ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

giovedì 30 marzo 2017

La bestia e le bestie

QUELLA BESTIA DEL DIAVOLO

    Caro cattolico modernista e progressista, cos’hai da dire? L’esperienza di un prete cattolico che è vissuto per anni nell’Africa Nera, dove gli stregoni e la magia diabolica sono di casa. Don Beppino Cò e "L’armata di Satana" 
di Francesco Lamendola  




Ci piacerebbe far leggere questo episodio a uno di quei cattolici progressisti e modernisti, i quali non parlano mai del diavolo e dell’inferno, semplicemente perché non ci credono, e che non vogliono neanche sentir nominare possessioni ed esorcismi: l’esperienza di un prete cattolico che è vissuto per anni nell’Africa Nera, dove gli stregoni e la magia diabolica sono di casa, e che, nel corso della sua esperienza di missionario, ha avuto occasione di assistere, o di essere coinvolto, in fatti strani e impressionanti; e poi domandargli quale spiegazione ”razionale” egli abbia da dare (ammesso e non concesso che la sola forma di razionalità sia quella che esclude il preternaturale, e magari, già che ci siamo, anche il soprannaturale).
L’episodio che qui sotto riportiamo è tratto dal libro di don Beppino Cò, L’armata di Satana (Villa di Serio, Bergamo, Edizioni Villadiseriane, 2010, pp. 224-225):

Un giorno, quando ero missionario in Senegal, tornavo da Dakar, la capitale del paese, alla mia missione, distante circa 150 km.
Eravamo nel periodo della stagione secca, quindi ai bordo della strada non c’era erba e neppure cespugli come succede alla fine della stagione delle piogge.
Stavo ascoltando una cassetta che parlava dei disastri causati dall’occultismo e mentalmente preparavo una catechesi sul Maligno che mi serviva per una sessione di formazione che stavo organizzando.
All’entrata di un centro abitato ho rallentato come ero solito fare e d’un tratto mi sono visto davanti un asino, senza sapere come e da dove era sbucato così all’improvviso; fatto insolito, perché, essendo la strada asfaltata alquanto alta in quel punto, pur correndo, l’asino avrebbe impiegato del tempo per salire e io l’avrei certamente visto.
Non riuscendo a connettere mi sono messo a gridare: “Che cosa fai; che fai?”.
L’asino è salito sul cofano della macchina, ha sfondato il cristallo, è salito sulla cappotta, poi è scivolato dietro; nello specchietto retrovisore l’ho visto scendere in piedi sulle sue gambe e trottare fuori della strada verso i campi come se nulla fosse.
Pieno di vergogna, pensando che qualcuno mi avesse visto, però mi sono accorto che non c’era nessuno perché eravamo in pieno mezzogiorno e faceva molto caldo, mi sono fermato un paio di chilometri dopo il villaggio e sono sceso dalla macchina per constatare i disastri causati da quell’asino. Il cristallo era scoppiato ma i pezzi di vetro erano rimasti al loro posto,  il cofano della macchina era pieno di ammaccature e di peli dell’asino e così anche la cappotta. Io ero intatto. Ho riflettuto ed ho capito che se il cristallo non avesse tenuto, il giorno dopo il quotidiano del paese “Le Soleil” avrebbe scritto: “Missionario italiano, ritornando alla missione, muore abbracciato ad un asino!”. Una morte veramente ingloriosa per un missionario!
Mi sono chiesto se forse il Mister non avesse voluto mandarmi un segno della sua presenza mentre guidando la macchina pensavo a lui e preparavo una catechesi contro di lui!

