LA RIVELAZIONE DEL MALE
Una legge di natura spinge il male a rivelarsi affinché sia eliminato. Ringraziamo Dio se dopo aver commesso il male proviamo rimorso: che non ci da pace ma è il principio della nostra salvezza. Guai a noi se non lo provassimo
di Francesco Lamendola
Se ci si chiedesse di indicare uno dei segnali più inquietanti, e più eloquenti, non solo della secolarizzazione e della scristianizzazione in atto in Europa ormai da tre secoli, e giunta quasi al punto voluto dai suoi registi occulti, ma anche della mutazione antropologica che vede una trasformazione, probabilmente irreversibile, dell’essere umano, così come lo abbiano finora conosciuto in tutto l’arco della storia, dagli antichi Egizi ad oggi, risponderemmo: l’affievolirsi, il venir meno, lo scomparire, del senso del peccato, e, con esso, del rimorso.
Il rimorso è solo il primo passo sulla via del riscatto; pure, è un passo indispensabile: chi prova rimorso, può anche passare, poi, al pentimento e al desiderio di espiazione, oppure può logorarsi inutilmente nel suo rimorso, fino a restarne distrutto (come accadde a Giuda Iscariota, che dal rimorso non seppe compiere il passaggio al pentimento e alla richiesta di perdono); ma chi non prova rimorso, sicuramente non uscirà dall’inferno del male, e sicuramente si può considerare come un’anima persa: un’anima dannata già in questa vita, in attesa della dannazione eterna.
Fino a una o due generazioni fa, il rimorso era la reazione normale di una persona normale al male da essa compiuto. Non diciamo, di sicuro, che al rimorso facesse immancabilmente seguito anche il pentimento: non sarebbe vero; però era normale provare il rimorso per una cattiva azione compiuta, cioè una sorda scontentezza dell’anima, un senso di disagio, e, quasi sempre, un bisogno istintivo di confessare a qualcuno, se non proprio in sede giudiziaria, il male commesso.
È stato quel bisogno che ha spinto Raskol’nikov, il protagonista di Delitto e castigo di Dostoevskij, a confessare il suo crimine all’ispettore che stava da tempo indagando su di lui, ma al quale mancavano le prove del delitto: un bisogno dapprima oscuro e contraddittorio, poi, via, via, sempre più nitido, sempre più prepotente, di sgravarsi la coscienza, di dichiarare in faccia al mondo l’assassinio della vecchia usuraia e della sorella di lei: e anche, ovviamente, la disponibilità ad assumersene le conseguenze, offrendosi a ricevere il castigo. Il rimorso è anche alla radice della scelta coraggiosa e radicale del principe Nechljudov, il protagonista di Resurrezione di Tolstoj: anche se si tratta di una cattiva azione che gli presenta il conto a distanza di anni, egli, dopo qualche incertezza, decide di affrontare con onestà il proprio passato e di cercare l’espiazione attraverso il tentativo di riparare al male fatto tanti anni prima, ai danni di una ingenua ragazza che poi si era sviata.
Ebbene, da un po’ di tempo in qua, le cronache dei giornali e dei telegiornali ci riferiscono, sempre più spesso, di criminali che, una volta assicurati alla giustizia, negano ostinatamente ogni responsabilità, anche se posti davanti a prove schiaccianti, e rimangono impassibili; che, durante le lunghe sedute processuali, non domandano mai perdono ai parenti delle loro vittime, anzi, non le degnano neppure d’uno sguardo, oppure, in alcuni casi, giungono a fissarle con aria di sfida; che fino all’ultimo, fino alla lettura della sentenza ed oltre, durante il periodo della detenzione, o alla vigilia dell’esecuzione capitale (nel caso dei Paesi nei quali vige la pena di morte), si guardano bene dallo sgravarsi la coscienza, dal riconoscere le proprie colpe, dal chiedere un sacerdote per liberarsi l’anima dal terribile fardello: neppure di fronte alle soglie dell’eternità, nel caso dei condannati a morte, nemmeno allora esce dalle loro labbra una confessione, una ammissione, uno sfogo di verità. Duri, freddi, impassibili e impenetrabili, come Mersault, il protagonista de Lo straniero di Albert Camus, restano chiusi e barricati nel loro inferno, mostrando addirittura non provare alcuno stimolo al rimorso. Si sono visti perfino dei pluriomicidi, al momento della lettura della sentenza che li condannava a morte, scagliarsi con ira contro la giuria, accusandola d’aver commesso una terribile ingiustizia: e ciò dopo essersi macchiati di tre, quattro, dieci delitti efferati, raccapriccianti, indescrivibili, accompagnati da ogni genere di sevizie, commessi ai danni di persone indifese, donne, ragazzi, persino bambini.
