LʼAnticristo alla luce delle Scritture e dei segni dei tempi
La figura dell’Anticristo è presente, da quasi duemila anni,nella tradizione cristiana, come immagine potente del male travestito da bene, e quindi ancora più pericoloso perché ingannatore. Negli anni che hanno preceduto e seguito la spaccatura della società cristiana le accuse incrociate di essere l’Anticristo divennero un’abitudine: se i protestanti — e prima di loro gli spirituali e tutti i movimenti ereticali — lo vedevano incarnato nel Papa e nella gerarchia ecclesiastica, per i cattolici l’epiteto calzava perfettamente per Lutero. Per gli eretici, il tema dell’Anticristo si poneva in stretto collegamento con quello del millenarismo, cioè di una concezione del tempo che vede nell’età presente il momento finale della lotta fra il bene e il male, con la scontata vittoria del bene, se pure dopo molto dolore.
LʼAnticristo.
Era da tempo che non se ne parlava più come di una persona. Alì Agca ne ha evocato la presenza, ha detto che lʼAnticristo è vivo, che la gerarchia romana lo conosce: se ne parli, lo si additi, «cosicché lʼumanità possa ravvedersi ed affrontare meglio questo periodo della fine del mondo». Le parole del vecchio lupo turco, grigio di nome ed ormai anche di fatto, sono di quelle che nel bene o nel male lasciano il segno. È stata la morte di Suor Lucia di Fatima ad armare la penna di Alì, che in perfetto italiano, in una “lettera aperta al Vaticano”, ha esordito, bruciante: «Io esprimo il mio cordoglio per la morte della suora Lucia di Fatima. Il segreto di Fatima è collegato anche alla fine del mondo». La notizia, pubblicata in Italia il 20 febbraio, è rimbalzata immediatamente in tuttʼEuropa, provocando inevitabili malumori. La gerarchia ecclesiale non ha gradito: lʼAnticristo non esiste, è solo frutto di fantasia - si è affrettato a spiegare un altissimo prelato - tuttʼal più è una metafora del male, dellʼAntiuomo. Agca è solo un ignorante, un mitomane, ha aggiunto un altro porporato. Sulle ardite connessioni fra Fatima e lʼAnticristo, però, hanno sorvolato frettolosamente: su Fatima, la gerarchia evita sempre i confronti, prudente. Meglio spostare i riflettori su Agca, che in fondo è solo un uomo ossessionato da unʼazione più grande di lui; unʼazione che gli resterà a vita impressa nellʼanima: da quando in quel lontano 13 maggio del 1981 sparò su Giovanni Paolo II, la sua mente, scossa, è confusamente tormentata da fantasmi che non riesce a dominare. Fantasmi. Il segreto di Fatima, i segreti che Agca stesso non ha mai rivelato sulle ragioni dellʼattentato, lʼossessione di un uomo che si sente solo contro tutti, chiamato ad annunciare una verità che il mondo ignora: «Io, Alì Agca, non ho paura di essere maledetto dallʼumanità. Peraltro gli Ebrei definiscono Gesù di Nazaret come lʼAnticristo da duemila anni». Eppure parlare dellʼattentatore turco solo come di un mitomane rischia di essere riduttivo: Rosario Priore, il giudice che lo ha interrogato innumerevoli volte, lo descrive come «una delle persone più intelligenti che abbia mai conosciuto». Dopo aver letto i proclami di Agca sullʼAnticristo, quel magistrato ha parlato di una manifestazione di «follia molto lucida» (la Repubblica, 20/2/05).
