ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

lunedì 29 agosto 2016

Il Male è sempre in agguato

QUEL SAN GIORGIO COL DRAGO

    Quel San Giorgio che lotta col drago ai piedi della foresta d’abeti e faggi. Una chiesetta appropriata a ricordarci una grande verità: il Male è sempre in agguato e ciascuno di noi, come San Giorgio, è chiamato ad affrontarlo 
di Francesco Lamendola  




Nella chiara luce d’un limpidissimo mattino di fine estate, la strada si arrampica veloce lungo il fianco della montagna che conduce alla grande foresta di abeti e di faggi – prima gli abeti e più in alto i faggi, cosa strana, perché qui si verifica il fenomeno dell’inversione termica, a causa della particolare conformazione del territorio: la foresta del Cansiglio, situata nel punto d’incontro di due regioni: il Veneto e il Friuli, e di tre province: Belluno, Treviso e Pordenone.
Abbiamo attraversato, per gobbe e lievi avvallamenti, alcuni borghi del paese di Fregona – in effetti, un comune sparso, la cui sede municipale è a Mezzavilla -, non senza una breve sosta nella chiesa arcipretale dall’imponente campanile neogotico, per ammirare la bella pala di Sebastiano Ricci raffigurante Il Crocifisso e le anime purganti, nella cappella di sinistra più vicina al presbiterio; poi, lasciando di lato la deviazione per le famose Grotte del Caglieron, un grandioso spettacolo della natura a cielo aperto, siamo giunti all’altezza della frazione di Osigo, proprio sul lembo estremo della zona abitata, prima che la strada s’arrampichi, con una serie di curve, in verità abbastanza dolci, fino agli oltre 1.100 metri del Passo della Crosetta, per poi ridiscendere d’un centinaio di metri, quasi tuffandosi verso la spaziosa conca della foresta, che si estende come un muraglione color verde smeraldo, fin dove la vista può spaziare.