Lasciando da parte, poi, le pagine della cronaca nera, e rivolgendo lo sguardo alla nostra vita di ogni giorno, vediamo, in piccolo e in circostanze assai meno drammatiche, un meccanismo perfettamente analogo: le persone commettono il male e poi non se ne pentono affatto, si direbbe che non lo riconoscano neppure. L’amico che tradisce l’amico; il professionista che fugge coi soldi dei suoi clienti; l’assessore di una grande città che intasca a scopo personale somme ingenti di pubblico denaro; il lavoratore assenteista, che produce falsi certificati medici per sottrarsi al lavoro o che, addirittura, manda qualche parente a timbrare il suo cartellino, e intanto, a spese dell’erario - cioè della collettività - se ne va a spasso, a fare la spesa, o in palestra, o a fare delle passeggiate, delle gite in barca: tutti costoro, se vengono, qualche volta, smascherati e inchiodati alle loro responsabilità, reagiscono, sovente, non già arrossendo e balbettando qualche scusa, non già mostrando qualche sia pur vago sego di rimorso (non diciamo di pentimento), ma, al contrario, con rabbia, con irritazione, con insofferenza, come se non avessero fatto proprio nulla di male, e come se fossero vittime di una ingiusta persecuzione.
Eppure, se davvero queste persone, come pare, non mostrano rimorso perché non lo provano, bisogna dire che è accaduto un fatto gravissimo: perché la natura umana è fatta in modo che il male commesso chiede, esige, pretende, in un certo senso, di manifestarsi, e ciò proprio perché possa essere espiato: e se questo più non avviene, vuol dire che abbiamo a che fare con individui post-umani, senz’anima, senza il bene dell’intelletto, senza la capacità di adoperare il libero arbitrio: individui che, a forza di egoismo, di permissivismo, di licenza scambiata per libertà, e a forza di lasciarsi incretinire da telefonini, computer e televisione, hanno perduto un aspetto essenziale della natura umana. Sono degli autentici mostri, insomma; dei demoni incarnati, proprio come quel frate Alberigo di cui parla Dante nella Divina Commedia (nel canto XXXIII dell’Inferno), il quale, sebbene ancor vivo, aveva già perduto la sua anima, precipitata all’Inferno per l’orrenda gravità dei suoi peccati, mentre il suo corpo era abitato, per così dire, da un demonio, venuto a simulare le sue funzioni vitali.
La psicologia moderna parla, in simili casi, di caratteri anaffettivi: come se questa, che è una pura e semplice constatazione, fosse anche una spiegazione. Ma tutta la scienza moderna è così: puramente descrittiva, perché materialista; così come la medicina è puramente sintomatica, per la stessa ragione: ossia perché materialista e riduzionista, cioè incapace di vedere – per i suoi stessi presupposti -, oltre il singolo organo malato, la totalità dell’organismo al quale quell’organo appartiene. Che cosa vuol dire, infine, che una persona èanaffettiva? Che non è capace di provare sentimenti: bella scoperta. Questo è ciò che si vede; quel che vorremmo sapere, è come sia possibile una cosa del genere. Perché, fino ai nostri giorni, non si era mai sentito che esistessero individui di tal genere, a meno che fossero vittime di gravissime lesioni cerebrali o di traumi psichici immedicabili. Casi rarissimi, dunque, e tali da suscitare immenso stupore; mentre oggi si direbbe che sia un vero e proprio tipo umano che avanza, nuovo, inedito, spaventoso. Perché una cosa è certa: se viene meno il rimorso, se viene meno la capacità di provarlo, viene meno anche la possibilità di “liberarsi” del male accumulato nell’anima: col risultato, veramente raccapricciante, che il male fermenta in essa senza mai trovare una via di sfogo, e la distrugge irreparabilmente, senza rimedio. Il commissario Maigret, in una delle sue storie più toccanti, accomiatandosi da un giovane che ha fatto arrestare per un omicidio e che è stato condannato a morte, gli augura di saper piangere, al momento di affrontare il patibolo, e d’invocare sua madre: di liberarsi, per il bene della propria anima, di quella maschera d’impassibilità che aveva sinora indossato. E vi è una verità semplice, non retorica, anzi, terribile, in quelle semplici parole, in quell’estremo augurio.
