Il dolore innocente e la risposta cristiana. Che c’è
Nell’udienza generale di mercoledì 4 gennaio, la prima del 2017, papa Francesco è tornato sulla questione del dolore innocente. Ne aveva già parlato nel dicembre scorso, durante il discorso rivolto alla comunità dell’ospedale pediatrico Bambin Gesù, e di nuovo, come in quella occasione, rispetto al testo scritto ha voluto fare un’integrazione a braccio.
Il 15 dicembre 2015, improvvisando, Francesco disse: «Perché i bambini soffrono? Non c’è risposta. Soltanto guardare il Crocifisso, lasciare che sia Lui a darci la risposta».
E continuò con un dialogo immaginario: «Tu potrai dirmi: “Ma lei, Padre, non ha studiato teologia?”». «Sì!». «E ha letto libri su questo?». « Sì! E la risposta non c’è! Guarda il Crocifisso: soffre e piange, e questa è la nostra vita. Io non voglio vendere ricette che non servono, questa è la realtà: il pianto, il dolore come Gesù in croce. Piangere con lui, con lei, soltanto questo. Perché soffrono i bambini? Una delle domande aperte della nostra esistenza: non sappiamo. Dio è ingiusto? Eh sì! È stato ingiusto con suo Figlio, lo ha mandato in croce! Eh, se seguiamo questa logica, dobbiamo dire questo? Ma è la nostra esistenza umana, è la nostra carne che soffre in quel bambino. E quando si soffre non si parla: si piange e si prega, in silenzio».
Molto simili le espressioni usate il 4 gennaio 2017, quando, dopo aver spiegato che «il Figlio di Dio è entrato nel dolore degli uomini», il papa di nuovo ha sentito il bisogno di un’integrazione a braccio. La seguente: «Quando qualcuno si rivolge a me e mi fa domande difficili, per esempio: “Mi dica, padre: perché soffrono i bambini?”, davvero io non so cosa rispondere. Soltanto dico: “Guarda il Crocifisso: Dio ci ha dato il suo Figlio, Lui ha sofferto, e forse lì troverai una risposta”. Ma risposte di qua non ci sono. Soltanto guardando l’amore di Dio che dà suo Figlio, che offre la sua vita per noi, può indicare qualche strada di consolazione. E per questo diciamo che il Figlio di Dio è entrato nel dolore degli uomini; ha condiviso ed ha accolto la morte; la sua Parola è definitivamente parola di consolazione, perché nasce dal pianto».
Forse qualcuno ricorderà che a proposito del primo discorso, quello del 15 dicembre 2016, fece scalpore la frase sul «Dio ingiusto». Un’eresia, anzi una bestemmia, commentò qualcuno. In realtà, rileggendo l’integrazione pronunciata dal papa a braccio e nel suo italiano sempre un po’ immaginifico, ci si rende conto che Francesco ha sostenuto che Dio sarebbe «ingiusto» solo se seguiamo «questa logica», ovvero, sembra di capire, la logica terrena, esclusivamente umana. Se invece guardiamo al Crocifisso, non è così.
Ma il punto su cui vorrei puntare l’attenzione è un altro. Sia il 15 dicembre sia il 4 gennaio Francesco ribadisce con decisione che di fronte al dolore innocente «la risposta non c’è». Nel primo discorso lo dice chiaramente: «Non c’è risposta», «La risposta non c’è». E nel secondo aggiunge: «Davvero io non so cosa rispondere». In entrambi i discorsi il papa lascia intendere che uno può anche aver studiato teologia, può essere anche papa, ma una risposta non è possibile. L’unica cosa che si può fare è contemplare il Crocifisso.
Ora la domanda è: siamo sicuri che sia proprio così? È plausibile sostenere che per un credente la risposta non c’è? E il papa, in quanto papa, può dire «davvero io non so che cosa rispondere»?
In realtà, dottrina e tradizione ci dicono che, per un credente, la risposta c’è. Dio non ha creato il male e la sofferenza, che sono conseguenze del peccato. Ecco la risposta, sconvolgente per la mentalità secolarizzata, ma inequivocabile per la Chiesa: il peccato. Un peccato al quale Dio, però, non ci abbandona come a una condanna inevitabile. Il Padre, infatti, manda suo Figlio ad assumere su di sé tutti i peccati, per sconfiggere la morte. Un’altra risposta sconvolgente, anzi scandalosa, per la mentalità secolarizzata. Ma altrettanto inequivocabile.
