TESTIMONIANZA DI VERITA'
Il Vangelo non è solo un libro di fede ma la testimonianza della Verità. Uno dei segni più evidenti del relativismo dottrinario che ormai da parecchi anni impazzano entro la Chiesa è dato dal Suo stravolgimento
di Francesco Lamendola
Uno dei segni più evidenti del soggettivismo e del relativismo dottrinario che ormai da parecchi anni impazzano entro la Chiesa è dato dallo stravolgimento del significato complessivo del Vangelo, il testo fondamentale della religione cristiana: che oggi un numero sempre maggiore di sacerdoti, di vescovi, e anche di teologi, presentano come un libro di fede, cioè come la testimonianza della fede degli evangelisti; mentre la dottrina cattolica ha sempre insegnato, fin dall’inizio, e nell’arco di quasi duemila anni, che non di un libro di fede si tratta, o, in ogni caso, non solo di un libro di fede, ma anche, e soprattutto, di una testimonianza storica ben precisa. Gli evangelisti, cioè, non raccontano quello che essi hanno creduto fosse vero, ma quello che hanno visto e che hanno udito; anche se è chiaro che il loro vedere e udire appare diverso prima e dopo il fatto della passione, morte e resurrezione di Gesù Cristo. Prima, essi avevamo capito le cose in un certo modo; dopo, le capiscono in maniera molto più ampia, più profonda, più completa. Resta però il fatto che anche la Morte, la Passione e la Resurrezione di Gesù – anche la Resurrezione; soprattutto la Resurrezione – non sono raccontate, nei Vangeli, come degli eventi nei quali chi li racconta ha avuto fede, ma come degli eventi assolutamente reali e di per sé evidenti, ed ai quali gli evangelisti hanno assistito, o hanno ascoltato la testimonianza veridica di persone che vi hanno assistito. Pertanto, va respinta fermamente ogni lettura sentimentale, fideistica e soggettivistica dei Vangeli: i Vangeli sono libro storici, sono testimonianze di cose reali, delle quali è stata fatta esperienza diretta, e che vengono narrate non perché ritenute vere, ma delle quali si garantisce la verità, avendola gli autori toccata con mano.
Se ci si limita a parlare dei Vangeli come di un annuncio di fede, e di Dio nella sola dimensione dell’amore (e quindi della misericordia), si amputa il significato del fatto della religione cristiana: che non è credenza in qualcosa verso cui ci si abbandona sentimentalmente, ma certezza derivante da una testimonianza sicura, e, quindi fede, nel senso teologico del termine, in qualcosa di certo e di vero, che chiede una adesione razionale alla Verità rivelata. I cattolici di tendenza modernista, che lo sappiano o meno (e di solito lo sanno) vanno contro il mistero trinitario di Dio, che è, insieme a quello dell’Incarnazione, il dogma supremo su cui si regge il cristianesimo. Dio è uno e trino; e la Trinità procede dal Padre, che è somma sapienza creatrice e somma giustizia, al Figlio, che è l’annunciatore e il testimone della Verità, e poi, dal Padre e dal Figlio congiuntamente, allo Spirito Santo, che è il Consolatore e, quindi, l’Amore misericordioso. Porre l’accento sul solo aspetto dell’amore di Dio (magari confondendolo con l’amore per Dio, che è un’altra cosa) significa staccare la terza Persona della Trinità dalle altre due e perciò, di fatto, cadere in una forma di politeismo, dimenticandosi che Dio è uno e che, in Dio, l’amore o la misericordia non si possono separare dalla sapienza, dalla giustizia e dalla testimonianza della Verità. Ebbene, l’errore originario del modernismo – quantunque sia improprio chiamarlo errore, perché l’errore, di solito, è un atto compiuto inconsapevolmente – sta proprio in questo: nel trasformare il Vangelo in un messaggio dell’Amore di Dio (confondendolo a bella posta con il nostro amore per Lui), mentre esso è, prima di tutto e innanzitutto, un messaggio di Verità, una testimonianza resa alla Verità: Io sono la via, la verità e la vita, dice Gesù; nessuno può venire al Padre se non per mezzo di me. Sono parole chiare, chiarissime; eppure, i modernisti hanno trovato il modo di eluderle, dando ad intendere che basta “amare”, genericamente ”amare”, e si è già con Dio, si è già in Dio: anche se, di fatto, si è lontani dalla Verità. E se si è lontani dalla Verità, è più che evidente che non si è né con Dio, né, tanto meno, in Dio: dove si sia andati a finire, questo lo lasciamo decidere ad altri.