IL TERZO SEGRETO DI FATIMA
E così, se non convince Agca, ancor meno convince la gerarchia ecclesiale. Cʼè qualcosa di nascosto nelle parole curiali, in latebris avrebbero detto i latini: nellʼoscurità. La vicenda risale a cinque anni fa, quando il Vaticano rivelò alle genti il terzo segreto di Fatima: il 26 giugno del 2000. Allora persino la stampa più laica, la meno interessata a questioni di altari e di santi, reagì con un moto di stizza allʼannuncio: troppe le incongruenze, le patetiche contraddizioni fra il testo del segreto rivelato e le pur smozzicate, ma comunque limpide dichiarazioni che nei decenni scorsi erano ufficialmente trapelate tramite Suor Lucia e dal medesimo Vaticano. Fra lʼaltro, perché attendere il 2000 per divulgare ufficialmente la profezia di un attentato verificatosi 19 anni prima? Perché attendere il 2000 per parlare di persecuzioni anticristiane a tutti note da decenni e decenni? Che significato avrebbe poi lo strano documento divulgato dal Vaticano nel 2000, se si pensa che Suor Lucia - ricorda Frère Michel de la Sainte Trinité, uno dei massimi esperti di Fatima - aveva tanto insistito che si svelasse il segreto al tempo della propria morte o al più tardi nel 1960 «in dipendenza dellʼevento che si sarebbe verificato prima»? Nel ʻ60, disse infatti Suor Lucia, «sarebbe stato più chiaro»… Con gli occhi più acuti del poi, tutti possono constatare che se si fosse rivelato il - o meglio, questo - terzo segreto di Fatima nel 1960, non si sarebbe chiarito nulla. Si è dunque illusa Suor Lucia, o piuttosto il segreto da svelare era un altro? Così, se le pecore di evangelica memoria hanno accettato la versione ufficiale, in molti si sono rifiutati di credere. In fondo, considerato che l’impeccabilità non rientra fra i munera apostolici, non è temerario pensare che anche fra i principi della Chiesa alligni la piaga della menzogna. Uno degli analisti più seri del messaggio di Fatima, il Cardinal Oddi, esprimendo un pensiero molto diffuso fra i fatimologi, dopo aver parlato con alcune fra le (pochissime) persone che avevano letto il testo del documento e con Suor Lucia stessa, si dichiarò dell’idea che il terzo segreto di Fatima parli della «grande minaccia dell’apostasia nella Chiesa» (Il Sabato, 17/3/1990). E di conseguenza di una punizione divina. Cupi presagi di castighi divini sembrano in effetti aleggiare un po’ ovunque su Fatima; forse proprio per questo «Roncalli - ricorda Oddi – (che) non voleva sentire parlare di disgrazie, di punizioni», non pubblicò il segreto (30 giorni, aprile 1991).
ANNO DOMINI 1960: I PRODROMI DEL 1789 DELLA CHIESA
In quel 1960, fatidico a detta di Suor Lucia, le cronache della Chiesa registrano in effetti un avvenimento di importanza epocale: vengono istituite le commissioni preparatorie del Concilio ecumenico Vaticano II, il più imponente, il più partecipato, il più innovativo concilio della storia del cattolicesimo. La volontà di indire la storica adunanza, lʼaveva espressa il 25 gennaio 1959 Giovanni XXIII, pochi mesi dopo aver assunto il pontificato, nel monastero di San Paolo fuori le mura. Il Concilio si aprì lʼ11 ottobre 1962… e fu subito il 1789 della Chiesa, come ricordava il Cardinal Suenens, esponente delle avanguardie teologiche moderniste, cogliendo appieno il significato della rivoluzione finalmente penetrata attraverso le inespugnabili mura di Roma. La grande novità emersa da quella storica assemblea, fu in effetti quella della rivoluzione umanista, riassunta nella felice sintesi di chiusura del Concilio fatta dal