I due misteri, quello del male e del dolore innescato dal peccato, e quello della redenzione permessa dal sacrificio del Figlio di Dio, sono strettamente connessi. Come spiegò Giovanni Paolo II in un’udienza generale del 1986 (10 dicembre) «il mistero del male e del peccato, il “mysterium iniquitatis”, non può essere compreso senza riferimento al mistero della redenzione, al “mysterium paschale” di Gesù Cristo». E nella «Salvifici doloris», la lettera apostolica dedicata proprio al senso cristiano della sofferenza, Giovanni Paolo II scrive: «La sofferenza deve servire alla conversione, cioè alla ricostruzione del bene nel soggetto, che può riconoscere la misericordia divina in questa chiamata alla penitenza. La penitenza ha come scopo di superare il male, che sotto diverse forme è latente nell’uomo, e di consolidare il bene sia in lui stesso, sia nei rapporti con gli altri e, soprattutto, con Dio».
Dunque le risposte ci sono, e la Chiesa, anche di recente, le ha formulate con chiarezza. Certo, se non si fa riferimento al peccato, diventa impossibile cogliere il significato della sofferenza come richiamo alla conversione.
Il peccato, fin da quello di Adamo: ecco la risposta. Un peccato, il primigenio, che è stato di disobbedienza: l’uomo, la creatura, che pretende di fare la sua volontà e non quella del Creatore.
Si tratta di una verità che la Chiesa ha costantemente ribadito, come leggiamo nella «Gaudium et spes»: «Costituito da Dio . . . l’uomo fin dagli inizi della storia abusò della libertà sua, erigendosi contro Dio e bramando di conseguire il suo fine al di fuori di Dio».
Ma l’uomo, Adamo, non ha fatto tutto da solo. È stato tentato da qualcuno. E da chi? Dal Maligno. Un’altra risposta inequivocabile. Perché, come si legge nel Libro della Sapienza (Sap 2, 24): «. . . la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo; e ne fanno esperienza coloro che gli appartengono».
Le risposte ci sono, sono chiare. La Chiesa le possiede e le insegna da sempre.
Lungo i secoli, il problema del dolore innocente ha interpellato schiere di filosofi, teologi, scrittori, pensatori. La questione è quella alla quale gli atei fanno ricorso più volentieri per giustificare il loro non credere in Dio: se Dio c’è, ed è buono, come può permettere la sofferenza, sommamente ingiusta, dell’innocente?
Ecco, chi è senza risposte è appunto l’ateo. Ma il credente la risposta ce l’ha. Ed è una risposta che apre a infinite riflessioni. A partire da questa: il peccato fa irruzione nel mondo a opera di un solo uomo, Adamo, ma si riverbera sull’umanità intera. Allo stesso modo, il riscatto, la redenzione, è operata da un solo uomo, Gesù Cristo, ma va a beneficio di tutti. Non ce n’è abbastanza per interrogarci, in quanto credenti, sullo spessore della nostra responsabilità individuale nell’eterna battaglia tra la luce e le tenebre, tra il bene e il male?
Sì, la Chiesa ha le risposte, e il suo insegnamento sorregge l’opera dei santi.
Il beato don Carlo Gnocchi, il prete che dedicò la vita ai bambini disabili, nel suo libro «Pedagogia del dolore innocente» dice che attraverso il dolore dei bimbi «si ha in mano la chiave per comprendere ogni dolore umano e consolare la pena di ogni uomo percosso ed umiliato dal dolore». Risposta alla luce della fede.
In questi casi penso sempre a quei genitori che hanno avuto figli gravemente disabili o hanno fatto l’esperienza della perdita di un figlio. Ne ho conosciuti alcuni che, dopo un primo momento di ribellione totale a Dio («perché mi hai fatto questo?»), hanno poi trovato la risposta proprio in Gesù. Ricordo in particolare una mamma che mi ha detto: «Per lungo tempo non ho capito, ma ora so che l’esperienza della malattia di mio figlio aveva ed ha un significato. Ho scoperto la solidarietà di altre persone, mi si sono aperti gli occhi su ciò che conta davvero, ho percepito la bontà disinteressata. Mio figlio non ha sofferto invano. La sua sofferenza ci ha toccato nel cuore e ci ha migliorati».
Certo, approdare alla risposta non è facile. Ma la risposta c’è. Ha un nome e un volto.
