ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

sabato 3 settembre 2016

“Chi parla viene fatto fuori ”?


Monsignor Silvano Tomasi

«Immigrati, accoglienza non significa tutti dentro. E i cattolici ricordino il dovere di evangelizzare»
Monsignor Tomasi, già nunzio apostolico all'ONU di Ginevra: «Guerre e violenze sono la principale causa delle attuali migrazioni che rischiano di destabilizzare l'Europa, la comunità internazionale deve fare di tutto per riportare la pace e prevenire guerre. L'accoglienza è importante ma per chi ha diritto di restare fondmentale è l'integrazione, un processo che richiede tempo e pazienza, ma anche regole chiare per chi arriva».

«La situazione degli arrivi che continua ininterrotta indica che i problemi nei paesi da cui vengono questi immigrati, richiedenti asilo, non cambiano affatto. Bisogna allora farsi la domanda: come mai dopo anni di emergenza la comunità internazionale non riesce a gestire e governare un fenomeno che sì è parte della storia e parte del cammino della comunità umana lungo i millenni, però in questo momento assume una intensità tale da mettere in crisi altre regioni del mondo come l’Europa?».
Monsignor Silvano Tomasi, fino a pochi mesi fa nunzio apostolico presso le Nazioni Unite a Ginevra, commenta così la nuova ondata di sbarchi degli ultimi giorni sulle coste italiane. Tomasi, missionario scalabriniano, ha dedicato tutta la vita sacerdotale ai migranti e al tema delle migrazioni: è stato il fondatore a New York del Center for Migration Studies, ed è poi stato segretario del Pontificio Consiglio per la pastorale dei migranti e quindi nunzio in Etiopia ed Eritrea, prima di essere inviato nel 2003 a Ginevra, alla nunziatura che ha lasciato dopo aver compiuto i canonici 75 anni. Attualmente svolge la funzione di segretario pro tempore del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace in attesa che diventi operativo il nuovo Dicastero per lo Sviluppo Umano Integrale appena creato da papa Francesco.
Monsignor Tomasi, il tema dell’immigrazione in Italia e in Europa è molto caldo e accende dispute che non brillano per equilibrio.È un tema complesso che deve tenere conto di molti fattori. C’è anzitutto il problema delle guerre e delle violenze nei paesi di origine, che sono la causa più importante del movimento di queste persone. È una violenza che – come vediamo in Medio Oriente e in Libia - continua e le potenze coinvolte in queste guerre non si mettono intorno a un tavolo per negoziare una pace. D’altra parte il bene comune chiede che anche gli interessi dei cittadini dei Paesi di arrivo vengano presi in considerazione. Non si può pensare che tutti i potenziali migranti e richiedenti asilo trovino accoglienza in Europa. L’Europa deve essere solidale, rispettare gli accordi che ha firmato riguardo ai rifugiati, nel senso tecnico della parola, però non è che sia obbligata ad accettare tutte le persone che cercano una vita migliore nel contesto economico e di libertà sociale che c’è in Europa.
Quindi è giusto fare rispettare il diritto internazionale che regola il diritto allo status di rifugiato, in base al quale peraltro la maggior parte degli immigrati che arrivano irregolarmente devono essere rimpatriati.Bisogna tenere conto che la situazione è molto complessa. Certamente bisogna distinguere rifugiati e richiedenti asilo da migranti economici. Nello stesso tempo bisogna avere un senso di solidarietà umana anche per le persone che fuggono dalla miseria e dalla fame oltre che dalla violenza. Credo che la comunità internazionale abbia il compito di elaborare nuove categorie giuridiche per quelli che devono abbandonare le case e i villaggi, come nel Sahel, perché avanza il deserto o perché ci sono altre cause naturali che li spingono fuori dal loro contesto naturale.
Però davanti a questa varietà di situazioni si deve tenere fermi alcuni criteri che devono guidare noi cristiani ma anche l’Europa che si basa sul rispetto dei diritti umani e della democrazia e sulla dignità di ogni persona. Bisogna rispondere alla pressione in maniera coordinata, ad esempio Italia e Grecia non possono affrontare da sole il dramma che si crea dal movimento massiccio di persone in questo momento. È necessario che l’Unione Europea sia davvero solidale ed efficace nell’agire in concerto per rispondere alla situazione in cui vengono a trovarsi l’Italia e altri paesi di primo arrivo di queste migrazioni forzate di oggi.
