GESU' LUCE DEL MONDO
Qual è la luce che l’uomo cerca, di cui ha nostalgia, e senza la quale sente di non poter vivere degnamente la propria vita? C’è un passo del Vangelo in cui questa vera luce si rivela agli uomini da Gesù Cristo stesso
di Francesco Lamendola
Gli uomini sono al buio delle cose, diceva Francesco Guicciardini nei Ricordi, specialmente riferendosi ai pensatori e ai teologi che cercano di scandagliare la realtà invisibile; e diceva bene, perché l’uomo, da se stesso, non è capace di rischiarar quel buio, non sa trovare le risposte alle grandi domande che lo attanagliano.
D’altra parte, gli uomini - o, almeno, quelli di loro che s’interrogano con onestà intellettuale e con animo puro e disinteressato – sanno di essere al buio; e lo sanno appunto perché sentono il desiderio di sapere, ma vedono che esso trova un appagamento solo parziale e insufficiente; ma proprio questo loro disagio, questa loro sofferenza interiore, rivelano ad essi che la luce esiste; che essa, da qualche parte, indubbiamente risplende, e che la natura umana è fatta in modo tale da tendere naturalmente verso quella luce, come una candela è fatta per essere accesa, e, in tal modo, rischiare l’ambiente tutto intorno.
Gli uomini, dunque, sono chiamati alla luce: per questo la cercano; se non fossero chiamati, non la cercherebbero, perché non si accorgerebbero neppure di essere al buio, o, se pure lo vedessero, non gliene importerebbe: si abituerebbero a vivere nell’oscurità, come le creature delle caverne, che trascorrono tutta la vita al buio, e si adattano a quel genere di esistenza, senza mai desiderare o sperare un altro genere di vita. Strano paradosso: gli uomini son chiamati alla luce, ma vagano nelle tenebre; desiderano la luce, ma vedono di non poterla trovare in se stessi: e dove la cercheranno, allora? E tuttavia, per poter rispondere a questa domanda, è necessario porsene un’alta, a monte di essa: chi, o che cosa, ha instillato nell’anima umana il bisogno della lue, la nostalgia della luce, la consapevolezza di non poter vivere degnamente senza di quella?
Evidentemente, si tratta di qualcosa o qualcuno che stanno all’esterno; qualcosa o qualcuno che possiedono il segreto di cui l’uomo, invece, è indigente, e che gliene hanno posto in cuore la sete, il desiderio ardente. Dunque, un punto fermo è stato raggiunto: l’uomo è un essere che non ha il suo centro in se stesso, ma in qualcosa che è fuori di lui (diciamo “dentro” e “fuori” in senso metaforico, ovviamente; infatti, scendendo in profondità entro se stesso, l’uomo può trovare quel che si trova, parlando in modo improprio, al suo esterno). L’uomo è un essere che, per potersi realizzare, per poter divenire se stesso, pienamente e interamente, ha bisogno di qualcosa che non possiede da se stesso, e di cui, nondimeno, possiede una qualche nozione, o, se non altro, una bruciante, struggente nostalgia. Le creature delle tenebre, infatti, non hanno alcuna nostalgia della luce: la luce, per esse, è un concetto privo di significato; per avere la nostalgia della luce, bisogna essere fatti in modo da sapere che cosa essa sia, e, soprattutto, bisogna essere fatti in modo che solo nella luce, con la luce, e grazie alla luce, si possa conferire un senso compiuto alla propria esistenza, si possa divenire quel che si è stati chiamati ad essere.
Adesso ci stiamo avvicinando al nocciolo della questione. Se l’uomo ha nostalgia della luce, vuol dire che è fatto per la luce; tuttavia, egli è immerso nel buio: ma di quel buio non è soddisfatto, vorrebbe rischiararlo, vorrebbe disperderlo. Pertanto, egli cerca la luce: la cerca in se stesso, ma non la trova; qualche volta gli pare d’averla trovata, ma poi si accorge che è stata solo un’illusione, un’illusione che può trasformarsi in un incubo. L’illusione della ragione illuminista si è trasformata in un incubo: l’incubo della ghigliottina, poi dei nazionalismi feroci, poi della lotta di classe spinta fino al genocidio di classe, poi di una scienza e di una tecnica inesorabili, manipolatrici, che sconvolgono gli equilibri naturali e mettono a rischio la stessa sopravvivenza dell’umanità. Il suo peccato d’origine era questo: che pretendeva di portare la luce nel mondo, ma non sapeva che cosa sia la luce. Pensava che la luce sia quella della Ragione, di una ragione “finalmente” libera e spregiudicata: libera dalla tradizione, e disposta a tutto osare, in nome del Progresso. Però anche del progresso non aveva affatto un’idea chiara: dava per scontato che esso consista in un aumento del dominio sulla natura e nel miglioramento delle condizioni materiali della vita: non aveva mai considerato che tutto questo, senza un autentico e corrispondente progresso spirituale, non porta verso un mondo migliore, ma alla barbarie.