Sostenere che una risposta non c’è non è forse in aperta contraddizione con la fede di quanti, e sono tanti, l’hanno trovata proprio nel valore redentivo del dolore innocente unito alla passione di Cristo e nella partecipazione al mistero della Redenzione?
Mi scrive un amico prete: «Grazie alla Croce di Cristo, il dolore innocente non è un enigma senza risposte, ma un mistero in cui entrare con fede e speranza, alla luce della Pasqua. Il Signore non ha lasciato senza risposta lo scandalo di Pietro di fronte alla croce né la tristezza dei discepoli di Emmaus, ma spiegò loro quello che in tutte le Scritture si riferiva a Lui e disse: ”Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?” (Lc 24, 26). Del resto Paolo, maestro di Luca, era convinto che la sofferenza, accolta nella fede, compie ciò che manca in noi dei patimenti di Cristo a favore del suo corpo che è la Chiesa (Col 1,24)».
Dunque le risposte, alla luce della fede, ci sono. Difficili, difficilissime da accogliere per la ragione umana, ma ci sono. E, se ci sono, non andrebbero forse formulate dal pastore in modo che il gregge le possa meditare, accogliere e vivere? Il compito del pastore è quello di dire «non ho risposte» o è quello di confermare i fratelli nella fede?
Forse Francesco ha voluto dire: non ci sono risposte razionali, non ci sono risposte sul piano della sola ragione umana. Il problema è che lui ha detto: «Io non ho risposte» e «io non voglio vendere ricette che non servono» . Cioè: io prete, io padre gesuita, io vescovo e papa, non ho risposte.
Non solo. Ha anche detto che la Parola di Dio, in proposito, «può indicare qualche strada di consolazione». Ma, di nuovo, siamo sicuri che sia così? «Qualche strada di consolazione» non suona, per lo meno, riduttivo? La Parola di Dio non è forse Parola di Verità e di Vita? Gesù, con il suo sacrificio, non sconfigge forse la morte? E non siamo qui nel cuore stesso del mistero cristiano? La fede pasquale può essere ridotta a «qualche strada di consolazione»?
Ripeto: è probabile che Francesco abbia soltanto voluto mettersi dalla parte del senso comune, magari pensando di avvicinare, così, i lontani. Ma quanto è compatibile questo argomentare con il dovere di confermare i fratelli nella fede?
Il 29 maggio 1994, in un Angelus domenicale dai toni quasi mistici, san Giovanni Paolo II, reduce dal ricovero di un mese al Policlinico Gemelli per la frattura di un femore, parlò della sua sofferenza come di «un dono necessario», legato al mese mariano, e precisò: «Il Papa doveva trovarsi al Policlinico Gemelli, doveva essere assente da questa finestra per quattro settimane, quattro domeniche, doveva soffrire: come ha dovuto soffrire tredici anni fa, così anche quest’anno».
Il riferimento a tredici anni prima è ovviamente all’attentato del 13 maggio 1981. Poi papa Wojtyla spiega: «Ho meditato, ho ripensato di nuovo a tutto questo durante la mia degenza in ospedale. E ho trovato di nuovo accanto a me la grande figura del cardinale Wyszynski, primate della Polonia (del quale ricorreva ieri il tredicesimo anniversario della morte). Egli, all’inizio del mio pontificato, mi ha detto: “Se il Signore ti ha chiamato, tu devi introdurre la Chiesa nel terzo millennio”. Lui stesso ha introdotto la Chiesa in Polonia nel secondo millennio cristiano. Così mi disse il cardinale Wyszynski. E ho capito che devo introdurre la Chiesa di Cristo in questo terzo millennio con la preghiera, con diverse iniziative, ma ho visto che non basta: bisognava introdurla con la sofferenza, con l’attentato di tredici anni fa e con questo nuovo sacrificio. Perché adesso, perché in questo anno, perché in questo Anno della famiglia? Appunto perché la famiglia è minacciata, la famiglia è aggredita. Deve essere aggredito il Papa, deve soffrire il Papa, perché ogni famiglia e il mondo vedano che c’è un Vangelo, direi, superiore: il Vangelo della sofferenza, con cui si deve preparare il futuro, il terzo millennio delle famiglie, di ogni famiglia e di tutte le famiglie. Volevo aggiungere queste riflessioni nel mio primo incontro con voi, carissimi romani e pellegrini, alla fine di questo mese mariano, perché questo dono della sofferenza lo devo, e ne rendo grazie, alla Vergine Santissima. Capisco che era importante avere questo argomento davanti ai potenti del mondo. Di nuovo devo incontrare questi potenti del mondo e devo parlare. Con quali argomenti? Mi rimane questo argomento della sofferenza».
