LIBERAMI DAI NEMICI MIO DIO
«Liberami dai nemici, mio Dio, proteggimi dagli aggressori». Uno stranissimo atteggiamento: pensare che il cristiano essendo pieno di benevolenza verso tutti non debba avere più nemici, ma quando mai?
di Francesco Lamendola
Liberami dai nemici, mio Dio, / proteggimi dagli aggressori. / Liberami da chi fa il male, salvami da chi sparge sangue. / Ecco, insidiano la mia vita, contro di me si avventano i potenti….
Il Salmo 58 è una supplica a Dio contro gli aggressori. La tradizione narra che fu scritto da David quando Saul mandò degli uomini a sorvegliare la sua casa per tentare di ucciderlo; ma, naturalmente, ogni cristiano lo può leggere quando si trova oppresso dalle prove, dai nemici esterni e dal nemico interno, l'antico Nemico, che agisce attraverso la tentazione al male.
Liberami dai nemici, mio Dio; proteggimi dagli aggressori… Dovrebbe essere questa una preghiera assolutamente familiare, per il cristiano; e lo era, infatti, prima del Concilio Vaticano II. Poi è successo qualcosa, si è diffusa una mentalità nuova, e l’idea stessa che il cristiano possa avere dei nemici è apparsa improvvisamente, chi sa come, strana e bizzarra, quasi blasfema, nonché vagamente minacciosa: ma non minacciosa per i cristiani, bensì per gli altri, cioè per quelli che li aggrediscono… Stranissimo atteggiamento, davvero!
Pensare che il cristiano, essendo pieno di benevolenza verso tutti, non possa e non debba avere più nemici: ma quando mai? Non ha detto forse, Gesù in persona: Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me? E non ha forse detto: Non c’è servo superiore al padrone; se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi; se hanno ascoltato me, ascolteranno anche voi? E ancora: Ecco, io vi mando come agnelli in mezzo ai lupi. Concetti chiari, chiarissimi: qualunque cristiano ne era conscio, fin da bambino, perché gli venivano insegnati al catechismo, fin dall’età della scuola elementare. Come è accaduto che, poi, si siano confusi, si siano dissolti, siano letteralmente evaporati?
Il fatto che il cristiano sia pieno di buona volontà e che non nutra odio per alcuno, non significa e non può significare che non abbia dei nemici; che questi nemici siano tanto esterni, che interni, come la storia della Chiesa ampiamente dimostra; che contro tali nemici egli non abbia bisogno di rivolgersi a Dio con la preghiera, perché lo scampi e lo sottragga dalle loro unghie e dai loro denti. I nemici esterni sono, evidentemente, coloro che odiano il Vangelo e che vogliono impedirne la diffusione, come fecero i Giudei con Gesù stesso e con i suoi primi seguaci, san Pietro, san Paolo e i martiri della Chiesa di Gerusalemme; i nemici interni saranno, come sono sempre stati, gli eretici, i propagatori di veleni, gli adulteratori del dogma e della Verità insegnata da Gesù. Ma ecco che, a partire dal Vaticano II, si è smesso di parlare dei “nemici”: è parso un qualcosa di sconveniente, di brutto, di aggressivo. La Chiesa ha cessato di essere militante, si è trasformata in un’associazione filantropica, desiderosa di stabilire buone relazioni con tutti, di chiedere scusa a tutti, se, per caso, ha dato fastidio a qualcuno. Da Paolo VI a Giovanni Paolo II, è stato tutto un susseguirsi di scuse, di riparazioni, di domande di perdono, a destra e a sinistra: la Chiesa si è sentita gravata da colpe innumerevoli, da un fardello di secolare intolleranza, dal retaggio di una mentalità esclusivista e integralista. Richiesta di perdono, quindi, ai giudei, agli islamici, agli omosessuali, agli scienziati (per via del processo a Galilei; dimostrazione d’aver appreso la lezione: accettazione indiscriminata dalla teoria di Darwin); solenni promesse di “mai più”, quasi che la storia della Chiesa sia stata una lunga sequela di orrori, d’ingiustizie, quasi che fosse stata la storia di una tremenda associazione criminale. Di torti e persecuzioni sofferte per mano di altri, neanche a parlarne: sarebbe stato indelicato, sarebbe stato indice d’una mentalità rancorosa e vendicativa. Solo i cristiani dovevano scusarsi; solo i cattolici dovevano farsi perdonare. Vien da chiedersi come una cosa tanto brutta e cattiva abbia potuto durare duemila anni.
