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mercoledì 2 novembre 2016

Querela al papa e alla Chiesa?

EDITH STEIN E SALVEZZA DEGLI EBREI

    La querela del signor Feinstein a papa Francesco? Edith Stein ebrea convertita al cristianesimo si offrì in olocausto per propiziare la redenzione del suo popolo. C’è un aspetto che viene sottaciuto nella sua vicenda esemplare 
di Francesco Lamendola  



C’è un aspetto che viene sottaciuto, o rimosso, nella vicenda esemplare di Edith Stein (Breslavia, 12 ottobre 1881-Auschwitz, 9 agosto 1942), una intellettuale ebrea convertita al cristianesimo e divenuta carmelitana scalza, assumendo il nome di suor Teresa Benedetta della Croce, che venne arrestata dai nazisti e strappata dal convento in cui si trovava, nei Paesi Bassi, per andare a morire nel campo di Auschwitz. Suor Teresa aveva fatto proprio il motto Ave Crucx, spes unica: la croce, per lei, non è un male da evitare, se possibile, ma la sola via che conduce a Dio: aveva cioè sviluppato al massimo grado, da quella grande mistica che era, la Scientia Crucis, la sapienza della croce, il mistero della croce, che da strumento di sofferenza, umiliazione e morte, diviene, attraverso il sacrificio di Gesù Cristo, Redentore del mondo, strumento di conversione, di riscatto e beatitudine eterna.
Ella aveva preso sul serio il cristianesimo e la morte di Gesù sulla croce, cosa che non si può dire di tanti sedicenti cristiani dei nostri giorni, i quali, tutti protesi a cercare la quadratura del cerchio, ossia a conciliare lo spirito del Vangelo con lo spirito del mondo, sempre meno parlano della croce, sempre meno ci pensano e la meditano, e sempre più s’illudono che il cristianesimo sia una specie di allegra scampagnata sulla terra, che porta la felicità in questa vita e la certezza della beatitudine, nell’altra, magari senza bisogno di pentimento.
E, nella sua tremenda serietà, ella aveva anche meditato a fondo il significato della storia della salvezza, nella quale una parte così eminente è stata assegnata dalla Divina provvidenza al suo popolo, il popolo ebreo. Il fatto che i Giudei, dopo aver avuto l’esempio di Abramo e dei patriarchi, le esortazioni dei profeti e la preparazione del Battista, non abbia riconosciuto Gesù Cristo come il Messia, anzi, lo abbia rifiutato, processato e fatto condannare a morte; il fatto che, anche in seguito, sia nel breve che nel lungo periodo, il Giudaismo abbia continuato a trattarlo da falso profeta, da indemoniato, che lo abbia esecrato e maledetto: tutto questo riempiva la sua anima di una immensa tristezza e l’aveva condotta al pensiero che una riparazione fosse necessaria, per espiare la colpa d’Israele e riaprire al popolo eletto la via del ravvedimento, della conversione e della salvezza: cioè il suo stesso sacrificio.
Suor Teresa aveva non solo messo in conto la persecuzione di cui sarebbe stata vittima - erano gli anni terribili della caccia all’Ebreo da parte dei nazisti, lanciati alla conquista dell’Europa -, ma, addirittura, aveva finito per desiderare di subirla: aveva deciso, infatti, di offrirsi come vittima volontaria, proprio per prendere su di sé la colpa dei Giudei nei confronti di Cristo, e per contribuire a ristabilire la relazione d’amore fra Dio e il suo popolo. In questo senso, e proprio come il suo grande modello, Gesù Cristo, suor Teresa non fu una vittima inerme delle circostanze storiche, ma uno spirito eroico e generoso, che volle affrontare il martirio quale offerta totale e incondizionata di se stessa a Dio, in favore del popolo ebreo.
