Prepariamoci alla revisione di Liturgiam authenticam e ad un
nuovo linguaggio del Messale italiano. In fondo in questo momento Dio ha
affidato la sua Chiesa a questo tipo di professori e di studiosi. Quel Dio che
scrive dritto anche sulle righe storte degli uomini.
«Se soltanto poteste sopportare un po’ di follia da parte mia! Ma, certo, voi mi sopportate» (2Cor 11,1). E allora, facendo seguito al contributo sulla costituzione di una commissione per rivedere l’Istruzione Liturgiam authenticam, che regolamenta i criteri e i modi della traduzione liturgica, con una dose di follia mi permetto di dire: è un lavoro inutile, una commissione inutile, utile solo a spendere soldi in viaggi e soggiorni di lavoro e a prendersi una rivincita “oggettiva”, sia pure con “soggettive” buone intenzioni. L’Istruzione Liturgiam authenticam è ancora oggi valida a orientare le traduzioni e a produrre un eccellente linguaggio liturgico aperto alle innovazioni. Queste valutazioni, che potrebbero sembrare irrispettose del “nuovo corso”, sono da comprendersi alla luce di ciò che segue.
Con le traduzioni “esatte” non si auspica un ritorno puro e semplice all’antichità. La formulazione di un linguaggio “attuale” non è affidata principalmente ai traduttori, ma è insita nel Messale uscito dopo il Vaticano II, che non si è limitato a riproporre “le cose vecchie”, ma ha adottato «con prudenza “le cose nuove” (cf Mt 13,52)». Alcune orazioni relative a «certe necessità proprie del nostro tempo, sono state interamente composte ex novo, traendo i pensieri e spesso anche i termini dai recenti documenti conciliari» (anche se, con buona pace di Paolo VI, in genere sono di una prolissità insopportabile e odorano più di conferenza che di preghiera). Certe espressioni antiche «di una certa mentalità sull’apprezzamento e sull’uso dei beni terreni», o legate a forme penitenziali di altri tempi, sono state modificate sembrando che, con un’operazione del genere, «non si recasse offesa alcuna al venerabile tesoro della tradizione». Così il n. 15 dell’attuale Proemio del Missale Romanum.
C’è però un rispetto dei tempi e dei momenti, che non sempre è presente nelle istanze di chi vuole riproporre oggi un nuovo linguaggio liturgico e rivedere Liturgiam authenticam. La Chiesa dei padri e dell’antichità ha creato un suo linguaggio liturgico e quella stagione non è replicabile oggi. È un po’ come le scelte dell’adolescenza e della giovinezza di un uomo che possono essere approfondite, ma non continuamente rimesse in discussione nelle successive età della vita. Così come è antistorica l’istanza di devolvere l’approvazione delle traduzioni in larga misura alle conferenze episcopali, perché oggi la comunicazione e il governo della Chiesa non possono più tornare alle situazioni del mondo antico.
Al riguardo è interessante il fatto che negli anni ’80 Dossetti fu invitato a partecipare «al lavoro per la proposta di un nuovo repertorio italiano di orazioni» e rispose negativamente perché «mi pareva che io e la mia comunità fossimo del tutto impreparati a dare un contributo originale all’impresa», e ciò perché Dossetti riteneva più urgente che «si dovesse fare qualche cosa per rieducare il popolo di Dio nella percezione più esatta e più rigorosa possibile delle formule eucologiche create dalle età più antiche» (Prefazione a M.F.T. Lovato, Messale Romano. Le Orazioni proprie del Tempo. Ed. San Lorenzo, Reggio Emilia 1991, pp. V-VII). Oggi per contro un gruppo di “professorini” è disposto a correre l’avventura di un nuovo linguaggio, guardandosi bene - questa volta - dal citare Dossetti.
