende sufficientemente contoCHE COSA IMPORTI ESSERE VERAMENTE PARTECIPI DELLA NATURA DIVINA: sopratutto, non si riflette all’intimità dell’unione che si stabilisce tra l’anima e Dio con l’infusione della grazia. Così molto facilmente ci è NOMINALISTI PRATICI nell’interpretazione della Scrittura. Non così però Giovanni della Croce il quale per giustificare teologicamente UNO DEI FENOMENI PIÙ ELEVATI DELLA VITA SPIRITUALE, qual è quello della circumincessione [in realtà, circuminsessione, dal latino “circumincessio”: la reciproca immanenza delle tre Persone della Santissima Trinità] dell’anima, fa precisamente ricorso a questa espressione di Pietro (cf. 1, 38):
“Osservate quale meraviglioso amore ci ha donato il Padre, così che siamo chiamati figli di Dio. E lo siamo in realtà (Gv. 3, 1): “…  diede loro il potere di diventare figli di Dio… che non per via di sangue, né da voglia di carne, né da voglia di uomo, ma da Dio sono nati” (Gv. 1, 12-13).
Qui ci troviamo davanti al miracolo della sovrumana dignità di essere VERI figli di Dio. Molta superficialità e nominalismo anche qui: sia nel valutare LA NATURA INTIMA DELLA FILIAZIONE, sia nel rendersi conto della PERFEZIONE CHE ESSA IMPORTA.
S. Giovanni della Croce invece, ne aveva un’idea adeguata; tanto è vero che per spiegare il sublime fenomeno della circumincessione nell’anima egli fa appello alla sua dignità di VERA figlia di Dio: “Soltanto ci basti sapere”, dice, “che il figlio di Dio ci ottenne un posto sì elevato e ci meritò l’altissimo grado di poter essere figli di Dio…” (Cantico, 39, 3).
S. Giovanni aveva un concetto tanto adeguato della perfezione che la filiazione importa, da affermare che SOLO NELL’UNIONE TRASFORMANTE l’anima ama, conosce e serve Dio da VERA figlia adottiva. “Finalmente, tutti i movimenti, che per l’addietro l‘anima aveva dal principio e dalla forza della sua vita naturale, nell’unione con Dio, si sono cambiati in movimenti divini, morti alla propria operazione ed inclinazione, ma vivi in Dio. Come VERA FIGLIA DI DIO, l’anima è ora mossa in tutto dallo Spirito Santo, come insegna San Paolo (Rom. 8, 14)”.
“Che voi siete figli è chiaro dal fatto che inviò Iddio lo Spirito del Figlio suo nei vostri cuori, che grida: Abba, Padre!” (Gal. 4, 6): “… lo stesso Spirito rende testimonianza insieme con lo spirito nostro che siamo figli di Dio” (Rom. 8, 15): […]
“Se qualcuno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e verremo a lui e stabiliremo presso di lui la nostra dimora” (Gv. 14, 23).
La PIENA attuazione di queste parole si ha quando la Trinità inabitante diventa COSCIENTE E SENTITA: cioè negli ULTIMI gradi della vita spirituale. Infatti S. Giovanni della Croce, per portare una spiegazione teologica dei fenomeni più intimi ed elevati, fa precisamente appello al fatto che l’anima è veramente tempio dello Spirito Santo: “Non è da meravigliarsi”, dice, “che Dio faccia grazie TANTO ECCELLENTI E STRAORDINARIE alle anime… Egli INFATTI dice che in colui che lo avesse amato, sarebbero venuti il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo: il che sarebbe stato facendolo vivere della stessa vita di Dio” (Fiamma, proemio; Cantico, proemio; Fiamma, 1, 13).
A queste medesime parole si appella Teresa per spiegare i fenomeni dell’ULTIMO grado di unione. “La pace interiore in cui sono”, dice, “la poca forza che hanno le gioie ed i piaceri per togliermela, la presenza delle tre divine Persone,… mi fanno pensare a quello che dice S. Giovanni, cioè che la SS. Trinità stabilisce la sua dimora nelle anime”.
“Voi siete morti e la vostra vita è nascosta in Dio con Gesù Cristo” (Col. 3, 3). “La mia vita è Cristo” (Filipp. 1, 21): “… or vivo non più io, ma vive in me Cristo” (Gal. 2, 20).