Lei ha accennato a nuove categorie giuridiche per tenere conto di altre situazioni che spingono alle migrazioni.Noi oggi abbiamo un trattato per la protezione dei rifugiati, persone che fuggono da persecuzioni politiche e religiose e la cui vita è minacciata o i cui diritti fondamentali sono violati. Queste persone hanno il diritto di essere accolte in altri paesi, e i paesi dove arrivano hanno l’obbligo di accettarli, almeno finché la situazione nel loro paese di origine non sia normalizzata. Per coloro che fuggono da una violenza indiscriminata e da una violazione generale dei diritti umani, c’è un obbligo riconosciuto – anche se morale -  di concedere visti umanitari per non esporre queste persone a rischi indebiti. Ma per le persone che rischiano di morire di fame o che devono assolutamente spostarsi dal loro ambiente perché la situazione fisica causata da mutamenti naturali li forza a muoversi, non è previsto nulla, anche se sono sradicati dal loro ambiente, perdono la casa e tutto, rischiano di essere vittime incolpevoli di situazioni disastrose. Credo sia giusto riconoscere delle norme che obblighino la comunità internazionale ad aiutare queste persone nei modi più adeguati.
Si dice “aiutiamoli a casa loro”, ma anche questo slogan è oggetto di feroci discussioni….Dire che dobbiamo aiutare i potenziali migranti e i richiedenti asilo a casa loro è certamente una espressione ambigua. Perché da una parte vuol dire che non vogliamo prendercene cura adesso dove arrivano; ma dall’altra c’è un aspetto molto reale e molto vero, perché il problema si risolve alla radice, da dove partono queste persone. Allora però bisogna essere ben coscienti di tutto ciò che implica questa affermazione: non può essere una frase retorica e una scusa per lavarsi le mani davanti alle necessità attuali, ma è un impegno serio a lungo termine per cambiare la realtà politica sociale di questi paesi, un impegno paziente e duraturo.
Che si concretizza in cosa?La responsabilità internazionale è anzitutto quella di prevenire guerre e violenze che forzano centinaia di migliaia di persone a cercare rifugio altrove. Aiutarli a casa loro significa anche essere giusti nello sviluppare il commercio, nel garantire l’accesso ai mercati, dare insomma una possibilità di sviluppo e di partecipazione all’economia internazionale in maniera proporzionata alle loro capacità. E poi aiutarli a casa loro implica anche avere la preveggenza di facilitare in maniera giusta e proporzionata l’accesso alle nuove tecnologie, alle nuove medicine in modo che la popolazione sia sana, possa lavorare, e abbia quelle conoscenze che facilitano lo sviluppo in maniera adeguata ai loro bisogni.
Quando si parla di immigrati si parla sempre di accoglienza, dei nostri obblighi qui in Italia, poco o nulla si dice sui paesi di provenienza. Eppure il primo diritto umano violato è quello di poter risiedere e crescere nel proprio paese.È vero, il primo diritto è a non dovere migrare…
...Peraltro queste partenze sono anche un impoverimento per i paesi di origine. Lei è stato per molti anni nunzio apostolico in una zona da cui tanti fuggono, ne è testimone.Le persone che partono, che lasciano il loro paese in cerca di fortuna, come si diceva una volta, in genere sono giovani, meglio preparati della media dei loro coetanei che rimangono nel paese. Quindi sono forze vive da usare per sviluppare la loro realtà locale. D’altra parte queste persone non trovano le condizioni per realizzare le loro aspirazioni e mettere a profitto le loro conoscenze. E ciò spinge a quella che in termine tecnico possiamo chiamare “fuga di cervelli”,  ma anche a livello normale è una perdita di popolazione sana e fattiva, una risorsa per il paese da dove partono.