L’inganno del postulato della incomprensibilità. Spesso si ritiene che il linguaggio liturgico tradizionale sia incomprensibile non solo quanto alle parole - incomprensibili o, se comprensibili, inaccettabili come “placare” Dio con un sacrificio di immolazione -, ma sia anche inattuabile dall’uomo di oggi come struttura, come stile del discorso. Il che forse non è vero e in ogni caso presuppone che il modo di parlare odierno sia una sorta di assoluto al quale adeguarsi e al quale il linguaggio liturgico classico avrebbe abbastanza poco da insegnare. Bisogna invece presupporre che il linguaggio liturgico classico parte da elementi “naturali” alla intelligenza umana e dunque “può” essere capito e praticato simultaneamente al linguaggio odierno corrente.
Qui la posta in gioco è il rapporto cristianesimo/mondo e in fondo è la stessa dinamica dei punti caldi di Amoris laetitia: o si parte correttamente dall’ideale venendo incontro alle persone o si parte dall’assoluto soggettivo delle persone costruendo un nuovo e scorretto ideale.
Quando poi si continua a ripetere che l’uomo di oggi non capisce il linguaggio liturgico, forse non si tiene conto dello scarto tra il non capire e il non essere interessati a capire, che deriva da un scelta di non conversione e, perché no, da un clima di edonismo diffuso. San Tommaso d’Aquino spiega che «dalla lussuria ha origine la cecità della mente, che esclude in modo quasi totale la conoscenza dei beni spirituali» (II-II, q 15, a 3). Ora, constatando un certo clima attuale di lussuria disponibile non solo “nella carne”, ma nel linguaggio e nelle immagini e dunque nella cultura, chi vive per sua scelta in tale atmosfera quale interesse potrà mai avere di entrare nel linguaggio della liturgia?
Bisogna infine entrare nella prospettiva che la liturgia è il roveto ardente con l’esigenza di togliersi i calzari, a cominciare dal linguaggio.
Il punto decisivo è però il punto di partenza, in quanto, come ammette anche chi persegue la traduzione esatta, molti testi tradizionali latini «così fortemente connotati non sono trasferibili in italiano in modo tale che la traduzione salvi ogni loro valore» (M.F.T. Lovato, Messale Romano..., p. 28). Chi parte dal tradurre esattamente e dal portare gli uomini di oggi nel linguaggio della tradizione, di fatto non tradurrà mai alla lettera e più di una volta non seguirà la sintassi originale perché improponibile e dunque produrrà come risultato un linguaggio liturgico... “attuale” e comprensibile dall’uomo di oggi ma avvicinandolo ai contenuti della tradizione, che sono una perenne giovinezza. Chi per contro parte dalla preoccupazione di un nuovo linguaggio e di un adattamento dei testi ritenuti incomprensibili all’uomo di oggi è esposto al rischio di creare non un nuovo linguaggio, ma un linguaggio ideologico legato alla cultura e alla teologia del momento.
Lasciare spazio alla intelligenza del cuore. Una traduzione «diverrebbe pericolosa se volessimo tradurre tutto, al punto da lasciare solo ciò che è immediatamente comprensibile alla ragione, ciò che risulta comprensibile solo alla banale quotidianità», dal momento che «esiste un comprendere del cuore che va oltre il comprendere delle parole» (J. Ratzinger, Il Dio vicino. San Paolo, Cinisello Balsamo 2003, pp. 72-73). Le considerazioni di Ratzinger riguardano la permanenza di alcuni testi latini, ma si possono applicare anche alla traduzione dei testi in italiano: non è il caso che tutto sia assolutamente comprensibile, assolutamente attuale: c’è una comprensibilità generale e di fondo che è data dalla celebrazione stessa e dall’entrare nel mistero di Cristo e che è un cammino in cui a poco a poco si arriva a comprendere ciò che non si era compreso all’inizio.
Ciò precisato, prepariamoci alla revisione di Liturgiam authenticam e ad un nuovo linguaggio del Messale italiano che, salvo imprevisti, si tenterà di mettere in piedi. In fondo in questo momento Dio ha affidato la sua Chiesa a questo tipo di persone, di professori e di studiosi. Chi ne è fuori stia comunque tranquillo, perché mai come in questo caso la conclusione sarà che... «Dio scrive dritto anche sulle righe storte degli uomini» (J. Bossuet)!
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