E i nemici di Cristo e della Chiesa? Spariti; dissolti come nebbia al sole. Non c’erano più, non si sa come. Spariti i nemici esterni, spariti quelli interni. Ai primi si è sostituito l’ecumenismo e il dialogo inter-religioso; ai secondi, l’abolizione dell’Inquisizione e la sua sostituzione con un organismo assai più blando, che, in pratica, ha smesso di vigilare sull’ortodossia della dottrina. Un poco alla volta, ogni vescovo e ogni prete si è sentito autorizzato a elaborare la sua personale visione del Vangelo, e a diffonderla ai fedeli come fosse il Magistero. A imitazione dei protestanti, anche i cattolici si son messi a leggere le Scritture in tutta libertà; e, quanto alla Tradizione, hanno cominciato a considerarla una specie di fardello imbarazzante, un qualcosa di anomalo, di cui un poco ci si dovrebbe vergognare. Eh, via: che cos’è questo culto dei santi, questo culto della Madonna; che cosa sono tutte queste storie di angeli e demoni; che cosa saranno mai gli insegnamenti dei Padri e dei dottori della Chiesa, le visioni dei mistici, le vite dei santi, i messaggi dall’altro mondo? Fatima, Lourdes, La Salette: non è forse roba del passato? Apparizioni di bambini, poi, come i tre pastorelli di Fatima, come Bernadette Soubirous: ma cosa volete che ne sappiano, i bambini, di teologia? Queste credenze andavano bene una volta, quando la Chiesa aveva a che fare con le anime semplici; ma il mondo moderno si è fatto colto, si è intellettualizzato, le persone leggono, studiano, s’informano, fanno i confronti: vedono che i luterani sono più avanti, che i calvinisti sono più progrediti, perfino i testimoni di Geova conoscono le Scritture meglio dei cattolici: e ciò dimostra che ci vogliono ben altri argomenti, ai nostri giorni!
E dunque: non ci sono più nemici; non c’è più nemmeno il diavolo, e, di conseguenza, è quasi certo che non ci sia neanche l’inferno. Che bello! Finalmente ci siamo liberati da quella che il padre Ermes Ronchi suole chiamare “la pedagogia della paura”! Islamici e giudei ci amano; gli eretici non ci sono più; sono tutti buoni cattolici, sono tutti pieni di Spirito Santo (o, quanto meno, dello “spirito” del Concilio): che cosa si potrebbe desiderar di meglio? Non resta che costruire il paradiso in terra. Tanto più che ci sono questi bravi giovanotti, queste persone piene di buona volontà, i marxisti, i comunisti, che la pensano più o meno come noi; sì, è vero che si dicono atei, ma non bisogna sottilizzare, l’importante non è quel che dicono, ma quel che fanno: e non è forse vero che essi hanno molto a cuore la giustizia? Non è forse vero che, a Cuba, hanno costruito più scuole e più ambulatori medici che in qualsiasi altro Paese dell’America Latina? Sì, di solito si proclamano atei; ma non è forse vero che fanno la volontà del Padre più di tanti altri, perfino più di tanti cattolici, i quali, viceversa, sono collusi con i dittatori e con gli sfruttatori del popolo? Dovremmo imparare un po’ da loro: ecco quel che si diceva, tranquillamente, in ampi settori della Chiesa cattolica, negli anni successivi al Concilio; ed è anche quello che continuano a pensare, pur senza dirlo, i tanti, i troppi cattolici di sinistra che non hanno avuto neanche la decenza di riconoscere la cantonata, di ammettere di aver preso un abbaglio colossale. Nemmeno dopo la caduta del Muro di Berlino. No, essi non hanno sbagliato: perché, a quell’epoca, era giusto ciò che dicevano e ciò che facevano; lo Spirito soffia e va dove vuole, chi lo può fermare, chi lo può prevedere? E dunque può bene aver soffiato anche dalle parti di Fidel Castro ed Ernesto “Che” Guevara (il quale, sigaro a parte, un poco al Cristo somigliava, dopotutto).