successore di Giovanni XIII, Paolo VI. Una sintesi tanto conosciuta negli ambienti della “contestazione” ecclesiale, quanto ignota ai più: «La Chiesa del Concilio, è vero, si è assai occupata, oltreché di se stessa e del rapporto che a Dio la unisce, dellʼuomo quale oggi in realtà si presenta: lʼuomo vivo, lʼuomo tutto interamente occupato di sé, lʼuomo che non solo si fa il centro di ogni interesse, ma anche che non teme di affermare di essere il principio e la ragione di ogni realtà. (…) Lʼumanesimo laico e profano è infine apparso nella sua terribile statura e ha, in un certo senso, sfidato il Concilio. La religione di Dio che si è fatto uomo si è incontrata con la religione (perché tale è) di un uomo che si fa Dio. Cosa è successo? Un urto, una lotta, un anatema? Questo poteva succedere, ma non è avvenuto». Anzi, il Concilio è stato «tutto pervaso» da una «simpatia immensa» per la religione dellʼuomo che si fa Dio, sostenne Montini, e concluse: «sappiate riconoscere il nostro nuovo umanesimo, anche noi, noi più di chiunque altro abbiamo il culto dellʼuomo». Non erano parole del tutto nuove quelle di Paolo VI: Giuseppe Mazzini in persona, già nel 1854, aveva gioito immaginando una rivoluzione pacifica da cui sarebbe scaturita la nuova Roma, umanista, antropocentrica della «trasformazione religiosa che il mondo si aspetta e avrà», la Roma della «sintesi unificatrice […] proclamatrice in nome del mondo e per mezzo di un concilio degli intelletti virtuosi dʼEuropa e dʼAmerica, dellʼera della nuova fede». La nuova «Chiesa Santa di Dio», profetizzava lʼillustre congiurato, avrebbe camminato «[…] verso lʼumanità guidata liberamente dal genio e dalla verità, nellʼimmortalità della vita, nella santità della terra…» (La massoneria speculativa, Sac. Vincenzo Longo, ed. Fassicomo e Scotti, Genova 1896, vol. I, pagg. 63/64). In unʼottica diametralmente opposta, la gerarchia romana più conservatrice aveva dato una lettura pessimistica dellʼevento conciliare: lʼeccessivo umanesimo del Concilio puzzava di eresia agli occhi di molti padri conciliari tradizionalisti. Concilium haeresim sapiens: un concilio che sa di eresia, mormoravano scandalizzati i presuli più ortodossi… Fra i prelati dellʼavanguardia tradizionalista che osteggiava il nuovo corso, in quegli anni, spiccava in particolare il Cardinal Ottaviani. Ottaviani era un vecchio carabiniere della Chiesa, come lui stesso amava definirsi: di famiglia umile, uomo di popolo, era salito sino ai vertici della Curia romana e negli anni del Concilio Vaticano II rimaneva il più autorevole e coriaceo esponente dellʼala “pacelliana”. Sotto Giovanni XXIII e Paolo VI, salvo eccezioni, il peso dei prelati fedeli a Pacelli era sfumato in dissolvenza: Ottaviani, Prefetto del SantʼUffizio, residuava come uno degli ultimi sopravvissuti eccellenti. Un vecchio ormai cieco, un innocuo ricordo del passato. O almeno, così qualcuno poteva pensare. A dispetto delle sue infermità, invece, il vecchio leone semi-cieco si era battuto on energia insospettabile nella mischia del Concilio, opponendosi alle novità teologiche provenienti dal nord Europa. Aveva appoggiato convintamente il Coetus Internationalis Patrum, il cui più noto esponente, il Vescovo Marcel Lefebvre, avrebbe condotto sino alla morte la sua battaglia per quella che lui definiva “la Chiesa di sempre”, in contrapposizione alla Chiesa del Concilio. Anche Mons. Lefebvre dʼaltronde era unʼesponente della Chiesa di Pio XII: era stato Pacelli a nominarlo Delegato apostolico per lʼAfrica francofona. Pacelli