Dobbiamo, pertanto, porci la domanda: qual è la luce che l’uomo cerca, di cui ha nostalgia, e senza la quale sente di non poter vivere degnamente la propria vita? La luce del sapere, certo; ma di quale sapere? Qual è il sapere che illumina e trasfigura la vita dell’uomo, rendendola più umana? Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza, dice l’Ulisse dantesco ai suoi compagni, nel XXVI canto del Purgatorio, allorché li vuole spronare al “folle volo” oltre le Colonne d’Ercole, limite del mondo conosciuto. E qui sta l’errore: perché quel sapere, cioè il sapere puramente intellettuale, il sapere che sgorga dalla curiositas, ma senza la humilitas; il sapere che non ha coscienza dei propri limiti umani, e che non cerca, fuori dell’uomo, la sua sorgente e il suo ultimo significato, finirà, inevitabilmente, per risolversi in un sapere inumano, cioè in un falso sapere, foriero non di vita, ma di morte.
L’uomo, dunque, ha bisogno del sapere, ma non di un sapere qualunque; non di un sapere astratto e puramente intellettuale, che divinizzi la ragione medesima, cioè l’uomo stesso: un simile sapere varrebbe solo alla auto-glorificazione dell’uomo, vale a dire ad instaurare ciò di cui meno l’uomo ha bisogno: un nuovo paganesimo, una nuova idolatria dell’immanente, una nuova religione del finito. Ma una religione del finito è una contraddizione in termini: la religione, infatti, esprime lo slancio dell’anima verso l’assoluto e verso l’eterno. Dunque, il sapere che l’uomo cerca da sempre, il spere a cui anela, e che non viene negato a nessuno, neppure alle anime semplici e alle persone prive d’istruzione, è il sapere spirituale: il sapere delle cose eterne, delle cose divine. È il sapere che rivela la ricchezza, la complessità e la stupenda armonia della vita soprannaturale. Entrare nel tempio di questo sapere, o anche solo avvicinarvisi, equivale a far tacere i rumori inutili del falso sapere, del sapere umano, strumentale, opportunistico, che nasce dall’ambizione o dalla sete di gloria e di potere, e consentire all’orecchio di udire melodie celestiali, all’occhio di vedere immagini meravigliose, luci dal fulgore indescrivibile.
C’è un passo del Vangelo in cui questa vera luce si rivela agli uomini: quella luce è Gesù Cristo, ed è Lui stesso che lo dichiara ai suoi interlocutori; i quali, però, non ne vogliono sapere, restano chiusi alle sue parole, si scandalizzano per la sua affermazione di essere venuto per conto del Padre e di parlare e agire a nome suo. Rileggiamo quel passo del Vangelo di Giovanni (8, 12-20):
Di nuovo Gesù parlò loro e disse: “Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita”. Gli dissero allora i farisei: “Tu dai testimonianza di te stesso; la tua testimonianza non è vera”. Gesù rispose loro: “Anche se io do testimonianza di me stesso, la mia testimonianza è vera, perché so di dove sono venuto e dove vado. Voi invece non sapete da dove vengo o dove vado. Voi giudicate secondo la carne, io non giudico nessuno. E anche se io giudico, il mio giudizio è vero, perché non sono solo, ma io e il Padre che mi ha mandato. E nella vostra Legge sta scritto che la testimonianza di due persone è vera. Sono io che do testimonianza di me stesso, e anche il Padre, che mi ha mandato, dà testimonianza di me”. Gli dissero allora: “Dov’è tuo padre?”. Rispose Gesù: voi non conoscete né me, né il Padre mio; se conosceste me, conoscereste anche il Padre mio”. Gesù pronunciò queste parole nel luogo del tesoro, mentre insegnava nel tempio. E nessuno lo arrestò, perché non era ancora venuta la sua ora.
Giovanni Tauler, teologo e mistico tedesco (Strasburgo, 1300-1361), discepolo di Meister Eckhart, grande predicatore che i contemporanei chiamavano doctor illuminatus per la forze e la limpidezza del suo stile oratorio, così commentava questo passo del Vangelo (Predica per il sabato prima della vigilia delle Palme); cit. in: Nuovo Testamento con commenti ai Vangeli tratti dai Padri, Santi e Mistici della Chiesa, Milano, Verità e Vita, 1996, p. 1.436):
Egli disse queste parole perché è dalla sua Luce che ricevono la propria luce tutte le luci della terra: quelle materiali, come il sole, la luna, le stelle e i sensi corporei dell’uomo; e la luce spirituale come l’intelletto dell’uomo; ed è per mezzo di questa Luce che tutte le creature possono rifluire alla propria origine. E se non lo fanno esse sono in se stesse vera tenebra di fronte alla Luce essenziale che è la luce di tutto il creato. Ora il nostro Signore ha detto all’uomo: Abbandona la tua luce che, di fronte alla mia Luce, è in realtà tenebra ed è a Me contraria; poiché o sono la vera Luce, voglio darti, al posto delle tue tenebre, la mia Luce eterna, cosicché sia tua come mia, e con essa avrai il mio essere, la mia vita, la mia beatitudine e la mia gioia… Questa Luce la ricevono però solo i poveri in spirito, cioè coloro che sono spogli di se stessi quanto al’amor proprio e alla propria volontà.