Osservava, a questo proposito, un grande predicatore e un autentico uomo di Dio, un umile frate cappuccino, padre Roberto da Nove (nato a Nove, in provincia di Vicenza, nel 1869 e passato all’altra vita in Udine, nel 1939), dotato di uno straordinario magnetismo sulle folle che si recavano devote ad ascoltarlo, anche se oggi pressoché dimenticato (in: P. Roberto da Nove, Panegirici e discorsi, Vicenza, Tipografia Commerciale Editrice, 1942, pp. 231-233):
… Insomma v’è una legge di natura anche il male vuole rivelarsi. Lasciate dunque che anche i delitti e le lordure dell’anima, come quelle del mare vengano sul labbro alla loro spiaggia: ; lasciate che una mano stringendovi i polsi possa constatare la vostra malattia; lasciate che uno sguardo scrutatore gettato sulla vostra coscienza possa vedervi le macerie accumulate dal peccato; insomma convenite con me nel primo atto della confessione che è la rivelazione del male: oris confessio. […]
Ma perché il male vuole rivelarsi? Vuole rivelarsi per essere eliminato. Anche questo lo vedete nella natura. Quando siamo malati, la malattia si incentra in un centro, che potremo chiamare il centro di infezione, e noi vediamo tutta la natura concorrere a questo centro per operarvi una serie successiva di eliminazioni e di sostituzioni; la cellula infetta e malata viene eliminata e al suo posto si pone una cellula viva e sana. La malattia viene dunque guarita con una specie di inversione e di ritorsione su se stessa, rifacendo all’inverso la via per la quale s’era introdotta nell’organismo.
Altrettanto dite del male morale. Come venne introdotto il peccato nel’anima? Venne introdotto per un errore dell’intelletto, che preferì la creatura al creatore, il capriccio al dovere, la passione alla ragione; e questo errore dell’intelletto fu subito seguito da una ribellione della volontà. Bisogna rifare la via a ritroso; al posto del’errore mettere la verità, al posto della ribellione l’ossequio. Ma che è questo mai se non il secondo atto della confessione: il pentimento, cordis contritio?
E ancora non è finito.
Non basta guarire la malattie: BISOGNA RICOSTITUIRE IL MALATO; bisogna cioè dare alla natura la restituzione di tutte le perdite fatte durante la malattia; alla cura terapeutica deve seguire la cura ricostituente e riparatrice.
Una cura riparatrice deve far seguito anche alla guarigione del male morale.
È il terzo atto che devono fare tutti i penitenti: operis satisfactio, la soddisfazione delle opere.
Ci siamo dunque, per una via molto semplice, incontrati nella confessione, coi suoi tre atti, quali li esige il Concilio di Trento: oris confessio, contritio, satisfactio.
Ancora non basta: l’uomo agisca con tutto se stesso. Niente si fa senza il concorso del corpo. Se io muovo un braccio il comando è venuto dall’interno, ma eseguito dal braccio. Anche nei peccati di pensiero dove sembrerebbe che tutto fosse fatto dallo spirito, non ì vero, perché noi non possiamo pensare senza il concorso del cervello e senza fissare il pensiero in una immagine sensoria.
Dunque il peccato è l’effetto di una congiura, in cui sono complici insieme l’anima e il corpo. L’anima perciò non deve essere sola nei suoi atti; bisogna che vi concorra anche il corpo. Bisogna che quelle mani, che sono state date alla rapina, alla vendetta, alla disonestà, si congiungano insieme nella preghiera; bisogna che quei piedi, che sono andati alla gite allegre, alle occasioni del peccato si muovano verso gli altari; bisogna che quelle labbra che hanno detto la parola della bestemmia, della calunnia, dello scandalo, diano l’atto di pentimento; bisogna che quel cuore che ha palpitato di amori proibiti provi una commozione, magari espressa da una lacrima; e forse vi saranno opere esterne di riparazione da fare, come quelle dovute alla giustizia ed all’amore, a cui concorra il labbro e forse anche il portafoglio.