Lei sottolinea giustamente la complessità del fenomeno, che va guardato con realismo e tenendo presenti tutti i fattori. Anche per ciò che accade nel Mediterraneo abbiamo da una parte il disastro umanitario, con addirittura l’aumento dei morti, dall’altra a questi viaggi nei barconi sono legati fenomeni inquietanti, come il traffico degli esseri umani che arricchisce la criminalità internazionale e i gruppi terroristici, o come l’arrivo di jihadisti. Ci vorrebbe molto realismo, ma in Italia siamo sempre allo scontro ideologico e domina la retorica di un’accoglienza senza criterio.Il problema dell’accoglienza rimane una discussione viva nella comunità nazionale, però è una faccia della medaglia. Ci vuole anche la considerazione dell’altra faccia, che è l’integrazione. Senza un piano di integrazione dei nuovi arrivati, le paure della gente, i fastidi, i pregiudizi e anche le giuste rimostranze si moltiplicano. Quindi bisogna assolutamente avere un duplice approccio. Da una parte solidarietà reale nell’accoglienza di quanti hanno bisogno e dall’altra un piano di integrazione. Perché le persone che arrivano hanno non solo capacità fisiche per aiutare nel lavoro, nell’economia, ma hanno anche una testa, un cuore, dei sentimenti, delle tradizioni, delle abitudini, dei valori che non sempre si adattano alle democrazie occidentali. In particolare bisogna considerare tante persone di origine islamica, e vedere quali valori fondamentali devono accettare per poter creare una convivenza serena e costruttiva, senza i conflitti che vediamo nelle società da cui provengono, dove i diritti umani non sono rispettati e dove ci sono discriminazioni strutturali che forzano ad emigrare soprattutto le minoranze religiose, cristiani ed altri.
Lei tocca un punto particolarmente delicato. Come si fa a integrare veramente, e soprattutto come si fa quando ci si trova davanti a comunità che non vogliono integrarsi?Bisogna essere molto cauti in questo campo, nel senso che la seconda generazione tende ad adattarsi al nuovo ambiente, però rimangono delle sacche chiuse che diventano un pericolo per il paese che ospita. Qui è necessaria una attenta politica di ricollocazione di quelli che arrivano: non vanno confinati in ghetti, non vanno lasciati soli, si deve facilitare l’apprendimento della lingua italiana o del paese di dove arrivano. Vanno inoltre integrati nell’economia attraverso un lavoro, così che la possibilità di creare contatti ed amicizie nell’ambiente nuovo in cui arrivano possano aprire la strada allo sviluppo di una identità collettiva nuova e inclusiva. Però questo diventa possibile se quei valori fondamentali che costituiscono le democrazie occidentali vengono accettati: libertà di religione, libertà di coscienza, l’accettazione della democrazia, la separazione tra religione e politica, il rispetto della donna che ha lo stesso valore dell’uomo. Questi principi devono essere accettati perché non toccano e non offendono la dignità dei nuovi arrivati, ma danno loro la possibilità di inserirsi in un contesto dove la convivenza diventa costruttiva per tutti.
Una cosa che colpisce è che tra i cattolici si parla tanto di accoglienza, di servizi da offrire, ma mai si sente parlare di annunciare Cristo, come se questo non fosse la radice anche dell’impegno sociale e caritativo. Oltretutto per secoli abbiamo mandato missionari in paesi lontani e ora che arrivano qui, sembra che siamo disinteressati ad evangelizzare.Alle volte uso questa espressione che mi pare molto pertinente: «Le missioni sono venute a noi», con l’arrivo di queste migliaia e migliaia di immigrati. Certo, bisogna rispettare la libertà di coscienza e di religione di tutti, ma questo non esclude che possiamo fare una proposta di vita, una proposta di evangelizzazione chiara, senza ambiguità, in maniera amichevole e serena. Anzi questo diventa un obbligo, se pensiamo al senso della storia del passato: masse enormi di genti arrivarono dentro i confini dell’Europa, e seppure con un lungo lavoro durato2-3 secoli, la Chiesa ha trasformati queste popolazioni in cristiani che hanno costruito le cattedrali del Medioevo e hanno dato quello splendore di arte e di bellezza che resta ancora come eredità.
La vera sfida oggi allora è se sappiamo essere capaci di presentare in maniera creativa e convincente - con la testimonianza della vita e la versatilità di una ragionevolezza illuminata dalla fede, la proposta di una vita cristiana soddisfacente, che risponde alle esigenze della persona umana in maniera più piena, più completa. È una domanda che si deve fare ognuno di noi: c’è ancora questa vitalità nella fede, nell’esperienza della fede, questa vitalità che ha la capacità di trasformare la società come l’ha fatto in passato in Europa e come l’ha fatto in altri continenti?
di Riccardo Cascioli03-09-2016 