lo aveva amato, lo aveva promosso, aveva persino tradotto il suo pensiero in unʼenciclica: la Fidei donum. È quasi imbarazzante togliere la polvere del tempo dalle tracce che lʼesecrato presule francese ha impresso in aeternum negli atti di magistero della Chiesa, ma una volta ripulita la memoria storica dai segni degli anni, dalla Fidei donum traspaiono senza dubbi gli ideali e la profonda esperienza missionaria del futuro Vescovo “ribelle”. Lefebvre e Ottaviani avrebbero intrattenuto ancora rapporti sino al 1979, anno della morte dellʼex Prefetto del SantʼUffizio: ormai messo allʼangolo dalla Chiesa del Concilio, lʼanziano combattente era sopravvissuto a Roma come icona di un tempo passato. Una delle sue ultime sortite risaliva a dieci anni prima, al 1969, quando si era esposto, assieme al Cardinal Bacci, in una vibrata denuncia contro la nuova messa di Paolo VI, accompagnando con una nota introduttiva un Breve esame critico del Novus Ordo Missae, indirizzato allo stesso Paolo VI. La nuova messa, asseriva Ottaviani, deforma il senso stesso del Sacrificio del Golgota: «considerati gli elementi nuovi, suscettibili di pur diversa valutazione, che vi appaiono sottesi ed implicati, rappresenta, sia nel suo insieme come nei particolari, un impressionante allontanamento dalla teologia cattolica della Santa Messa […]». «Il vero cattolico - proseguiva il documento critico - è dunque posto, dalla promulgazione del Novus Ordo, in una tragica necessità di opzione». Lefebvre aveva gioito per quella denuncia. Eppure le accuse di quei prelati non rappresentavano una novità: nel 1966, in anticipo di tre anni sul breve esame critico e sulla stessa riforma del ʻ69, uno dei più lucidi scrittori del XX secolo, Giovannino Guareschi, aveva pubblicato unʼimmaginaria lettera alla propria creatura più famosa - Don Camillo - attaccando impietosamente le innovazioni e gli esperimenti liturgici in atto e sconfessando lo stesso Paolo VI in un pezzo giornalistico di rara durezza: Il Papa si chiama Giuseppe. Se si pensa alla bonomia con cui Guareschi era solito trattare i propri avversari, la sua brutale presa di posizione contro Montini non può lasciare indifferenti: «Lei (Don Camillo) […] ha il sacro terrore di una divisione fra i cattolici. Ma, purtroppo, questa divisione esiste già. […] Don Camillo, non importa se Lei urlerà inorridito ma io debbo dirLe che non solo per me, ma per molti altri cattolici “sovversivi” il Papa al quale guardiamo come al luminoso faro della cristianità non si chiama Paolo ma Giuseppe. Josef Mindszenty, il Papa dei cattolici che provano disgusto davanti alle macchinette distributrici di Ostie, alla “Tavola calda” che ha distrutto gli altari e cacciato via il Cristo, alle messe yè yè e ai patteggiamenti con gli scomunicati senza-Dio». Ma se Guareschi parlava da laico, Ottaviani, conosceva più intimamente il problema: fra lʼaltro aveva vissuto il Concilio sostenendo in prima persona gli attacchi spregiudicati dei “progressisti”… era uno dei pochissimi ad aver letto il testo del messaggio di Fatima. Come non pensare che il suo timore quasi ossessivo che la Chiesa stesse per perdersi fosse connesso anche alle apparizioni del 1917? Portae inferi non praevalebunt, le porte degli inferi non prevarranno: quante volte il porporato avrà ripetuto queste parole! Ma se le Scritture promettono lʼindefettibilità della Chiesa, quelle stesse Scritture predicono anche la Grande Apostasia. I Padri della Chiesa, i commentatori, i Papi, le profezie lʼavevano temuto: lʼavvento di un simulacro di