Ha scritto il teologo Romano Amerio nella sua opera del 1985, Iota unum. Studio delle variazioni della Chiesa cattolica nel secolo XX (a cura di E. M. Radaelli, Torino, Lindau, 2009, pp. 631-633):
La DOTTRINA insegnata e predicata dai ministri della Chiesa era una voce sola. Adesso varia nelle stessa nazione da diocesi a diocesi, nella stessa diocesi da parrocchia a parrocchia, nella stessa parrocchia da predicante a predicante. La variazione anziché essere, come esige il parlare stesso, di coloritura, di presentazione, di sentimento del medesimo vero di fede, è invece alterazione dogmatica, mantellata dal proposito di adattare la fede alle disposizioni e alle aspettazioni dell’uomo contemporaneo. Lo spirito primato imbaldanzisce. E la corruzione dottrinale del ceto dei presbiteri precede o seguita quella dell’ordine episcopale. Qui i Superiori con pronunciati propri difformi dai pronunciati dei loro pari, più spesso tollerando o autorizzando le deviazioni dei presbiteri, hanno provocato nella Chiesa un GENERALE SMARRIMENTIO DELLE CERTEZZE DI FEDE e un increscioso indebolimento del consenso tra i fedeli. Tale consenso fu un carattere peculiare della Chiesa romana, riconosciuto e ammirato sempre da quelli di fuori, e rimette d’altronde all’ordine della processione trinitaria, giacché IN PRINCIPIO ERAT VERBUM e anche nella Chiesa non si fa nulla senza il Verbo.
L’indebolimento dell’unità dottrinale, già manifesto nel Concilio, ma quivi scambiato per sintomo di libertà e di vitalità, apparve distintamente in occasione della “Humanae vitae” e poi in una moltitudine di documenti, cui dava autorità perlomeno la dissimulazione del Superiore, quando pure non intervenne addirittura a coprire della sua autorità contro la rimostranza dei laici l’errore di suoi presbiteri. È infatti diritto dei fedeli confrontare l’insegnamento di un ministro particolare con l’insegnamento degli altri ministri e in ultima analisi con quello del Magistero supremo. Questo diritto discende dalla partecipazione all’officio didattico del Cristo prodotta dal battesimo, e importa l’obbligazione di rigettare l’insegnamento erroneo in foro interno, e, dato il caso, di impugnarlo anche in foro pubblico. E conviene osservare […]che la corruzione dottrinale ha cessato di essere fenomeno di piccole cerchie esoteriche e quasi pratica di una “disciplina arcani”: è diventata un0azione pubblica nel corpo ecclesiale con le ,coi libri, nella scuola e nella catechesi (affidata a laici poco instrutti e molto animosi nelle novità). A questa elisione dogmatica cattolica non sono estranee la nuova disciplina della Congregazione per la dottrina della fede, che ha traslocato la vigilanza dalla Santa Sede d istanze inferiori meno addottrinate e meno ferme, e anche la scarsa attenzione prestata nella provvista delle diocesi alle qualità culturali dei candidati. […] Vi è nella Chiesa una generale propensione a traslocare la mira della vita cristiana dal Cielo alla terra e a tirare la legge evangelica, che annuncia il primato di Dio, al primato dell’uomo. Perciò le verità di fede sono sottoposte a una dissalazione che le spoglia di quanti hanno di soprannaturalmente ostico al senso dell’uomo, rendendo insipido il sale della terra. E la profondità del guasto entrato nella mentalità del popolo di Dio si arguisce anche dallo scarso risentimento e dalle deboli rimostranze che dal popolo di Dio salgono contro la seduzione dottrinale. Di tale indifferentismo non è da stupire. La defezioni di interi popoli furono precedute dalla defezione dei cleri, da quelle di Germania e d’Inghilterra del secolo XVI a quelle recentissime della Chiesa rumena (1945), della Chiesa rutena (1947) e ultima quella della Chiesa cinese (1957). […] Lo spirito della filosofia moderna, già accolto nel modernismo, presiedette alla imponente variazione operatasi nell’esegesi cattolica sin dentro il suo organo officiale che è il Pontificio Istituto biblico. La variazione è anche segnata dal venir meno della Pontificia commissione biblica. Della variazione, talvolta coperta e talaltra aperta, si possono individuare tre punti capitali. Il PRIMO è il rovesci manto del rapporto fra Antico e Nuovo Testamento: i fatti e i detti del Vecchio non sono più una prefigurazione dei fatti e dei detti del Nuovo, cioè non hanno più SENSO PROFETICO, ma al contrario il Nuovo è costrutto e modellato sui fatti e i detti del Vecchio. […] Il SECONDO punto è il passaggio dallo storico al poetico. Si insegna ormai comunemente che il Nuovo Testamento esprime la FEDE della comunità cristiana primitiva. Questo insegnamento è nuovo ed è smentito da tutta la stria della Chiesa sin dai primordi, secondo la quale i Vangeli annunziano non già la fede, ma i FATTI creduti. Prima di essere nell’ordine della fede i detti e i fatti del Cristo sono nell’ordine reale e storico e soltanto di qui passano nella fede: possono passare, perché già sono. […] Il TERZO punto è il ragguagliamento della Sacra Scrittura a ogni altra testimonianza; se ne deve quindi raccogliere non la sequela degli eventi, ma lo stato CULTURALE di un popolo e la sua mitologia. Si viene così a dissolvere nel muto tutta la storia mosaica e a interpretare l’ispirazione come l’intensità del consenso popolare attorno a un’infondata credenza. Si nega similmente tutto il prodigioso della storia sacra e massime il valore probatorio, dogmatizzato in molti Concili, dei miracoli di Cristo.