Osigo è dominata dalla sagoma del suo aguzzo campanile e la chiesa parrocchiale, dalle forme classiche, ospita un gioiello dell’arte, che da moltissimo tempo desideravamo vedere dal vivo, avendolo già ammirato su libri illustrati e, in seguito, anche sul computer: una delle più belle tavole su legno dipinte da Francesco da Milano, che fu eseguita nel 1529 e che raffigura il titolare della chiesa, San Giorgio, nell’atto di affrontare e uccidere il drago, sotto lo sguardo della principessa liberata dal mortale pericolo, e con altri due santi in primo piano, posti ai due lati: San Biagio e San Daniele. In alto, a sinistra, un bellissimo paesaggio di case e palazzi rinascimentali; più oltre, una montagna raffigurata in prospettiva, che si spalanca sull’azzurro del cielo, e con una strada sinuosa che la percorre; Dio Padre, nell’angolo estremo a destra, segue la scena e protegge, dall’alto, il valoroso cavaliere. Questi monta in groppa ad un cavallo bianco, coi finimenti in rosso, impennato sulle zampe posteriori; indossa una splendida corazza, impugna la lancia e porta delle piume rosse sul capo; la principessa, di tre quarti, elegantissima nelle sue vesti sontuose di seta, muove il braccio in un gesto fra il timore e la lieta sorpresa; la mala bestia che voleva divorarla, infine, spalanca invano le fauci, mentre si accascia a terra, trafitta dall’eroe.
Tutta la scena è soffusa da un fascino, da una poesia, da una dolcezza veramente degne del gran secolo, il XV, nel quale hanno gareggiato i più grandi pittori d’Italia e del mondo, e, in questa terra, regnava la fama del più grande artista cadorino, Tiziano Vecellio. Eppure, Francesco da Milano, un lombardo trapiantato a Serravalle (Vittorio Veneto), ove lo troviamo fra il 1502 e il 1548, è riuscito a non sfigurare accanto a quei giganti – oltre a Tiziano, Giovanni Bellini, Cima da Conegliano, Giorgione, Paolo Veronese, Tintoretto, Palma il Vecchio e Palma il Giovane - e a lasciare una decina di opere di notevole livello, sparse fra le colline dell’Alto Trevigiano, sulla sinistra del Piave, e una vasta zona del Friuli, con la parrocchiale di Castello Roganzuolo quale sito d’interesse centrale, per merito d’un vasto ciclo d’affreschi. Prima d’arrivare a Fregona, avevamo reso omaggio a un’altra bella opera di questo pittore lombardo di cui poco si sa, e il cui vero nome era, in realtà, Francesco Pagani: la pala dell’altare maggiore della chiesa parrocchiale di Anzano - subito sopra Vittorio Veneto, ma in comune di Cappella Maggiore -, dedicata ai santi martiri Vito e Modesto.
Quella di Osigo, però, ci ha sempre affascinati in modo particolare: forse per il soggetto, particolarmente movimentato e romantico, forse per l’alone fantasioso e leggendario che pervade la scena; forse per la serena, armoniosa bellezza del paesaggio, o per la brillantezza dei colori, o per tutte queste cose insieme. Molte volte eravamo venuti fin quassù per ammirarla di persona, ma sempre avevamo trovato chiuso l’edificio: il progressivo calo della popolazione, la rarefazione dei sacerdoti e la sempre maggior frequenza dei furti commissionati dai ricettatori di opere sacre, hanno reso la vita difficile agli amanti della storia dell’arte. Oggi, che è domenica, dopo esserci informati sugli orari delle funzioni, abbiamo approfittato della Messa festiva e siamo giunti una mezz’ora abbondante prima dell’inizio del sacro rito, dopo aver percorso un buon tratto di automobile, per poter finalmente appagare questo antico desiderio. E la luce del primo mattino, che entra limpida e vittoriosa dai finestroni e dal portale socchiuso, ci ha premiati oltre ogni aspettativa: non ci saremmo più staccati dalla contemplazione di quell’opera stupenda, che una signora assai gentile ha voluto ulteriormente illuminarci, accendendo il riflettore elettrico, sì che ogni più piccola superficie del dipinto è stata rischiarata perfettamente, in tutta la brillantezza dei suoi colori.
È sempre una storia che affascina, quella di San Giorgio; forse per la sua somiglianza con il mito di Perseo e Andromeda; o forse per quel’aura gentile, cavalleresca, che avvolge la figura dell’intrepido guerriero di Cristo, pronto a misurarsi, senza alcuna esitazione, per salvare la vita alla bella principessa, con una belva di enormi dimensioni e dal fiato mortifero (anche se il nostro Francesco da Milano l’ha raffigurato, in verità, non troppo temibile all’aspetto, né alle misure: ed è l’unica pecca del pregevole dipinto); sta di fatto che è impossibile accostarsi a un’opera come questa, senza fremere d’entusiasmo e di partecipazione.
Ci risuonano alla memoria le parole del vescovo Jacopo da Varazze, nella sua famosissima opera Legenda aurea, un vero best-seller del Medioevo:
… Allora la figlia, gettandosi ai piedi del padre, gli chiese la sua benedizione e dopo che il padre l’ebbe benedetta e teneramente abbracciata,  essa se ne andò verso lo stagno dove stava il mostro. Giorgio che la incontrò piangente per via, le domandò dove andasse e perché piangesse; essa rispose: - Salve, giovane; affrettati a montare a cavallo ed a fuggire, perché non abbia a morire con me.
Giorgio le disse: - Non temere e fammi sapere cosa stai aspettando qui e perché tutto il popolo sta a guardarti.
E la giovane gli rispose: - Vedo che hai un cuore nobile e grande, ma ti dico di affrettarti a partire. – Giorgio replicò: - Non andrò via fino a che non mi avrai risposto. 
La donna allora gli disse ciò che attendeva e Giorgio le disse: - Non temere. Io ti darò aiuto nel nome del Signore Gesù Cristo.
- Forte cavaliere, gli disse la donna, non sfidar la morte al mio fianco, perché basta che io sola perisca, giacché non potrai né aiutarmi né liberarmi, anzi troveresti la morte con me.
In quell’istante uscì il mostro dall’acqua. Perciò la vergine tutta tremante disse: - Fuggi all’istante, cavaliere.
Per tutta risposta Giorgio salì sul cavallo, si fece il segno della croce e si slanciò contro il mostro, raccomandandosi a Gesù Cristo…