C’è da restare senza fiato davanti a questo papa che, meditando sul mistero del dolore, non solo trova la risposta nel «Vangelo superiore», ma addirittura ringrazia la Vergine per il dono della sofferenza e proclama che per lui diventerà argomento privilegiato nel confronto che dovrà sostenere con i potenti della terra (la cui logica, evidentemente, è ben diversa da quella evangelica) per difendere la famiglia.
Le risposte, dunque, alla luce della fede, ci sono. E che risposte!
Aldo Maria Valli
Risposta a Luigi Accattoli sul dolore innocente
Caro Luigi,
sapevo che con il mio articolo avrei urtato la sensibilità di molti, e chiedo scusa a chi può essersi sentito ferito. Sono pienamente consapevole di aver scritto parole urticanti.
Dunque, perché ho deciso di scrivere? Tu fai riferimento a un gravissimo dolore che hai vissuto. Io invece, mentre scrivevo, pensavo a una grave malattia del mio secondo figlio, e unico maschio. Oggi è un professionista, un marito e un papà. Ma quando era un bambino molto piccolo rischiò la vita a causa di una polmonite rimasta nascosta.
I medici ci dissero: l’abbiamo preso per i capelli. Nei lunghi giorni in cui restai in ospedale con lui pregai molto. Pregai e giocai, perché un bambino, per quanto malato, è sempre un bambino, e con le forze che gli restano vuole giocare.
Mi inventai un gioco da fare mentre lui stava a letto. Io gli lanciavo un cappello, lui doveva afferrarlo al volo e rilanciarlo a me, mentre io mi spostavo in vari punti della stanza.
Come rideva, Giovannino! E io come pregavo! E, mentre pregavo, ringraziavo il Signore per quel dolore, per quella sofferenza. Ebbene sì, ringraziavo. Perché quella sofferenza rappresentava, per dirla con Giovanni Paolo II, un “Vangelo superiore”. Quella sofferenza ci stava unendo. Giovannino, io, il buon Dio, il suo Figlio sulla croce, mia moglie Serena: tutti uniti più che mai, con una forza che non posso definire in altro modo se non come soprannaturale. La sofferenza aveva un senso. Sì, non mi vergogno di dirlo: mentre lanciavo il cappello, sentivo che quella sofferenza aveva un senso. Sentivo la mano del buon Dio su di me, su noi tutti. Non mi sono mai sentito abbandonato.
Perché le risposte ci sono. Le risposte un cristiano le ha. E non dirlo mi sembra un tradimento della nostra fede. Che è così bella e grande.
Ora, come puoi ben capire, non voglio sostenere che io ho ragione e tu hai torto. Qui non si tratta di avere ragione o torto. Ciò che mi sta a cuore è dire, con tutto il fiato che ho in corpo, che le risposte, nella fede, ci sono.
Ecco perché non mi sembra giusto che il papa, per quanto spinto certamente da umiltà e semplicità, da desiderio di coinvolgersi con il dolore del mondo e di stare dalla parte dei sofferenti, dica che lui non ha risposte e che non vuole vendere ricette. È l’ateo che non ha le risposte, non il credente! E qui, di nuovo, non voglio fare classifiche, non voglio dire che qualcuno è migliore e qualcuno è peggiore. Dico solo le cose come stanno.
Anche perché, caro Luigi, sai bene che al punto in cui ci troviamo, in questa Chiesa che non dice più in che cosa crede ma si compiace di generici richiami alla misericordia e alle periferie, se si continua a non dare risposte si rischia di fare un danno molto grande, che poi qualcuno dovrà riparare, ma non so come e non so con quali risorse.
Quanto alla risposta di Benedetto XVI alla bambina giapponese, me la ricordo bene. Non mi convinse allora e non mi convince oggi. Ma anche i migliori teologi hanno momenti di scarsa brillantezza!
Ecco, volevo fare il bravo e invece…
Grazie Luigi per avermi interpellato. Avresti potuto stroncarmi e basta. Sei un amico. Sappi comunque che qui c’è un cristiano che parla solo per amore della santa madre Chiesa: nessun interesse di parte, nessuna manovra di chissà quale tipo, nessun desiderio di protagonismo. Scrivendo certe cose ho tutto da perdere e niente da guadagnare. Ma sento di non poter stare zitto.
Ti abbraccio
Aldo Maria
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