Così l’anima fa l’esame di coscienza, il labbro la rivelazione delle colpe; nell’anima il pentimento, nel labbro l’atto di contrizione e nel cuore le emozioni corrispondenti; anima e corpo esprimono insieme la soddisfazione e le riparazioni dovute.
A questo punto tutto sembrerebbe terminato ma non è così. Se il peccato fosse soltanto un errore filosofico, diremo così di valutazione, se la ferita fosse soltanto di genere intellettuale, è naturale avvero che basterebbero gli atti del penitente. Ma il peccato ha qualche cosa di più. Ferisce l’uomo in una vita della quale egli non è l’autore né l’arbitro, perché l’ha ricevuta per grazia, in una vita che l’arte umana e la natura non valgono a riparare perché è fuori della loro sfera: la vita di grazia, la vita soprannaturale. Coloro che negano la necessità e l’efficacia della confessione, dopo aver negato l’esistenza del male, negano l’esistenza di questa vita.
Fortunati i cittadini di Vicenza, di Udine e degli altri luoghi nei quali padre Roberto, al secolo Giuseppe Cecchetto, passava predicando: l’arte della predicazione si è fatta sempre più rara, così come il particolare tipo di religiosità ad essa legata, a cominciare dai Quaresimali. Nella riflessione svolta da padre Roberto da Nove sulla natura del male che esige, in un certo senso, di manifestarsi, secondo una vera e propria legge di natura, si sente un calore, una densità e, al tempo stesso, una immediatezza di pensiero, nonché una capacità di andare dritti al cuore delle cose, disdegnando eccessivi artifizi verbali, che appartengo, veramente, a un’altra epoca. Oggi sono molti i religiosi che parlano, che tengono omelie, conferenze, eccetera, e spesso si esprimono con raffinata dottrina, sciorinano citazioni in greco, in latino e magari in ebraico, fanno sfoggio della loro erudizione biblica e patristica: in compenso, sovente non si sentono, nelle loro parole, quella immediatezza, quella freschezza, quel particolare accento di verità, che nascono solo da una vocazione autentica e da un costante, affettuoso, intelligente rapporto con le anime, quale si realizza attraverso il sacramento della Penitenza e della Riconciliazione.
Ahimè, Padre Roberto predicava negli anni fra le due guerre mondiali, in una Italia, in una Europa, ancora solo lambite dall’ondata della modernizzazione: quando ancora il sentimento del rimorso esisteva ed era frequente, per non dire normale; e le persone, anche non credenti, intuivano che esiste un solo modo per sgravare la coscienza dal fardello insopportabile del rimorso: rivelare il male commesso, fosse pure ad un caro amico, e, così, incominciare a fare i conti con la propria coscienza. Ma esiste ancora, una coscienza, nelle persone incapaci di provare rimorso per il male commesso? Forse, stiamo raccogliendo i frutti velenosi di una semina incosciente e di una filosofia perversa: quella del relativismo, secondo la quale il male e il bene non esistono, sono solamente due astrazioni, o, al massimo, due approssimazioni, perché il male e il bene dipendono sempre dalla situazione in cui ci si viene a trovare, e non hanno un fondamento assoluto. Di riflesso, i credenti sono stati portati a credere, da cattivi maestri, talvolta travestiti da teologi e perfino da sacerdoti, che il peccato stesso è un concetto vecchio e superato, e che l’uomo moderno può e deve porsi in un rapporto paritario con Dio, senza complessi d’inferiorità, senza inibizione alcuna: perché così, in fondo, Egli ci vuole (suprema follia della cosiddetta “teologia negativa” del XX secolo!), vale a dire che è proprio Lui a desiderare che noi diventiamo “adulti” ed “emancipati”. Ma adulti, significa anche incapaci di provare rimorso?