Chiesa, una notte buia simile alla passione di Cristo, un momento di apparente sconfitta, di morte… In effetti il timore di una sconvolgente crisi ecclesiale serpeggiava da tempo fra i padri conciliari più conservatori: lʼidea che il messaggio di Fatima riguardasse in primo luogo la crisi della Chiesa, era vecchia, al punto che persino Pio XII, quando era ancora Cardinale, aveva dato questa lettura dellʼapparizione di Cova dʼIria. Egli temeva che il comunismo fosse solo la punta emergente, e neppure la più inquietante, di una lotta profonda, non immediatamente decifrabile. È famosa lʼinterpretazione - riportata da Mons. Roche e P. Germain in Pie XII devant lʼhistoire - che il Card. Pacelli aveva dato di Fatima: «Supponete, caro amico - spiegava lʼillustre Cardinale nel corso di un colloquio con il conte Enrico Pietro Galeazzi - che il Comunismo non sia che il più visibile degli organi di sovversione contro la Chiesa e contro la tradizione della rivelazione divina: assisteremo allora allʼinvasione di tutto ciò che è spirituale, la filosofia, la scienza, il diritto, lʼinsegnamento, le arti, la stampa, la letteratura, il teatro e la religione. Sono assillato dalle confidenze della Vergine alla piccola Lucia a Fatima. Questa ostinazione della Buona Signora davanti al pericolo che minaccia la Chiesa è un avvertimento divino contro il suicidio che rappresenterebbe lʼalterazione della fede, nella sua liturgia, nella sua teologia e nella sua anima». - Il futuro Pio XII si fermò un momento. - «Sento intorno a me dei novatori che vogliono smantellare la Sacra Cappella, distruggere la fiamma universale della Chiesa, rigettare i suoi ornamenti, procurarle il rimorso per il suo passato storico». Pio XII pensava che il seme della fede sarebbe sopravvissuto soprattutto nel Terzo Mondo, ed a chi lo criticava per lʼeccessivo impegno profuso a favore degli ultimi, obiettava che i neoconvertiti delle terre di missione «salveranno la Chiesa [...]. Verrà un giorno in cui il mondo civilizzato negherà il proprio Dio, quando la Chiesa dubiterà come Pietro ha dubitato. Sarà tentata di credere che lʼuomo è diventato Dio, che suo Figlio non è che un simbolo, una filosofia come tante altre e nelle chiese i cristiani cercheranno invano la lampada rossa dove Dio li aspetta…». La convinzione che fosse questa la chiave di lettura più corretta di Fatima, è rimasta ancor oggi tenace, sostenuta a più riprese da altissimi prelati della gerarchia romana e suffragata da innumerevoli riscontri: lʼimpressione è che il nucleo del terzo segreto riguardi una tremenda crisi ecclesiale e che Suor Lucia, isolata e sottoposta a ferreo regime di controllo, non abbia potuto esprimersi con libertà e cognizione di causa. Dopo Pio XII, “lʼultimo Papa”, come lo definisce (il laico) Spinosa per sottolineare la rottura che alla morte di Pacelli si verifica con il passato della Chiesa romana, iniziava così lʼera del Concilio e dallʼinesauribile vaso di Pandora delle dottrine un tempo condannate, venivano plasmati lʼanima ed il corpo della Chiesa rivoluzionaria.Lo stesso Pio XII, dʼaltronde, era consapevole di rappresentare ormai un residuato storico e poco prima di morire aveva fatto una cupa previsione per i tempi a venire: «Dopo di me, il diluvio». Non aveva detto Suor Lucia, o meglio, lʼapparizione di Suor Lucia non aveva profetato che il Portogallo avrebbe conservato «il dogma della fede»? Ma dire che il Portogallo resterà fedele, che significa? Che le altre nazioni, o almeno la gran parte delle altre nazioni, tradiranno. Parrebbe.