Soprattutto, è sparito il diavolo. Ma come! Il grande Nemico, colui che si aggira – dice san Pietro – simile a un leone ruggente, in cerca di anime da divorare? Sparito, trasferito, emigrato chissà dove; o forse non è mai esistito, come sostiene il filosofo “cristiano” Arrigo Colombo; forse se lo sono inventato i preti per tener buoni i fedeli, come un babau; forse è stata una grande allucinazione collettiva. Niente diavolo, dunque, ed ecco che si respira subito meglio. Anche perché, se non c’è lui, non c’è nemmeno il Male, il Male con la “m” maiuscola; c’è solo un piccolo male, un male tutto terreno, che gli uomini, con le loro sole forze, e, al massimo, con un piccolo aiuto da parte di Dio, possono benissimo sconfiggere e mettere sotto controllo. Una meraviglia! Niente nemici; niente eretici; niente diavoli; niente peccato, o quasi: cosa si può desiderare di meglio? Viste così le cose, davvero non si capisce perché’ sant’Agostino fosse così pessimista, e perché santa Teresa d’Avila venisse a parlare dell’inferno; non si capisce perché i cattolici abbiano trovato da litigare così a lungo coi protestanti, i quali, in fondo, erano brave persone, bene intenzionate e preoccupate per certi vizi della Chiesa, che del resto erano sotto gli occhi di tutti. E bene ha fatto, a questo punto, papa Francesco a recarsi in Svezia, per commemorare con loro i cinquecento anni della “riforma” di Lutero! Scisma, eresia: per carità; che brutte espressioni! Non bisogna adoperarle; non si devono offendere i seguaci di Lutero e di Calvino. Il Concilio di Trento? Roba vecchia, pure quella; una Chiesa stretta sulla difensiva, chiusa in se stessa, autoreferenziale. Ora abbiamo una chiesa ben diversa: quella del Concilio; quella di papa Francesco, di monsignor Paglia e di Enzo Bianchi. Siamo o non siamo fortunati, a vivere in un tempo così meraviglioso? Davvero, dovremmo ringraziare lo spirito (ma forse con la minuscola) di essere stati testimoni d’una tale trasformazione, di aver assisto a un così profondo e salutare rinnovamento.
Riportiamo una parte del commento che al Salmo 58 ha fatto il biblista Spirito Rinaudo nel suo volume I Salmi. Preghiera di Cristo e della Chiesa (Torino, Elle Di Ci, 1979, pp. 333-334):
La Chiesa ha vissuto fin dall'inizio della sua storia la dolorosa esperienza descritta nel salmo: mentre, dall'esterno, i persecutori, pagani e giudei, insorgevano e si avventavano contro di lei, all’interno essa era dilaniata dagli eretici, da traditori e da cattivi cristiani. La storia delle persecuzioni e dei tradimenti si rinnova in ogni tempo e anche la Chiesa ripete la sua supplica a Dio insieme con il suo sposo innocente e perseguitato.
La Chiesa piange con quelli che piangono, fa sue le sofferenze dei popoli e cerca di farsi mediatrice di pace, ma la mediazione più importante è quella che essa esercita tra Dio e l’umanità peccatrice: il flagello della guerra è un castigo dei peccati dei popoli.
I nemici che trascinano i popoli alla rovina e contro i quali la Chiesa chiede aiuto e protezione sono le colpe morali, gli spiriti di ribellione, di egoismo, di sopraffazione; la Chiesa vuole la salvezza degli uomini e l’annientamento del male. La mediazione di pace della Chiesa consiste soprattutto nel riportare la pace con Dio nelle coscienze, nelle istituzioni, nel governo dei popoli.
Quando il Dio della pace trionfa nei cuori, egli è anche il baluardo, la roccia, la difesa, la salvaguardia della pace civile e della convivenza umana e la città terrena potrà prosperare e crescere nella città eterna.
Nelle mani della Chiesa il sangue di Cristo, sparso per la moltitudine, è sangue di purificazione ed è la più valida mediazione di pace; ma anche la preghiera che la Chiesa compie con Cristo porta davanti al trono di Dio le ansie e le sofferenze degli uomini tutti.