http://www.lanuovabq.it/it/articoli-immigrati-accoglienza-non-significa-tutti-dentroe-i-cattolici-ricordino-il-dovere-di-evangelizzare-17301.htm

Il poliziotto: “L’immigrazione? Business dei poteri forti, e chi parla viene fatto fuori”

3/9/2016
url-1Di Mattia Sacchi
E’ uno dei poliziotti più fa­mosi d’Italia, grazie alle sue denunce pubbliche su quanto suc­cede nei centri d’acco­glienza e nelle procedure per identificare i migranti.Daniele Contucci, assi­stente capo della Polizia di Stato in forza presso la Di­rezione centrale immigra­zione e Polizia delle Fron­tiere, ora dirigente sinda­cale Consap, racconta quan­to visto negli sbar­chi di migranti sulle coste italiane.
Daniele Contucci, lei è stato in prima linea du­rante l’emergenza immi­grazione…
Ho fatto parte dell’URI, l’unità specializzata rapida di intervento specializzata sull’immi­grazione. Si trattava di un’unita il cui obiettivo era quello dell’impiego in tutte le emergenze di immigrazione. Facevamo ‘inter­viste’ a tutti i migranti che duravano circa 20 minuti e durante le quali ricostrui­vamo tutto il loro trascorso: tra cui le generalità, il percorso fatto per arri­vare fino all’Italia e se avevano ricevuto ritorsioni nel loro paese d’origine. Succes­sivamente, i dati venivano inviati in un database che veniva girato alla commis­sione territoriale la quale decideva se concedere l’asi­lo politico.
Lei ha visto da vicino il Cara di Mineo, uno dei più grandi centri richiedenti l’asilo d’Eu­ropa…
Un centro in grado di ospitare 4000 richiedenti, ognuno dei quali ha un costo giornaliero di circa 37 euro, di più se il richiedente è mino­renne [Sono almeno 52 milioni di euro l’anno. Per il solo centro di Mineo, ndr.] Potete quindi immaginare il tipo di business, per non dire altro, che ci sia dietro. Centinaia di persone che la­vorano all’interno del centro, quindi un indotto economico enorme per l’entroterra siciliano. Con tutti gli inte­ressi del caso e gli scambi clientelari [ha forse detto Mafia? No, non pare. NDR ]. La task force di cui facevo parte riusciva a ridurre i tempi di permanenza di un anno. Successivamente l’unità è stata demansionata e chiusa, chissà perché…
I migranti che ha incontrato le da­vano tutti l’impressione di scappare da qualcosa?
Assolutamente no! Abbiamo avuto a che fare con tante persone dal pas­sato tragico, ma anche da tanti mi­granti che si capiva sin da subito che avevano altri obiettivi. D’altronde i numeri parlano chiaro: nel 2014 sono arrivati in Italia 172mila mi­granti. Di questi solo il 10% riconosciuto lo status di asilante politico, per un totale di 36mila migranti a cui è stato riconosciuto un titolo per stare sul territorio europeo. Tutti gli altri avrebbero dovuto rimpatriare e invece la maggior parte è sparita nel nulla.
Lei è conosciuto anche per essere stato il primo a denunciare casi di turbercolosi e malattie infettive…
Durante un’operazione di sbarco mi­granti nel Porto Augusta nel giugno 2014, siamo stati un giorno e mezzo a trat­tare con 1’200 persone, di cui 66 con la scabbia e altri con la tubercolosi. Ma, contro ogni procedura, siamo stati mandati allo sbaraglio con delle semplici mascherine e guanti in lat­tice. Io ho un figlio che all’epoca era appena nato e, per paura di con­tagiarlo, non l’ho incontrato per un mese e ho fatto degli esami privati per accertarmi di non aver contratto alcuna malattia infettiva. Potete immaginare la frustra­zione nel non poter vedere il proprio figlio crescere nei primi mesi di vita. Allora ho voluto denunciare questa situazione assurda che metteva i po­liziotti a serio rischio.
Aveva paura delle malattie che si potevano contrarre?
Certamente. Salivamo e scendevamo dalle navi senza le protezioni neces­sarie, incontrando persone che ma­gari avevano malattie infettive
Le sue denunce hanno portato a qualcosa?
Prima le visite mediche duravano pochi minuti, adesso sono fortunata­mente più approfondite, anche se non abbastanza. Proprio qualche giorno fa è stato trovato nella provincia di Como un migrante con una diagnosi di scabbia riscontrata pochi giorni prima nel Meridione d’Italia, senza sapere se aveva effettuato la profilassi del caso. Questi sono pericoli per la salute pubblica. Ma non è l’unico problema nelle procedure con i migranti in Italia.
Cosa intende dire?
La mancata fotosegnalazione dei mi­granti ha creato dei grandissimi problemi. Io sono stato il primo a de­nunciare queste manchevolezze, che impedivano il rispetto dei trattati di Dublino. Molti di questi migranti evi­tavano di farsi fotografare, con la compiacenza delle autorità italiane: parliamo di 100mila persone non fotosegnalate tra il 2014 e il 2015. Magari alcuni di loro sono terroristi o legati ad asso­ciazioni dai fini criminali. Anche se fosse solo uno su mille sarebbe una cosa gravissima dalla portata decisa­mente pericolosa con evidenti responsabilità dei vertici governativi e di sicurezza.