IPOTESI SULLʼANTICRISTO
Così, quando Agca ha parlato dellʼAnticristo, non stava semplicemente sproloquiando: Anticristo significa crisi della Chiesa, perdita della fede. Apocalisse. Che la visione dellʼattentatore possa essere fuori tempo o fuori luogo, lo si può senzʼaltro discutere; che però la si voglia del tutto assurda anche in astratto, è un rinnegamento della Scrittura. Le parole dellʼattentatore turco sul terzo segreto di Fatima e sulle scomode verità cui la Chiesa della tradizione credeva e che la Chiesa del Concilio irride, hanno evocato fantasmi che mettono i brividi. Agca ha parlato in codice: i satelliti ed i precursori della Bestia nascondono la verità ai popoli; le membra del corpo mistico di Lucifero fanno katéchon (= ciò che trattiene) in senso capovolto. Cioè contro Cristo. Se infatti Fatima parla di un tradimento, di una apostasia, allora Fatima potrebbe concretizzare nel tempo la profezia dellʼapostolo Paolo che nella seconda lettera ai Tessalonicesi predice lʼepoca in cui si manifesterà «lʼUomo del peccato, il Figlio della perdizione, lʼAvversario, che si innalza sopra tutto quello che è chiamato Dio o che è oggetto di venerazione al punto da sedersi egli nel tempio di Dio, proclamando se stesso come Dio». LʼAnticristo. QuellʼAnticristo che Luca Signorelli raffigura nel duomo di Orvieto in tutta la sua seducente somiglianza con il vero Cristo, a significare la spaventosa potenza di inganno di cui parla lʼApostolo, potenza che il Figlio della perdizione userà per irretire maree sterminate di uomini: «quelli che periranno per non aver accolto lʼamore della verità in maniera da salvarsi» (2 Tess 2, 10). LʼAnticristo simulerà il Cristo, donerà unʼapparenza di sicurezza al mondo sconvolto, dirigendo lʼodio inconsulto in una precisa direzione: contro Cristo e la sua Chiesa, ormai allo sbando, ma pur sempre indefettibile. E le genti, la più gran parte dei popoli, non sapendo leggere nei fatti la pienezza dei tempi, adoreranno lʼUomo del peccato. La gerarchia romana attuale banalizza, stizzisce, scherza, commisera il vecchio lupo grigio turco… eppure, nella sua ondivaga ridda di sentimenti, continua a fingere di non sapere che queste profezie erano state prese tremendamente sul serio dai Papi, dai santi, dai teologi. Nei primi tempi dellʼannuncio evangelico, il terrore e lʼattesa dellʼAnticristo erano tangibili: i fedeli ritennero spesso che il Figlio della perdizione fosse già allʼopera. Poi subentrò una consapevolezza più profonda: gli anticristi di cui la storia pullula non avrebbero potuto aspirare a sedere nel tempio di Dio e realizzare le profezie sinché vi fosse stato il katéchon di cui parla lʼApostolo delle genti, San Paolo: katéchon, in greco, è “ciò che trattiene”. Ciò che trattiene la Bestia dellʼApocalisse. Il katéchon sono il Papa, la Chiesa, ma anzitutto la fede. È la vera fede, senza cui «non è possibile piacere a Dio» (Eb 11, 6), la prima nota che in teologia contraddistingue la Chiesa cattolica ed i suoi membri: dal più elevato, il Papa, sino allʼultimo dei popolani. Persa la fede non può più esservi katéchon e la Bestia sarà libera di manifestarsi in tutta la sua potenza. La Grande Apostasia sarà il viatico dellʼAnticristo: senza unʼeclissi del pensiero cattolico sin nelle più alte gerarchie della Chiesa, sino al cuore di Roma, lʼAnticristo resterebbe incatenato ai piedi della storia. Solo gli uomini possono togliergli i ceppi. Gli anticristi di ogni tempo, dunque, realizzano in parte le Scritture, ma lʼAnticristo per eccellenza si manifesterà solo a tempo debito.