La vita dei singoli cristiani riproduce il dramma che investì i santi dell’Antico Testamento, il Cristo e la Chiesa nella sua storia secolare.
Ogni cristiano è un vero campo di battaglia. La lotta assume ogni giorno volti diversi. Alle tentazioni provocate dall’esterno e dal nemico che si aggira come un leone ruggente in cera di preda, si aggiungono le nostre debolezze personali. In noi c’è discordia tra i sensi e la ragione, tra la carne e lo spirito; “nelle mie membra vedo un’altra legge che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra” (Rom 7, 23).
Piccola cittadella assediata dall’esterno e dilaniata all’interno, ognuno di noi si dibatte in mezzo a pericoli continui e può gridare con s. Paolo: “Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?” (Rom 7, 24).
Ma più forte che mai rinasce la fiducia e la speranza: in Gesù Cristo nostro Signore.
Il salmo viole ridestare la nostra vigilanza affinché non abbiamo a scendere a patti col nemico e a entrare in tentazione (cf Lc 22, 40); esso ci insegna a sollecitare la misericordia divina, affinché ci aiuti a superare nella nostra carne quei nemici, su cui il nostro Signore già riportò il trionfo nella sua carne sulla croce.
Al termine della storia il Cristo dirà: “Fuori i cani, i fattucchieri, gli immorali, gli omicidi, gli idolatri e chiunque ama e pratica la menzogna!” (Apoc 22, 15).
Quanta verità in queste parole. La vita è una lotta, e ogni cristiano è un vero campo di battaglia. Ma quel che sta accadendo oggi, non è forse uno scendere a patti col nemico? E poi: Fuori i cani, i fattucchieri, gli immorali, gli omicidi, gli idolatri e chiunque ama e pratica la menzogna!” Questo linguaggio è troppo duro per teologi modernisti e cattolici progressisti? Pure, è quello della Bibbia...
«Liberami dai nemici, mio Dio, proteggimi dagli aggressori»
di
Francesco Lamendola
Perché tornino a battere cuori di cavalieri
di Andreas Hofer (dal blog di Costanza Miriano)
L’uomo contemporaneo è in crisi di virilità. Roberto Marchesini in un aureo libretto traccia una preziosa mappa per permettergli di riscoprire se stesso e la grandezza della sua vocazione attraverso il difficile – e al tempo stesso esaltante – cammino delle virtù. Solo così nel petto dell’uomo del terzo millennio tornerà a battere il cuore di un cavaliere medievale. Le prime fra tutte le virtù sono, naturalmente, quelle dette “cardinali”.
A che serve un Codice cavalleresco per l’uomo del terzo millennio come quello che ha dato alle stampe Roberto Marchesini per Sugarco? Sappiamo quale sia la reazione quasi pavloviana del mainstream. Ma perché mai avere un codice? A che ci serve? Noi facciamo quello che ci pare e piace! È il principio alla base dell’edonismo di ogni tempo: lo scopo della vita sta nella ricerca del piacere.
Ma davvero cercare il piacere vuol dire fare quello che si vuole? Qui sta precisamente l’inganno della morale del piacere. Sì, perché fare ciò che ci piace non coincide affatto col fare ciò che si vuole, ci ricorda Marchesini – che in questa sua ultima fatica riannoda le fila di un discorso iniziato sette anni fa con Quello che gli uomini non dicono. E lo prova il fatto che ci si impegni in attività faticose, che esigono sacrificio (come lo sport, lo studio, il lavoro, ecc.) senza che nessuno ci costringa a farlo. Il piacere anestetizza, solleva dalla sofferenza. Ma non può dare senso alla nostra vita. Chi pensa solo a divertirsi (dal latino divertere, cioè allontanare, deviare) in realtà è qualcuno che cerca di allontanarsi dalla sofferenza. Il divertimento sottrae per un attimo fuggente dall’angoscia di una vita senza scopo, non di più.
Eccolo, il nemico mortale della morale del piacere: l’idea che la vita abbia un télos, uno scopo intrinseco, e che la vita trovi la sua piena realizzazione soltanto col compimento di questo scopo. L’imperativo del divertimento per tutti e a tutti i costi non vale che a consegnare la vita umana a un insensato eterno presente.