E, a proposito di quest’ultima osservazione, non possono non venire alla mente le parole dello stesso Cristo: Le parole che io vi dico, non le dico da me; ma il Padre che è con me compie le sue opere. Credetemi: io sono nel Padre è il Padre è in me; se non altro, credetelo per le opere stesse (Giovanni, 14, 10-11). Ora, se Gesù stesso dice agli uomini di credere alla sua Parola, se non altro per le opere che essi hanno veduto e udito, ciò significa che le opere, cioè i miracoli di Cristo, non sono affatto un elemento secondario, o favoloso, o “mitico”, come pure dicono certi teologi che pure si professano cattolici, e certi predicatori che turbano e confondono, dal pulpito, i loro fedeli, con affermazioni temerarie, mutuate dalla “teologia liberale” e protestante, circa il carattere mitologico delle Scritture, o di ciò che, in esse, attiene al soprannaturale. Tutto al contrario: le opere, cioè i miracoli di Cristo, sono la conferma della soprannaturalità, e quindi della assoluta Verità, della dottrina: la quale è assoluta e non relativa, come sarebbe se si fondasse su una rivelazione in fondo umana, o, comunque, soggetta alle variazioni della cultura umana.
Ed ecco qui il grande pericolo e l’immenso danno che le tendenze moderniste stanno provocando nel cuore vivo del cristianesimo, che è la dottrina (e non la pietà; non lo “stile di vita”; non la misericordia: tutte cose senz’atro importantissime, ma che non vivono di vita autonoma, tanto è vero che si possono trapiantare su qualsiasi ceppo religioso): concedendo, di fatto, una completa libertà di elaborazione dottrinale a ogni ministro di Dio e a ogni fedele, e mettendo fra parentesi, o addirittura ignorando, la dimensione soprannaturale della Rivelazione, garantita dalle opere di Cristo, si riduce il cristianesimo a una sorta di dottrina umanistica, a un insieme di esortazioni e di pie parabole morali, che avrebbe potuto raccontare qualsiasi saggio e devoto uomo del passato, così come lo potrebbe fare qualsiasi saggio del presente. Non c’è da stupirsi se, su una tale base, i modernisti sono anche attivissimi propugnatori di un ecumenismo e di un dialogo inter-religioso che finiscono per relativizzare la verità cristiana e per fare di Gesù uno dei tanti maestri di saggezza che si sono succeduti nella storia, col risultato di espungere l’elemento divino dal Vangelo e di sostituir la Verità eterna e immutabile (stat Veritas) con una dottrina fluida e flessibile, modificabile a piacere ogni qualvolta i singoli credenti ritengono che così “detti loro” lo spirito. Quale spirito? Non quello con la maiuscola; non la terza Persona della Trinità, che è Spirito di Verità.
Romano Amerio descrive e documenta puntigliosamente quello che vede negli anni Ottanta del ‘900, meno di vent'anni dopo la fine del Concilio; e, mettendo in fila tutte le licenze, le innovazioni gratuite, le novità non autorizzate, le piccole e grandi infedeltà al Magistero della Chiesa, così come esso si è sempre pronunciato sui punti essenziali della dottrina, ma anche della liturgia (che, a torto, viene da molti considerata come un semplice "vestito" da indossare durante i riti sacri, e perciò modificabile a piacere, col mutare dei tempi), il quadro complessivo che lascia emergere è più che allarmante, poiché descrive una situazione catechistica e pastorale fuori controllo, dove ogni vescovo, ogni prete, ogni insegnante e collaboratore pastorale si sentono autorizzati da dare la propria interpretazione del Vangelo, magari con la scusa d'ispirarsi a quel famoso e non mai definito "spirito del concilio" che giustifica, ideologicamente, tutte le novità più arbitrarie e discutibili. Se fosse ancor vivo, egli avrebbe parecchi motivi per vedere sin troppo confermata la sua analisi e per temere che, ormai, il disordine e la sistematica alterazione della dottrina cattolica, attuata in maniera estemporanea su iniziativa di chiunque si senta investito della parte di novatore, siano divenuti irreversibili. Ma, per fortuna, il capo della Chiesa è Cristo; e a Dio tutto è possibile…
Il Vangelo non è solo un libro di fede, ma la testimonianza della Verità
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