Caro cattolico modernista e progressista, cos’hai da dire? Forse ti sei scandalizzato perché l’Autore di questo brano di prosa non rivela una particolare forbitezza, e scrive “gambe” invece di “zampe” (dell’asino) e, di se stesso, “intatto” invece che “illeso”? Può darsi che, per te, una persona non troppo colta sia anche incline alla credulità e quindi poco attendibile: ma sbagli. Un uomo intelligente e di fede, che ha fatto il missionario in Africa, ha imparato più cose di quante ne puoi imparare tu sui libri teologici della “svolta antropologica” e nelle facoltà universitarie dove si parla solo di Teilhard de Chardin, Karl Rahner e Hans Küng; o forse nemmeno di questi, comunque pur sempre troppo “cattolici” per i tuoi gusti, ma di Lutero, Rudolf Bultmann e Paul Tillich.
Esaminando l’episodio riferito da don Beppino Cò, vi sono alcuni aspetti che appaiono caratterizzanti e che ci aiutano a capire meglio la natura di quei fatti, e ad interpretarli in maniera non estemporanea, né episodica, ma il più possibile precisa e circostanziata.
Il primo aspetto che balza all’occhio è la sincronicità. Il missionario stava preparando una catechesi per mettere in guardia le anime contro l’azione del Maligno; stava, in quel momento, ascoltando una cassetta che parlava di tale argomento; e si proponeva di tenere dei corsi di formazione per i suoi parrocchiani, in un ambiente saturo di feticismo e animismo, e dove il potere degli stregoni, praticanti accaniti e, a loro modo, assai esperti, della magia nera, è enorme. Ebbene, in quel preciso momento si è verificato il fatto. Certo, si può pensare a una pura e semplice coincidenza: non vi sono prove che tra le due cose esista una relazione più profonda di quel che sembra a prima vista. Eppure, lo stesso missionario riferisce di numerose sincronicità dello stesso genere: l’automobile il cui motore si spegne all’improvviso; la fotocopiatrice che smette di funzionare; perfino una massiccia fuga di monossido di carbonio, proprio mentre stava scrivendo il suo libro: e tutti questi episodi si erano verificati in situazioni altamente sospette. Per esempio, l’automobile correva tranquillamente fino a un attimo prima; la fotocopiatrice non aveva perso un colpo; la caldaia dell’abitazione era quasi nuova e, per giunta, era stata da poco controllata e revisionata. Per nessuno di questi piccoli incidenti (non tanto piccolo, quello della fuga di gas: l’uomo avrebbe potuto morire senza neppure accorgersene) esisteva una spiegazione convincente, neanche da parte degli esperti (il tecnico delle caldaie, per esempio). L’automobile era ripartita, e così la fotocopiatrice, dopo una benedizione con l’acqua santa; tutti questi fatti, inoltre, si erano verificati mentre il sacerdote stava pensando alla sua battaglia contro il diavolo, o vi era concretamente impegnato. Tutte coincidenze, dunque? Forse; però molto improbabile. Andiamo avanti.
Il secondo aspetto caratterizzante è la subitaneità. Da dove è sbucato quell’asino? La stagione era secca, la vegetazione bruciata, la strada tagliava la campagna allo scoperto. È come se l’animale fosse saltato fuori dal nulla: l’automobilista avrebbe pur dovuto vederlo arrivare, da qualche parte. Solo chi ha guidato l’automobile, o un grosso furgone, per ore e ore, lungo le strade o le piste della savana, o della steppa, come a noi è accaduto di fare, sa che un simile incontro improvviso è praticamente impossibile: l’orizzonte è talmente sgombro che le immagini, nel grande calore, tremano per la presenza dell’aria surriscaldata che si innalza, e creano perfino il miraggio dell’acqua. Ma questo è l’unico scherzo che la grande pianura può giocare alla vista: null’altro. Resta l’ipotesi, naturalmente, che il missionario si fosse distratto; che la sua mente, lungo quel percorso monotono, che aveva già fatto chissà quante volte, si fosse presa una pausa e avesse inserito, per così dire, il pilota automatico. Capita a tutti gli automobilisti, qualche volta; magari si tratta di pochissimi istanti: ma in quegli istanti può accadere l’imprevedibile. Ammettiamolo. Resta il fatto che la strada, in quel tratto, era sopraelevata: pertanto chi avesse voluto raggiungerla, avrebbe dovuto inerpicarsi su per la massicciata, cosa che avrebbe reso ancor più difficile il farlo senza attirare l’attenzione del guidatore. Inoltre, il sacerdote non poteva essere in uno stato di sonnolenza, perché era concentrato nell’ascoltare la cassetta registrata; questo sì. Comunque, il fatto è accaduto all’ingresso di un centro abitato: resta quindi la possibilità, sia pure teorica, che una casa, un muro a secco, uno steccato, avessero occultato l’animale proprio nel momento in cui saliva la massicciata e si portava sulla strada. In tal caso, però, avrebbe dovuto attraversare la carreggiata, presentando il fianco all’automobile che sopraggiungeva: invece l’uomo se lo vide venire incontro, frontalmente. Una cosa piuttosto strana, non è vero?