Ringraziamo Dio, pertanto, se, dopo aver commesso il male, proviamo del rimorso. Il rimorso ci tormenta, non ci dà pace, non ci concede tregua; ma è il principio della nostra salvezza. Guai a noi, se non lo provassimo. Vorrebbe dire che siamo diventati dei mostri post-umani, e che, per noi, non vi sarebbe più speranza di salvezza, né in questa vita, e neppure nell’altra…
Una legge di natura spinge il male a rivelarsi, affinché sia eliminato
di Francesco Lamendola
Di Tolve e la ricerca di Dio: «Accompagnare un gay significa scoprire il progetto di Dio su di lui»
Il sole che sorge dalle tenebre è l’immagine biblica che si specchia nella vita di Luca Di Tolve. Luca è diventato celebre per quel libro così politicamente scorretto, un pugno in faccia al perbenismo omosessualista: “Ero gay, a Medjugorje ho ritrovato me stesso”, editrice Città ideale, che il 19 ottobre tornerà in libreria con la V edizione. Ma di lui si è parlato per l’ancor più celebre canzone di Povia portata a Sanremo nel 2009 con “Luca era gay”. La sua storia è la prova che omosessuali non si nasce, che si può, attraverso un percorso di rinascita psicologica e spirituale, riprendere in mano i fili del proprio destino e riorientarsi a quello che è il progetto originario e specifico della natura umana.
Non è un caso che nel lungo calvario fatto spesso anche di dolore e incomprensioni, la cosiddetta lampadina per Luca si sia accesa quando ha compreso ciò che molti terapisti tendono invece a nascondere: “Anche io posso diventare padre!”. L’eureka di Luca Di Tolve è stato questo e ha coinciso perfettamente con il suo personalissimo cercare Dio, con un accompagnamento che per essere fruttuoso ha bisogno di una meta. Anche Di Tolve, militante gay e vicino a diventare una delle tante icone del mondo omosessualista, ha avuto la forza, una volta scoperto il grande inganno dell’universo omosessualista, di lasciare tutto e andare all’essenziale. E di questo parlerà domenica nel corso della Giornata della Nuova BQ che si svolgerà al Collegio della Guastalla di Monza dalle 9.30. Il suo intervento è previsto per le 15.30. Intanto la Nuova BQ lo ha intervistato.
Luca che cos’è stato per te cercare Dio?
Ha significato la salvezza. Vengo da una situazione in cui mentre Lo cercavo non mi rendevo conto che era Lui a cercarmi. Durante la malattia dopo averle tentate tutte ho fatto l’esperienza della misericordia di Dio. Tutti i Rosari che dicevo in realtà erano l’esperienza di un Battesimo nello spirito, perché stavo per morire, ma sono rimasto “a bagnomaria” per un bel po’ di tempo. Il Cantico di Zaccaria del sole che sorge al mattino per liberare quelli che stanno nelle tenebre è la mia cifra ideale.
Che ricordi ha di questa ricerca?
Ci sono sentimenti di vario tipo. Sicuramente è stato un periodo di Grazia, ma anche molto duro. Però la cosa più bella è che ho avuto la fortuna di sentire su di me il manto di Maria. Percepivo tutto da ignorante, ma leggevo tutto, leggevo libri di santi, leggevo cose “pazzesche” su Santa Teresa, avevo voglia di andare a Messa.
Quando ha capito?
Quando mi è stato detto che l’omosessualità è un peccato. E’ stata una liberazione. Poi dopo aver letto il libro di Nicolosi (lo psicologo statunitense che ha scoperto le cosiddette teorie riparative ndr) ho capito che anche io potevo essere padre, che potevo avere una famiglia. Questa bella notizia non mi era stata detta da nessuno degli psicologi che avevo incontrato. Così mi sono sentito finalmente libero.
Oggi quanto è difficile portare avanti la sua testimonianza?
Molto. Ti rendi conto di quanta disonestà cci sia da parte delle persone. Giornali, università: oggi l’omosessuale non riesce a trovare nessun sollievo. E di questo soffro perché i ragazzi che hanno bisogno sono tanti e non hanno punti di riferimento, mancano di autostima, non sanno più chi sono, non hanno identità. In più nessuno ti offre un aiuto vero.