PREDIZIONI, VISIONI
Nelle descrizioni degli ultimi tempi che San Paolo fa a Timoteo, segno precursore del disastro sarà unʼimpressionante decadenza dei costumi: «Gli uomini saranno egoisti, avidi di danaro, vantatori, superbi, maldicenti, ribelli ai genitori, ingrati, irreligiosi, disamorati, sleali, calunniatori, intemperanti, crudeli, senzʼamor di bene, traditori, temerari, gonfi di orgoglio, amanti del piacere, più che di Dio, con parvenza di pietà, ma rinnegatori di quel che nʼè lʼessenza vera». Quando sarà giunto il tempo dellʼAnticristo, profetizza ancora Daniele nellʼAntico Testamento, «molti saranno eletti, purificati, e quasi raffinati al fuoco, e gli empi agiranno da empi, e tutti gli empi non comprenderanno, ma i saggi comprenderanno. E dal tempo in cui sarà abolito il sacrificio perenne e sarà collocato lʼabominio della desolazione passeranno milleduecentonovanta giorni. Beato chi aspetta e giunge fino a milletrecentotrentacinque giorni!». Parole dure, parole difficili da comprendere… Le tracce dellʼesegesi scritturale che indaga sullʼAnticristo e sugli ultimi tempi, sono antiche e nobili. SantʼAgostino, nel “De civitate Dei”, interpretando la seconda lettera ai Tessalonicesi, immagina che il tempio in cui lʼAnticristo si insedierà sarà quello di Gerusalemme o, forse, la stessa Chiesa cattolica. Sederà, commentava il santo con altri interpreti, «come amico, cioè in quanto amico» (libro XX, 19, 2). Un Anticristo, dunque, che potrebbe venire dalle stesse file della gerarchia regolare, che parrà papa, che sedurrà, che illuderà i più… Il demonio, si sa, è la scimmia di Dio e ne copia in maniera deforme, ma pur sottile ed efficace, la divinità, le manifestazioni, le leggi, il carisma, e persino la giustizia, la bontà. La potenza infera di cui parlano le profezie simulerà lʼelezione del Cristo: un uomo, figlio dellʼAde e di carne eletta, un sacerdote, come Cristo, un vicario di potenze che superano i figli di donna, come il Vicario di Cristo; starà in Roma, come il Pontefice romano, o forse anche in Gerusalemme, la Città santa. Egli sarà il falso Messia. In ebraico Māšîah significa ciò che Cristo significa in greco: lʼunto, lʼeletto. E lʼeletto pretenderà di sedersi nel tempio di Dio, come ricorda San Paolo. Molti secoli dopo SantʼAgostino, toccherà a Papa Paolo IV, nel 1559, in una bolla pontificale - Cum ex apostolatus officio - esplicitare più chiaramente la possibilità che un falso papa possa occupare il soglio di Pietro: proprio in Roma, ritiene quel roccioso Vicario di Cristo, si potrebbe «vedere lʼabominio della desolazione predetta dal profeta Daniele»; un falso papa, un eretico, potrà cioè concretizzare lʼapocalittica profezia, portando in Roma lʼabominio della desolazione, fermi restando gli elementi essenziali della costituzione della Chiesa che resteranno fino alla fine dei tempi, giusta le promesse di Nostro Signore. La terribile bolla di Paolo IV, sarebbe poi stata trasfusa in buona parte nel Codice di diritto canonico del 1917, in toni meno impressionanti, più lievi… come si addice allʼera contemporanea. Passati più di trecento anni dalle parole del suo illustre predecessore, Leone XIII, in un esorcismo riportato nel rituale romano del tempo, ammonirà: «Là dove è stabilita la sede del beatissimo Pietro e la cattedra di verità per dare la luce alle genti, là hanno messo il trono dellʼabominio della loro empietà». La storia dellʼesorcismo è di quelle che inquietano: nel 1886, durante una messa di ringraziamento - racconterà nella Quaresima del 1946 il Cardinal Nasalli Rocca - Leone XIII era divenuto terreo in volto ed era rimasto sgomento guardando verso lʼalto. Padre Pechenino, presente al fatto, descrisse così la scena: «Ad un tratto lo si vide drizzare energicamente il capo, poi fissare qualcosa, al di sopra del capo del celebrante. Guardava fisso, senza battere palpebra ma con un senso di terrore e di meraviglia, cambiando colore e lineamenti» (30 giorni, novembre 1990). Ripresosi dalla violenta emozione, il Papa era corso nelle proprie