Le sue denunce le hanno portato ripercussioni sul posto di lavoro?
Solo problemi e ritorsioni. La nostra sezione è stata ufficialmente chiusa, noi demansionati dai nostri incarichi. Io lavoro a Roma e hanno cercato ad ogni modo di convincermi a far domanda di trasferimento, situazione comoda vista la lontananza da un ufficio centrale di importanza così rilevante. E anche i colleghi che prima mi sostenevano sono piano piano spariti, lasciandomi solo contro tutti. Chissà se qualcuno di loro comprato?
La politica si è però interessata a lei e al suo caso…
La Lega Nord aveva presentato delle interpellanze sui casi da me denun­ciati, ma quando il gioco ha co­minciato a farsi più serio sono spariti anche loro. Forse gli interessi che ho toccato sono troppo grandi. Poi ho accettato la candidatura al Consiglio comunale a Roma con Fratelli d’Italia: se avesse vinto la Meloni forse avrei fatto parte del Consiglio comunale per continuare a lottare affinché giustizia, verità e libertà trionfino contro la casta e il malaffare legato al business dell’immigrazione. 
Quindi cercava anche lei la pol­trona…
Ma per niente! Solo che in questa si­tuazione è praticamente impossibile proseguire in Po­lizia il mio lavoro di verità e giustizia. Ricoprendo un incarico politico elettivo rinuncerei a qualsiasi euro in più ri­spetto alla mia ultima busta paga a dimostrazione del mio disinteresse economico. Lo avrei fatto solo per continuare la lotta contro la delinquenza, ovunque essa sia.
Come valuta la situazione a Como?
E’ una situazione molto partico­lare. I migranti che arrivano vo­gliono passare il confine svizzero. Solo che se entrano in Svizzera e non sono stati fotose­gnalati prima in Italia è più difficile accertare il primo paese di approdo per poi esser riaccompagnati alla frontiera. Ma comunque dalle interviste delle polizie locali si risale poi ai fatti e quindi rispediti lo stesso in Italia. A questo punto è giusto che le Guardie di Confine siano li per garantire la sicurezza del loro popolo, visto anche il concreto rischio terrorismo. 
Ma l’Italia ha colpe in tutto questo?
Direi proprio di si. I trattati di Dublino probabilmente penaliz­zano l’Italia, ma la soluzione non è non identificare i migranti. Durante il semestre di presi­denza europeo, l’Italia poteva far qualcosa su questo fronte ma in realtà, nonostante i proclami, non si è fatto nulla. Un’immigrazione control­lata e integrabile può essere sana, ma non è certo questo il caso.
“Immigrazione integrabile”. Ritiene che molti immigrati ri­fiutino di integrarsi?
Chiedete alle donne poli­ziotte quando alcuni migranti di sesso maschile si rifiutavano di rilasciare le dovute interviste. Già questo indicativo della differenza di mentalità.
Cosa pensa di Mare Nostrum e Triton?
Mare Nostrum è stata un’operazione italiana dai costi incredibili  che ha fatto il gioco degli scafisti, visto le regole d’ingaggio che permettevano di arrivare a 10 miglia dalle coste libiche. Mentre Triton, sotto Frontex e tutt’ora in atto, ha come obiettivo salvaguardare le coste e arrestare gli scafisti con l’ingaggio a 30 miglia dalle coste libiche. Un migrante prima di queste missioni pagava 2-3 mila euro per il viaggio verso l’Italia, successivamente solo 700-800 perché ovvia­mente i rischi, ppur  sempre altissimi, sono diminuiti con Mare Nostrum. Bisogna arrivare alle origini del fenomeno, facendo lavo­rare le diplomazie. All’estero ci sono consolati e ambasciate italiane: si potrebbe gestire la cosa nei paesi d’origine organizzando e gestendo le richieste d’asilo direttamente presso le nostre diplomazie all’estero. In quel modo la gente potrebbe sapere che c’è una strada normale e ordina­ria per arrivare in Italia e si toglie­rebbe un business mortale dalle mani dei trafficanti di esseri umani. Poi servirebbe un’operazione ‘cusci­netto’ sotto l’egida dell’Onu creando dei campi sosta per selezionare da lì i richiedenti asilo. Accompagnando inoltre corridoi umanitari per le popolazioni effettivamente in guerra come la Siria o Libano. Purtroppo invece si preferisce la politica delle lacrime di coccodrillo e delle morti annun­ciate.
Nonostante le ritorsioni, continuerà a denunciare i malfunzionamenti delle politiche migratorie?
Certo, continuerò a lottare da uomo libero quale sono e non mi fermerò di fronte ad alcuna ritorsione o minaccia. Rac­conterò i fatti, nella convinzione che molti apriranno gli occhi… 
Fonte “Il Mattino”, 22 agosto 2016

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