Adesso, come denunciato da Papa Francesco la sfida è quella del gender…
E’ gravissimo. Io lo dico tanti anni perché in America dove sono stato, il dibattitto è avviato da tempo. Avevo visto esponenti della finanza e della politica avvicinarsi al mondo Lgbt. Girano tantissimi soldi e il mondo omosessuale è sfruttato senza saperlo. Diciamo che il mondo gay è l’ultimo carrozzone utilizzato dai radical chic per portare avanti la battaglia della tecnoscienza per comprare la fertilità, per propagare il sesso libero perché le cure per le infezioni sessualmente trasmesse sono costosissime. Io ancora oggi pago le conseguenze di questo. Sono sieropositivo dal 1996, con molte complicanze mediche. Anche le cure sono un grande business.
E’ un’accusa molto precisa.
Ma è così: se fai un figlio naturalmente non ci guadagnano niente. Ma il nemico è nelle pieghe anche delle leggi.
Ad esempio?
Prendiamo la legge Cirinnà. Non c’è l’obbligo di fedeltà. In effetti anche questo ha uno scopo ben preciso. Nella mia esperienza ho potuto toccare con mano che una vita sana e di castità matrimoniale con mia moglie mi ha portato ad avere una carica virale pari a zero. Con l’infedeltà ovviamente aumenta il rischio di infezioni. Che costano e devono essere sostenute economicamente.
Oggi la sua attività è orientata a quegli omosessuali che chiedono aiuto per guarire dalle ferite…
Abbiamo avuto cause, media come Repubblica o le Iene che si infiltrano, ma il corso non è solo per gli omosessuali, ma per l’uomo, la donna e la vita. Ecco perché in realtà è un attacco alla Chiesa.
Però oggi il mondo cattolico sembra aver abbandonato il tema dell’omosessualità prediligendo una normalizzazione che tende a giustificare.
Questo è un errore grave.
Il Papa recentemente ha detto che gli omosessuali vanno accompagnati. Che cosa vuol dire?
L’omosessualità è un abuso subito, ci sono varie cause, ma alla fine si tratta di bambini che non sono cresciuti e chiedono sempre di più, lo chiedono come dei bambini perché vogliono questa soddisfazione che è un’invidia. Sono dei bambini cresciuti che non riescono a riempire il vuoto e cercano sempre nel mondo sbagliato mettendosi delle maschere.
E come intervenite?
Il nostro corso si chiama Adamo ed Eva ed è fatto per incoraggiare tanti ragazzi a guardarsi dentro. Viviamo in una società senza relazioni ormai, improntata su di sè, narcisista. Ma nessuno si occupa delle ferite che ognuno di noi ha. Siamo feriti dal peccato originale. La Chiesa ci offre un percorso bellissimo che è quello di Gesù. Ma accompagnare deve avere una meta. Bisogna accompagnare verso qualche cosa.
E la meta qual è?
Scoprire il progetto che Dio ha su di noi. Dio ha un'amore paterno, è un padre, ha un amore ordinato e la cosa sorprendente nel percorso di questi ragazzi che hanno avuto tante lacune è quando scoprono il concetto del'ordine. Non è lo stesso Gesù che ci chiede di andare a lui perché siamo affaticati e opporessi?
Ma un progetto può essere sbagliato?
Noi siamo stati creati per un progetto. Guai a diventare il fico maledetto, un albero di pere deve dare le pere. Il nostro lavoro è quello di aiutarli attraverso il metodo Nicolosi a tirare fuori il vero progetto.
Come vede l'impegno della Chiesa?
Mi dispiace perché vedo molti vescovi in ritardo, questa cura non è mai stata fatta in modo sistematico. Eppure bisogna iniziare negli oratori, nelle scuole. Questi ragazzi hanno bisogno di essere ascoltati, non di essere confermati nella loro ferita come fanno certi psicologi. Però un sacerdote salesiano mi ha detto che in seminario hanno studiato il mio libro e questo mi dà grande speranza.
Oggi negare che omosessuale si diventi sembra reato…
Non è un caso che all’Arcigay siano tutti psicologi. Ma è tutto un grande business. Basta andare a vedere chi ha finanziato i gay pride: si trovano multinazionali del tabacco o dell’elettronica.
Anche il turismo è un’industria appetibile?
Altroché. Qui dove facciamo i nostri corsi abbiamo 90 posti letto. Se organizzassi una festa di Halloween con ballerini le garantisco che la casa si riempie nel giro di mezza giornata. La verità è che a muovere tutto è il sesso. E il sesso vissuto in maniera egoistica e diabolica.
04-10-2016
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