Dunque: Gesù afferma, con la massima chiarezza, di essere la luce del mondo; così come, in un’altra occasione, dice di essere lui la via, la verità e la vita, e che nessuno potrà giungere al Padre se non per mezzo di Lui. La luce del mondo è la Verità: una verità che non è solo di ordine intellettuale, ma che, pur non contrastando con la ragione umana, la supera, e di molto, perché scaturisce dal mistero del divino, dal mistero della Trinità e da quello dell’Incarnazione. E specifica che la luce da Lui portata nel mondo è la luce della vita, e che chi camminerà in essa, troverà la vita; mentre chi cammina nelle tenebre, va verso la morte.
Abbiamo già visto, in un precedente scritto, in che senso la parola dell’uomo, chiusa in se stessa, sia una parola di morte, mentre la parola divina è parola di vita: e qui emerge, con estrema forza e chiarezza, che il Vangelo è portatore e rivelatore della Verità, che è per la vita, e che vivifica tutto ciò a cui si rivela; mentre le parziali verità umane (non è dato all’uomo, infatti, abbracciare la verità nella sua interezza) non recano la vita, ma la morte, perché, assolutizzando ciò che è limitato, falsificano la condizione umana, e, così, danno origine a delle ideologie e a delle pratiche mortifere, come storicamente si è visto. Chi possieda una certa onestà intellettuale, deve ammettere che, quanto più la ragione umana ha preteso d’illuminare, con le sue sole forze, il cammino dell’umanità, tanto più ha dato vita a degli autentici mostri, i quali hanno scatenato forze spaventose sulla scena della storia umana; la sola luce che non abbaglia e che non confonde, la sola luce che è vera da se stessa, è la luce della Verità. Non questa o quella verità; non la verità di un certo tempo, di un certo luogo, di un certo popolo, di una certa cultura, di una determinata scienza: ma la Verità in se stessa, tutta intera, splendente e radiante.
Ecco: questa è la Verità di cui l’uomo ha bisogno; questa è la Luce di cui porta in cuore la nostalgia, fin dai suoi primi giorni di vita; è questa la meta verso cui si dirigono, istintivamente, gli uomini che cercano la pace e la pienezza interiore. Tutte le altre verità e le altre luci lasciano un senso di vuoto, stancano, non soddisfano sino in fondo; solo la Verità divina e solo la Luce divina consentono all’uomo di realizzare pienamente e felicemente la sua natura, di essere quel che è stato chiamato ad essere, ancor prima di venir concepito. Ci sono uomini che lo capiscono, e uomini che non lo capiscono. Quelli che l’hanno compreso, sono già pacificati in questa condizione presente, pur in mezzo alle contraddizioni e alle fatiche del vivere quotidiano; quelli che non l’hanno capito, sognano rivoluzioni e cambiamenti del mondo, solo perché non sono capaci di provare a cambiare se stessi. Utopisti inconcludenti, ma feroci, sarebbero disposti a versare fiumi di sangue per realizzare un mondo “migliore”, inseguendo una luce che non illumina né riscalda, e cercando una verità che non appaga.
Per aprirsi al mistero della Luce divina, infatti, bisogna compiere una vera rivoluzione in se stessi: sopprimere l’uomo vecchio, impastato di egoismo, e lasciar nascere l’uomo nuovo, la meravigliosa farfalla, che è divenuta leggera, perché non cerca di piacere a se stessa e di gratificare se stessa, ma vuol farsi una cosa sola con la Luce divina. L’uomo è fatto per la vita e la luce, non per la morte e le tenebre. Tuttavia – e qui sta la prova con cui è vagliato secondo giustizia – occorre che si sbarazzi del peso morto del proprio ego, che lo trattiene in basso, e s’abbandoni con umiltà e fiducia assolute a Colui che ha detto: Io sono la luce del mondo. Se non lo farà, resterà nelle tenebre; se lo farà, entrerà in un mare di luce. È una creatura dotata di libertà, fatta a immagine di Dio: a lui la scelta…
Io sono la luce del mondo
di Francesco Lamendola
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