In verità c’è stata nell’Antichità una scuola filosofica che considerava il piacere come lo scopo della vita: la scuola di Aristippo di Cirene. A differenza dell’amico Socrate, Aristippo non disputò mai sul fine ultimo della vita accontentandosi di affermare che la felicità stava nella ricerca del piacere. Una posizione che aveva delle precise conseguenze sul piano morale. Se solo il piacere è la misura del bene, allora la virtù e l’amicizia non sono altro che beni strumentali, utili solo per la nostra convenienza. Per la scuola cirenaica nemmeno esisteva un ordine naturale. «Nulla è giusto o bello o turpe per natura, ma solo per convenzione (nomos) e consuetudine (ethos)», si legge in uno dei frammenti dei Cirenaici.
Uno dei discepoli più coerenti di Aristippo fu un certo Egesia, il quale sosteneva l’impossibilità di raggiungere la felicità (sempre intesa come piacere) poiché quaggiù sulla terra, a causa dei dolori del corpo, i piaceri si rivelano davvero pochi. E non esistendo altri valori all’infuori del piacere e dell’utilità tanto valeva allora darsi la morte. Questo radicale pessimismo valse ad Egesia il poco lusinghiero soprannome di “persuasore di morte” (peisithanatos), visto che molti, udite le sue teorie, si davano spontaneamente la morte. Per questo gli fu vietato di insegnare la sua deleteria dottrina nelle scuole.
Inutile dire dove aleggi oggi lo spirito di Egesia. Non è difficile intravedere la sua ombra dietro all’opera di quei manutengoli senza scrupoli che accompagnano, da novelli persuasori di morte, i fragili e i deboli verso i servizi eutanasici forniti a caro prezzo da alcune cliniche svizzere. L’imperativo del piacere promette una falsa liberazione. Non porta ad altro che alla schiavitù dalle passioni, non senza prima averci illusi di aver optato liberamente per la morte. Ma c’è libertà nella scelta del nulla? Non è invece un desiderio di onnipotenza che, come quello che ghermisce Kirillov nei Demoni portandolo al suicidio, è solo il tipico prodotto di una fantasia infantile? Dunque di una volontà immatura, non pienamente realizzata?
Le passioni, insiste Marchesini, schiavizzano se non sono dominate e orientate dalla retta ragione. Come sfuggire allora ai moderni discepoli di Egesia? Innanzitutto ricordandosi che la vita è fatta per essere spesa per qualcosa di superiore alla vita stessa. La vera felicità sta nel donare se stessi. E a questa paradossale felicità si arriva coltivando virtù come il coraggio, la prudenza, la temperanza, la giustizia.
Solo così l’uomo arriva a realizzare se stesso trasformandosi, come dicevano i latini, da homo (l’essere biologicamente di sesso maschile) in vir, l’uomo pienamente tale. È la virtus a rendere virile un uomo, non la semplice biologia (il fatto di essere nato maschio). Il maschio ha il dovere di diventare un uomo, attuando così il potenziale donatogli al momento del concepimento.
Come può il maschio diventare ciò che è in potenza, cioè un uomo? La virtù è come un abito (habitus). Per manifestarsi deve perciò essere indossata. Come diceva Aristotele si diventa coraggiosi se ci si comporta da coraggiosi.
Uno dei pregi indiscutibili di Marchesini è la capacità di mostrare con chiarezza, senza nulla concedere all’ampollosità, il legame organico tra quelle che canonicamente vengono definite “virtù cardinali”. E tali sono per la loro natura di perno, dunque di base che permette di articolarsi.
La prima tra le virtù cardinali è il coraggio (o fortezza), che non ha alcun grado di parentela con la temerarietà. Essere coraggiosi non consiste nel ricercare un annientamento fine a se stesso. Il coraggio non ha nulla a che vedere con la mistica della “bella morte”. È piuttosto la disposizione ad accettare il rischio di essere feriti, anche mortalmente, nella lotta contro il male. La fortezza pertanto presuppone un discernimento lucido tra il male e il bene. E questo giudizio richiede la virtù della prudenza, che a sua volta non si identifica con quella mediocrità anodina che rifugge ogni presa di posizione. Il vero prudente è il saggio che dopo aver individuato il bene lo abbraccia con risolutezza.