Sì, possiamo bene immaginarlo: in moltissimi lettori, anche sedicenti cristiani, una pagina come questa suscita, di primo acchito, una sorta di repulsione: Possibile, si chiederanno costoro, che sia necessario, per penetrare il vero senso della Scrittura, spingersi fino a questi vertici della vita interiore? E, soprattutto, ve n’è poi bisogno? Non basta fare come fanno tutti, o quasi tutti: restare più in superficie, ma, in compenso, tenersi bene uniti alla realtà concreta, e dare un contenuto materiale all’amore del prossimo? Infatti l’uomo contemporaneo si è talmente allontanato dalla spiritualità, che trova strane e incomprensibili le parole di un Giovanni della Croce o di una Teresa d’Avila, e si chiede a che cosa servano, dopotutto, i mistici, a cosa serva una vita interiore così purificata e rarefatta: non sarà, per caso, una forma di alienazione, che ci allontana dall’impegno in questo mondo e che giustifica le accuse dei marxisti e, in genere, degli atei, cioè che la religione diventa il rifugio di quanti non amano il mondo e non credono in questo mondo?

Ecco: fino a tanto lo spirito del mondo è penetrato nel cristianesimo, e nella Chiesa stessa; fino a tanto è riuscito a stravolgere e capovolgere il senso del Vangelo. Finché ci saranno dei cristiani i quali vedono una sorta di alternativa, e quasi di contrapposizione, fra la dimensione spirituale e quella pratica e sociale del cristianesimo, vorrà dire che il Diavolo sta facendo piuttosto bene il suo lavoro di confondere le anime, di far leva sulle loro debolezze, sulla loro vanità (perché anche la pretesa di capire il Mistero dell’amore è una forma di vanità: anzi, la più grave di tutte), e che lo spirito del Vangelo, per costoro, è rimasto lettera morta: e la lettera, dice San Paolo, non vivifica, ma uccide. Infatti, la verità è che non esiste alcuna contrapposizione fra spiritualità e vita pratica: la spiritualità è la premessa, la condizione necessaria, nonché lo stato abituale dell’anima, per poter vivere degnamente nella dimensione pratica. Niente spiritualità, niente vita cristiana. Ci sarà, forse, l’apparenza della vita cristiana: ci saranno le opere, molte e rumorose: ma opere umane, senza lo spirito di Cristo, senza la dimensione soprannaturale; opere destinate a fallire, a lasciare il tempo che trovano. Ecco perché è cosa assolutamente necessaria, per il cristiano, pregare, pregare sempre, senza stancarsi mai, secondo l’esortazione di Gesù stesso: per restare unito alla realtà della vita divina, per accogliere in se stesso il mistero della Grazia e della Santissima Trinità; per morire alla vita dell’uomo vecchio e rinascere alla vita dell’uomo nuovo, che è tutt’uno con Cristo. Solo così il cristiano diventa veramente figlio adottivo di Dio: abbandonandosi in Lui. Oggi, su quest’ultimo punto, vi è molta confusione. Pare, a sentir certi teologi e certi pastori, che gli uomini siano già tutti figli di Dio, qualunque cosa facciano, sia che accolgano la sua chiamata, sia che la rifiutino. Logica premessa di questa bizzarra idea è che non esiste la corruzione della natura e, quindi neppure – a rigore – la necessità della Redenzione dal peccato; e logica conseguenza è che non esiste Giudizio, non esistono Inferno e Paradiso, perché Dio, sempre misericordioso, accoglie tutti, perdona tutti, giustifica tutti. Ma questa non sarebbe la misericordia di Dio; questa è soltanto la sovrana confusione teologica dei nostri giorni. Perché l’amore di Dio, certo, è un mistero abissale, insondabile: ma una cosa è certa, esso ha bisogno del sì da parte dell’uomo. Senza quel sì, come il sì pronunciato da Maria all’Arcangelo Gabriele, l’uomo non sarà salvato: perché Dio lo vuole libero…

La piena attuazione della Scrittura si attua solo nel vertice della vita interiore

di Francesco Lamendola

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