Non si può non restare colpiti, ammirati e quasi ammutoliti di fronte alla tenacia, alla coerenza, alla lucidità di questa donna, che è stata anche una pensatrice notevole (nel contesto di una cultura, quella moderna, dove anche l’ultimo scribacchino osa pretendere per sé la qualifica di “filosofo”), la quale non ha esitato, non è arretrata davanti alle estreme conseguenze della sua relazione di amore con Dio; così come non si può non provare imbarazzo e sconcerto davanti alla linea adottata dalla Chiesa e dalla cultura cattolica “ufficiale” dopo il Concilio Vaticano II, consistente in una negazione pura e semplice dello “scandalo” che separa l’antica alleanza dalla nuova.
Da quando si è deciso di sopprimere la preghiera ufficiale per la conversione degli Ebrei; da quando si è preso a chiamare gli Ebrei “i nostro fratelli maggiori”, senza specificare che l’essere fratelli non diminuisce, semmai aggrava la serietà e la drammaticità della frattura che si è creata, a causa dell’ostinato e rabbioso rifiuto di Gesù da parte di questi ultimi; e da quando, in nome del dialogo inter-religioso e di una propensione all’apertura che si è risolta, sovente, un una forma d’indifferentismo religioso, se non di vero e proprio relativismo (tutte le religioni si equivalgono, perché tutte portano a Dio: e dunque perché parlare ancora di quel che le differenzia?), si direbbe che i cristiani abbiamo deciso di seppellire anche il ricordo di come si è originata la rottura fra Dio e il popolo eletto, e di auto-censurarsi nella constatazione che non sono stati solamente i cristiani a macchiarsi di torti nei confronti dei “fratelli maggiori”, ma anche questi, e fin dai primordi, ad adoperarsi in ogni modo per nuocere ai cristiani.
Del resto, se non c’è nessuna seria ragione di divisione fra cristianesimo e giudaismo, perché mai suor Teresa Benedetta della Croce, al secolo Edith Stein, decise scientemente di offrirsi in sacrificio a Dio? Il suo sacrificio, la sua offerta, furono dunque inutili, furono il frutto di un errore teologico, di uno sbaglio nel giudizio sul giudaismo? In realtà, quando Giovanni Paolo II, vistando la sinagoga di Roma, definì gli Ebrei “i nostri fratelli maggiori”, forse non avrebbe dovuto tacere che quei fratelli avevano messo in croce il Padre comune e che la differenza fra essi e i cristiani è appunto questa: che essi hanno scartato e disprezzato la pietra che, per i cristiani, è diventata, invece, la pietra d’angolo di tutto l’edificio della Chiesa, finalizzato alla salvezza eterna; che il senso della Rivelazione è sfuggito proprio a coloro ai quali era stato indirizzato, mentre è stato compreso, e accolto, da coloro che, in origine, ne erano esclusi. Forse qualcuno, allora e anche dopo, avrebbe dovuto spiegare, precisare, che fare simili affermazioni non significa affatto voler perpetuare l’inimicizia o la diffidenza nei confronti del giudaismo, ma, semplicemente, dire le cose come stanno; e che l’annuncio della Verità non deve mai essere timido, anche se è giusto che sia fatto con delicatezza, nel rispetto delle persone e dei sentimenti altrui.
L’idea che auspicare la conversione degli Ebrei sia una imperdonabile mancanza di rispetto nei loro confronti è tanto sbagliata, quanto potrebbe esserlo l’idea che, per non mancare di rispetto a chi ha imboccato una strada sbagliata, bisogna astenersi dal metterlo in guardia e dal rivelargli che quella strada porta assai lontano dalla meta. Forse che Gesù, vedendosi incompreso e respinto dai suoi correligionari, a un certo punto ha raccomandato ai suoi discepoli non annunciare più il Vangelo fra di essi, ma di fare dell’apostolato esclusivamente tra i pagani? E forse che i discepoli, dopo la sua partenza, decisero di escludere gli Ebrei dalla predicazione del Vangelo, per non offendere i loro sentimenti? Al contrario: ecco in quali termini san Pietro si rivolse al sommo sacerdote, che lo aveva fatto arrestare insieme agli altri apostoli e che aveva proibito loro di predicare (Atti, 5, 29-32):

Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini. Il Dio dei nostri padri ha resuscitato Gesù, che voi avete ucciso appendendolo alla croce.  Dio lo ha innalzato con la sua destra facendolo capo e salvatore, per dare a Israele la grazia della conversione e il perdono dei peccati. E di questi fatti siamo testimoni noi e lo Spirito Santo, che Dio ha dato a coloro che si sottomettono a lui.

E adesso torniamo a suor Teresa Benedetta della Croce. Ecco alcune delle sue riflessioni sul mistero del rifiuto di Gesù da parte degli Ebrei e sulla necessità di riparare a quel rifiuto, facendo olocausto di sé per il suo popolo (da: Edith Stein, a cura di Ermanno Ancilli, Roma, Edizioni O.C.D., 1987, pp. 40-41; 47;  53-54):

“Il suo sangue cade su di noi e sui nostri figli.”. Avevo già sentito dire delle severe misure prese contro gli Ebrei […] in quel momento ebbi l’intuizione che Dio appesantiva di nuovo la mano sul suo popolo  e che il destino di questo popolo era anche il mio. […]
Mi rivolsi al redentore e gli dissi che sapevo bene che la Sua Croce che veniva posta sulle spalle del popolo ebraico: la maggior parte di esso non lo comprendeva, ma quelli che avevano la grazia di tenderlo avrebbero dovuto accettarla con pienezza di volontà a nome di tutti. Mi sentivo pronta e domandavo soltanto al Signore che m’illuminasse su ciò che dovevo fare. Terminata l’Ora Santa (era la vigilia del primo venerdì d’aprile 1933 ebbi l’intima certezza d’essere stata esaudita, sebbene non sapessi ancora in che cosa dovesse consistere quella Croce che mi sarebbe imposta.” […]
Carità nel suo significato più profondo è donazione del proprio essere (cioè la consegna della propria volontà) per diventare uno con l’Amato.  Solo colui che fa la volontà di Dio può conoscere il Suo Spirito, la Vita divina, l’Amore divino, cioè Dio stesso, perché mentre fa il volere divino,  con la più profonda dedizione interiore, s’impossessa della vita stessa di Dio facendola  diventare in ceto qual modo la propria vita”. […]
Fin da ora accetto  con gioia la morte che il Buon Dio ha disposto per me, in perfetta sottomissione alla Sua santissima volontà. Prego il Signore che voglia accogliere la mia vita e la mia morte per l’onore e la gloria Sia, per tutte le intenzioni dei Sacratissimi Cuori di Gesù e Maria e della santa Chiesa […] in espiazione dell’incredulità del popolo d’Israele … per la salvezza della Germania e per la pace nel mondo.

Ed ecco come una consorella di Teresa, durante il processo per la sua canonizzazione (Edith Stein è stata elevata alla gloria degli altari l’11 ottobre 1998 e proclamata compatrona d’Europa, insieme a Santa Caterina da Siena e a Santa Brigida di Svezia) ha descritto l’itinerario spirituale che l‘ha portata all’offerta volontaria della propria vita per la salvezza del suo popolo (op. cit., p. 52):

Il dolore più grande dell’anima sua, dice la M. Teresa Renata, nelle sue deposizioni canoniche, era di constatare l’accecamento  del popolo ebraico, il suo odio e disprezzo per il Crocifisso, il freddo disinteresse con cui ignora il proprio Messia… Essa voleva partecipare alle sofferenze interiori  dell’amore respinto del nostro Salvatore e, seguendo il suo esempio, prendere su di sé la colpa del suo popolo ed espiarla […] per completare nella sua carne ciò che manca alla Passione di Cristo.”

Nella sua sublime offerta d’amore, suor Teresa non volle dimenticare i suoi carnefici e pregò anche per il perdono e la pacificazione del popolo tedesco, sempre animata da una piena, totale confidenza nella sapienza di Dio, e, quindi, sostenuta dalla certezza che, se una sventura così grande si abbatteva sui figli d’Israele, ciò non era dovuto a un accanimento di Dio contro di essi, e meno ancora a una Sua distrazione o ad una Sua assenza (dov’era Dio ad Auschwitz?, si chiederanno intellettuali e filosofi di statura ben più piccola della sua, dopo di lei, e ancora continuano a chiederselo), ma proprio alla Sua insondabile, ineffabile pedagogia, il cui scopo è sempre il bene degli uomini, anche se, a volte, in forme che essi non arrivano a comprendere - almeno, non in questa vita. Tanta semplicità di fede, tanto abbandono in Dio riescono difficilmente comprensibili a chi, oggi, si preoccupa soprattutto di proclamare un cristianesimo politically correct, che vada d’accordo con tutti e che mantenga ottime relazioni con tutti, anche a scapito della Verità, per un calcolo di convenienza puramente umano o per una sorta di pudore e di delicatezza malintesi, dal momento che l’autentica carità è cercare il bene dell’altro, sempre e comunque; e quale bene più grande può esservi della Verità, da cui scaturisce il mistero della salvezza?
Un ebreo americano, Pinchus Feinstein, di Miami Beach (Florida), che nel 1970 si era convertito al cattolicesimo, ha ora indirizzato una lettera aperta al papa Francesco, affermando che, se la Chiesa cattolica sostiene, oggi, per bocca della Pontificia commissione per l’Ebraismo, che l’alleanza di Dio con il suo popolo non è mai stata revocata, perché indissolubile, allora la Chiesa lo ha indotto in errore, quando insegnava che quella alleanza era stata invece infranta con la crocifissione, e quindi che un ebreo, per salvarsi, deve convertirsi al cattolicesimo. Pertanto, il signor Feinstein domanda, molto coerentemente, perché egli sia stato battezzato, e anche perché Gesù Cristo sia venuto sulla terra, dato che non sussiste alcun problema per l’antica alleanza fra Dio e il popolo eletto; e preannuncia querela al papa e alla Chiesa, con tanto di risarcimento per i danni morali e materiali subiti. E dunque, come stanno realmente le cose? Aveva ragione Edith Stein, o ha ragione la Chiesa di papa Francesco? L’antica alleanza è ancora valida, o la nuova alleanza l’ha sostituita per sempre?


Edith Stein si offrì in olocausto per propiziare la redenzione del suo popolo

di Francesco Lamendola

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