Un’altra virtù indispensabile è la temperanza. Le emozioni non vanno soppresse ma guidate. L’emozione (dal latino emovere, smuovere, spingere all’azione) serve a dare forza al nostro agire, serve a dare un corpo vibrante alle idee. Ma guai quando è l’emozione, cioè la passione, a guidare l’azione dell’uomo! Una emozione come il timore paralizza se prende il sopravvento. Solo se la guida resta salda in mano alla ragione il timore assolve la sua funzione ordinaria: quella di essere un segnale che ci indica il pericolo, che ci dice di stare attenti. Per questo oltre al coraggio e alla prudenza è necessaria una terza virtù: la temperanza, che ci permette di dominare le passioni orientandole verso il bene.
Infine c’è una quarta virtù cardinale: la giustizia, la capacità di dare a ciascuno quanto gli spetta. Essere giusti è qualcosa di più che osservare la semplice “legalità” (dato che, come ci insegna l’esperienza, vi possono essere leggi ingiuste che fungono da alibi a una irresponsabilità generalizzata). E l’uomo giusto nemmeno è il cultore del “doverismo” (il dovere per il dovere di kantiana memoria). Giusto è chi riconosce una legge superiore a sé e sente impegnata la propria personale responsabilità anche quando fare ciò che è giusto potrebbe nuocergli. Non c’è amore per la giustizia senza il coraggio.
Altre qualità legate alle virtù cardinali sono la sincerità (il coraggio di dire la verità in un mondo invaso dalla menzogna), l’onore (il possesso della virtù spinto al punto di saper rinunciare anche alla propria reputazione), la lealtà (la fedeltà alla parola data, qualcosa di molto superiore al semplice rispetto della legalità), la franchezza (antidoto al cinismo), la cortesia (la volontà di dare sempre il meglio di sé, soprattutto nelle relazioni coi più deboli).
C’è mai stato qualcuno capace di incarnare in maniera esemplare questi valori? Ebbene, c’è stato: il cavaliere. Nella cavalleria medievale gli uomini imparavano a essere generosi, coraggiosi, giusti, leali, cortesi. Morire, per il cavaliere medievale, era il coronamento di una vita donata al servizio della virtù.
C’è mai stato qualcuno capace di incarnare in maniera esemplare questi valori? Ebbene, c’è stato: il cavaliere. Nella cavalleria medievale gli uomini imparavano a essere generosi, coraggiosi, giusti, leali, cortesi. Morire, per il cavaliere medievale, era il coronamento di una vita donata al servizio della virtù.
L’uomo del terzo millennio è rimasto sprovvisto di codici cavallereschi perché è rimasto senza telos, senza uno scopo da dare alla propria esistenza. Ecco perché oggi è smarrito, debole, incerto. Sono numerose le immagini evocate dagli osservatori più acuti per descrivere la condizione dell’uomo contemporaneo: barbaro civilizzato, homo comfort, selvaggio con telefonino, signorino soddisfatto, bimbo viziato, uomo senza qualità, ecc.
In definitiva l’essere rimasto puramente “maschio” appare sinistramente simile ai Proci, questi eterni adolescenti nemici giurati della figura virile di Ulisse, o alle Bandar-log, le orde scimmiesche che nel “Libro della giungla” di Kipling simboleggiano una psicologia immatura, incapace di rispettare la legge e pertanto letteralmente fuori controllo. Oggi vediamo personificate queste lugubri figure negli sciami anonimi di web-squadristi, pronti a scattare per azzannare e linciare senza pietà chiunque capiti loro a tiro. Senza lo spirito cavalleresco non resta che una massa di individui schiavizzati dal proliferare incontrollato delle passioni.
E allora ben venga l’esortazione di Marchesini: se vogliamo cominciare ad essere responsabili, cioè uomini capaci di amare la vita, dobbiamo rottamare i falsi miti – come quello del seduttore “bello e dannato” – per tornare ad attingere a veri miti come quello del cavaliere “senza macchia e senza paura”. Come ha detto mirabilmente Gustave Thibon, non bisogna dare credito “ai distruttori delle regole che parlano in nome dell’amore”. Perché “là dove la regola è frantumata, l’amore abortisce”.
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