Che cosa c’è: sembra troppo una fiaba della nonna, per essere vera? Certo che sembra una fiaba; questo, però, non le toglie serietà, né verità. Il Male è comunque un mostro spaventosa, che minaccia di divorare le anime; e San Giorgio rappresenta il cavaliere senza paura, che, forte della sua fede in Dio, non teme di affrontare il cimento, perché sa di non essere solo.
Tornando fuori, nella luce del pieno sole, non si può non restare abbagliati e rapiti dalla bellezza del paesaggio, che fonde insieme la dolcezza e la maestosità. Benché siamo a meno di 400 metri d’altezza, par già di essere molto più in alto; l’aria è pura e frizzante, e, intorno, ovunque si volge lo sguardo, boschi fittissimi e monti verdeggianti; di fronte, sul fianco del monte, ma più in alto, si staglia nitida una chiesetta letteralmente incastonata nel verde, la chiesa di San Daniele, dalla quale (dicono) la vista spazia libera fino al mare – l’Adriatico, vogliamo dire – lontano da qui, in linea d’aria, almeno un centinaio di chilometri…
Non si può fare a meno di sostare, di ammirare in silenzio, di lasciarsi invadere l’anima dalla dolcezza struggente e tuttavia severa di questa natura possente, che sa di fresco e di resina, sotto questo cielo infinito senza nuvole, davanti all’arco di cerchio dell’orizzonte, in pianura, che sembra perdersi chi sa dove, e intanto va come delineando un immenso scenario di teatro, una quinta grandiosa, fatta apposta per offrire sensazioni irripetibili di pace e di serenità. Uno spirito contemplativo potrebbe rimanere qui, estasiato, senza parlare, senza fare un gesto, per ore ed ore; quand’ecco, improvviso un pensiero ci attraversa la mente e rompe l’incantesimo: anche quassù è passata la violenza degli uomini, e nella maniera più atroce. Lassù, nel profondo della terra, giacciono ancora dei poveri resti, o quel poco che rimane di loro, senza una degna sepoltura, senza un nome, senza un ricordo. Mani assassine legarono i polsi ai prigionieri con del filo di ferro, poi li gettarono in una profondissima cavità naturale, chiamata il Bus de la Lum (il Buco della Luce: e mai nome fu più inadatto, per descrivere un inghiottitoio carsico che pare la bocca dell’inferno, anche se collocato al centro di un bosco ombroso d’incredibile venustà).
Erano tempi tremendi, tempi di guerra civile. La ferocia degli uomini aveva portato fin lassù, nel fitto della foresta sovrastante, tutte le crudeltà e tutte le ingiustizie di un barbaro conflitto, nel quale, dicendo di servire grandi ideali, da entrambe le parti si uccideva e si torturava il nemico con una efferatezza addirittura satanica. Poi la guerra finì, e anche in questi luoghi stupendi e solitari, finalmente, ritornò il silenzio; ma il ricordo delle vittime oscure, rimaste insepolte, aleggiava ancora come una nuvola cupa su un cielo sereno. La parte uscita vittoriosa si accaparrò i libri di storia e raccontò quelle vicende come volle, senza contraddittorio, ricoperta di lodi; quelli che sapevano, tacevano, perché spaventati dai fatti tremendi che erano accaduti, anche dopo la conclusione ufficiale delle ostilità. Così, gli assassini divennero eroi, ed una mitologia alla rovescia fu coltivata con zelo, per anni, per decenni: impossibile contestarla, impossibile non crederla vera. Solamente dopo più di mezzo secolo - quando alcuni giudici, per la verità, già da tempo si erano mossi e avevano avviato indagini, rimaste però relegate in una cerchia ristretta -, si cominciò a rompere il muro di omertà, e la verità cominciò a tornar fuori dalle tenebre fitte.
Furono organizzate spedizioni speleologiche, si recuperarono centinaia di cadaveri: almeno mezzo migliaio, secondo le stime più attendibili, furono i disgraziati gettati in quell’orrido abisso, senza processo, senza testimoni fuor che gli aguzzini, forse ancora vivi, condannati a una fine atroce, con le ossa spezzate, in mezzo a mucchi di cadaveri. Erano militari tedeschi e repubblicani, e anche parecchi civili: non meno di cento. Quelli che furono recuperati, adesso riposano nei cimiteri della zona, specialmente a Caneva, in territorio friulano. Da ultimo, venne innalzata una grande croce e venne posta una lapide, che, senza commenti, senza polemiche, ricorda quella tragedia e le vittime senza nome che la guerra civile, come una divinità crudele, richiese per placare la sua sete di sangue. Chissà, forse ora lo sdegno di quelle anime di morti insepolti è stato un poco placato; forse, adesso, anche gli spiriti della montagna sono più sereni. Nessuno ormai cercava la vendetta, e forse neppure giustizia - troppo tempo è passato, per quella degli uomini; solo la giustizia divina non cade in prescrizione – ma una sia pur tenue fiammella di verità. È cosa troppo iniqua che quanti si sono lordati le mani con violenze inaudite, abbiano poi campo libero nello scrivere la storia a modo loro, assolvendosi da ogni responsabilità, nascondendo i fatti e gettando ogni colpa sui vinti. A causa di ciò, si poteva dire che la guerra civile non era mai finita; solo ora, forse, lo è.
E così ci vien da pensare che San Giorgio, dopotutto, qui, in questa chiesa d’un paesino di mezza montagna, quasi smarrita nella vastità dei boschi, è più che mai appropriata, più che mai adatta a ricordarci una grande, perenne verità: che il Male è sempre in agguato, e ciascuno di noi, come San Giorgio, è chiamato ad affrontarlo, quando lo incontra, respingendo la tentazione del quieto vivere, della viltà, della fuga. Il drago va affrontato, non per una vana esibizione di coraggio, ma per salvare la bellissima fanciulla che versa in un pericolo mortale. Quella fanciulla, quella nobile principessa, è la nostra stessa anima. Se fuggiremo, non avremo mai più il coraggio di guardarla a testa alta; dovremo abbassarla per vergogna. È tragico vivere con la fronte china, senza l’ardire di guardar se stessi faccia a faccia. Pure, è il destino di molti. Se vogliamo evitare una simile sventura, non ci resta che imitare il valoroso Giorgio, cavaliere di Cappadocia, e dire: Signore Gesù, aiutaci...

Quel San Giorgio che lotta col drago 
ai piedi della foresta d’abeti e faggi

di Francesco Lamendola

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