Il terzo aspetto che contraddistingue l’episodio è la sua assoluta, quasi assurda improbabilità. Una improbabilità talmente accentuata da sfiorare il grottesco. E infatti, subito dopo lo spavento, il sentimento che afferrò il missionario fu la vergogna. Ebbe paura che qualcuno fosse stato testimone della scena e che avesse avuto motivo di deriderlo: è un sentimento del tutto irrazionale, ma psicologicamente ben comprensibile, che a tutti sarà capitato di provare almeno una volta nella vita; se non da svegli, nel sonno. Si sogna di trovarsi al centro di una situazione molto imbarazzate, per descrivere la quale non ci sono quasi le parole adatte, e ci si vergogna profondamente, si vorrebbe sprofondare sotto terra, anche se non si è colpevoli di nulla e non si ha niente da rimproverarsi, nemmeno sul piano della prudenza. Questa notazione, così vera dal punto di vista umano, aggiunge ulteriore credibilità al racconto del sacerdote. Un asino che sale sul cofano della macchina, che si arrampica sul tetto e che poi scendere dall’altra pare, restando con le zampe ritte, come se il trottare lungo una inclinazione quasi verticale e su di una superficie liscia e metallica non costituisse, per lui, il benché minimo problema: si tratta di una sequenza talmente bizzarra, talmente contraria all’esperienza e anche al semplice buon senso, perfino alla logica, che pare addirittura inventata di sana pianta. Ma perché mai inventare un fatto in cui non c’è nulla di cui vantarsi, e c’è invece tutto da perdere, a cominciare dall’alta probabilità di non essere creduti, e di fare, quindi, una figura doppiamente stupida? Questa è una di quelle situazioni nella quale la vittima preferisce tacere e andare a leccarsi le ferite in silenzio, lontano dagli sguardi altrui, per evitare l’oltraggio del ridicolo. Era ubriaco? O era forse impazzito? Oppure il sole e il calore gli avevano fatto girare la testa e gli avevano provocato un’allucinazione? Agli occhi degli indigeni, che ammirano la forza e la sicurezza, egli sarebbe uscito da quel fatto, qualora si fosse risaputo, fortemente sminuito. Nessun uomo sano di mente può raccontare un’avventura di quel genere senza esporsi, automaticamente, all’ironia e all’incredulità altrui. E allora, perché parlarne? Meglio stare zitti e sperare che nessuno abbia visto. Ma don Beppino non fa così: lo racconta, lo scrive nel suo libro. A che scopo, se non per testimoniare la verità di quel che gli è successo?
C’è ancora un quarto aspetto che colpisce e che risulta caratteristico, anche se, o proprio perché, appare in contrasto col precedente, l’improbabilità: si tratta del suo realismo. Anche se la breve, drammatica avventura (che poteva terminare con la morte) sembra appartenere alla natura sei sogni, o piuttosto degli incubi, magari delle fantasticherie ad occhi aperti, insomma anche se ha un carattere decisamente onirico, essa è stata, al tempo stesso, una esperienza dai tratti marcatamente realistici. La sequenza della “scalata” dell’automobile da parte dell’animale, la sua discesa sul cofano, senza scivolare e senza cadere a terra, ma restando perfettamente in equilibrio sulle zampe, hanno un carattere di realismo allucinato, di iperrealismo, come una scena girata al rallentatore: la scena di un film o di un romanzo del terrore. Quelle che erano rimaste impresse sul cofano e sul tetto, comunque, erano delle vere e profonde ammaccature, lasciate dagli zoccoli della bestia; e, come se non bastasse, c’erano abbondanti ciuffi di pelo. Come mai? È normale che un asino, nel sormontare un ostacolo, lasci cadere interi ciuffi del suo mantello, senza aver urtato contro un ostacolo, senza aver sfiorato dei rami o delle frasche? Certamente no. E allora, non resta che un’altra possibilità, per quanto pazzesca: l’animale, o colui che lo “possedeva”, voleva lasciare un segno inequivocabile del suo passaggio. Le impronte degli zoccoli erano già una traccia eloquente; ma i ciuffi di pelo erano l’elemento decisivo, che toglie ogni possibile dubbio. Né allucinazione, né sogno, né miraggio, dunque: ma un asino vivo e vegeto, in carne e ossa, con tutto il suo peso (il parabrezza sfondato) e la sua fisicità.
A questo punto si potrebbe obiettare che, se l’intento del diavolo era quello di “fermare” l’azione del missionario, uccidendolo, o provocando un grave incidente, ad esempio facendolo sbandare e uscire di strada, esso è fallito, il che farebbe pensare a un normalissimo asino, momentaneamente rimasto incustodito e libero di pascolare, più che a uno spirito maligno. Ma può darsi che la premessa sia sbagliata: che il diavolo, se era lui l’autore di quel singolarissimo episodio, non volesse uccidere il prete, ma semplicemente spaventarlo. Che volesse spaventarlo a morte, e indurlo a lasciar perdere le sue iniziative per contrastare il suo potere nei villaggi dell’interno del Senegal. Una delle strategie del Maligno è proprio questa: spargere qua e là indizi della sua presenza e della sua azione nefasta, ma non del tutto evidenti, non così chiari ed espliciti da equivalere a una firma vera e propria. Finché sussistono dei margini di dubbio, gli uomini sono doppiamente esposti agli effetti della sua azione, perché alla paura si mescola l’incertezza: e l’incertezza può essere, alla lunga, più snervante e sconfortante della paura stessa. In quel caso, pertanto, il diavolo ha voluto suggerire che l’irruzione dell’asino era opera sua, e che si era trattato di un avvertimento, più che di una minaccia immediata. Come se avesse voluto far vedere cosa sa fare, ma, per il momento, non avesse voluto spingere troppo oltre il suo gioco. Un avvertimento nel suo stile, condito di umorismo grottesco. Pensa che titoli, se avessi voluto ucciderti: «Missionario muore abbracciato a un asino».

Quella bestia del diavolo, venuta dall’inferno

di

Francesco Lamendola

1 commento:

  1. Sul video:

    Quant'è bella la gayezza
    che sì fugge tuttavia,
    chi vuol esser lieto sia,
    del diman non v'è certezza.

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