stanze dove aveva composto di getto due esorcismi: quello impressionante che descriveva in una preghiera la visione di Roma oscurata dai demoni e la sede di Pietro occupata da forze demoniache, e quello in cui invocava la difesa di San Michele Arcangelo. Il Pontefice della Rerum novarum aveva unʼidea precisa del potere luciferino che insidiava la Chiesa: denunciò lʼInimica vis, la Forza nemica, anticristica, che incessantemente lavorava nellʼoscurità delle logge pretendendo persino, ricordava quel Pontefice nella Humanum genus, di togliere di mezzo il papato cattolico. O meglio - come parrebbe dalla visione del medesimo Leone XIII e dalle previsioni di Mazzini - di svuotarlo e sostituirlo iniettandogli una nuova anima, in vista di un nuovo universalismo. Non più cattolico. Quella stessa forza nemica, in effetti, condivideva e condivide con lʼApocalisse e la lettura che tutti gli esegeti hanno dato di quel documento, oltre, ovviamente ad una nuova religione anticristica, la fine delle nazioni, un villaggio globale: «fu dato potere alla Bestia sopra ogni tribù e popolo e lingua e nazione» (Ap 13,7). La tesi che lʼInimica vis intendesse ed intenda infiltrare la Chiesa cattolica, riemerse con forza quasi un secolo dopo, nel settembre del 1978: un giornalista italiano, un uomo di loggia molto addentro alla materia, pubblicò un lungo elenco (121 persone) di prelati romani massoni sulla propria rivista: “OP”. Quello scomodo cronista, poi morto ammazzato nel marzo del 1979, Mino Pecorelli, aveva puntato il dito chiamando in causa alcuni dei presuli stessi che occupavano posizioni chiave nella struttura romana. Pecorelli aveva provocato elegantemente il Vaticano, chiedendo, come conseguenza della propria pubblicazione, o una «pioggia di smentite o, nel silenzio, lʼepurazione» dei prelati massoni. Non vi fu la pioggia di smentite, né si attuò alcuna epurazione: Giovanni Paolo I, che «aveva manifestato lʼintenzione di […] far chiarezza in merito alla lista dei presunti prelati iscritti alla massoneria» (30 giorni, settembre 1993), pochi giorni dopo morì. Fra gli altri appartenenti alla lista “inimica”, figurava pure il Cardinale Sebastiano Baggio, Prefetto della Sacra Congregazione dei Vescovi, che a lungo aveva presieduto ed avrebbe continuato a presiedere le nomine episcopali.Se le affermazioni di Pecorelli fossero vere, se ne dovrebbe desumere che la numerosa discendenza spirituale di Baggio e degli altri alti presuli affiliati alla setta, possa aver fatto lunga strada allʼinterno delle mura dellʼUrbe. Cinque anni prima di Pecorelli, dʼaltronde, Mons. Rudolf Graber, Vescovo di Ratisbona, aveva editato un breve studio in cui sottolineava la stretta connessione esistente fra la penetrazione nella Chiesa degli ideali modernisti e massonici e la crisi di fede in atto: lo stesso titolo del libretto di denuncia - SantʼAtanasio e la chiesa del nostro tempo - rappresentava di per sé una conclusione piuttosto esplicita. Il dotto prelato tedesco si era infatti richiamato alla figura di Atanasio, Vescovo di Alessandria, grande oppositore dellʼeresia ariana che aveva massicciamente infettato la Chiesa del IV secolo. Dietro al diaframma di parole altrui, ma inequivocabilmente fatte proprie, Mons. Graber espresse la propria angoscia per lo stato della «intera Chiesa, scossa nelle sue fondamenta» dalle nuove eresie: «Ma il Signore ha forse abbandonato completamente la sua Chiesa? È forse venuta lʼultima ora e incominciata lʼapostasia? Giacché è sempre più evidente che lʼuomo del peccato, il figlio della perdizione, lʼanticristo, si eleva al di sopra di tutto ciò che si chiama Dio e santuario». Per anni Graber era stato capo della redazione del Messaggero di Fatima…
LʼATTESA DELLʼANTICRISTO
Quando si adempiranno le Scritture? Tante volte nel corso dei secoli si credé di intravedere lʼAnticristo: la storia ci dice che furono illusioni… o forse frammenti incarnati di antiche profezie. La più impressionante coincidenza fra le Scritture e la realtà dei fatti, si verificò sotto lʼImperatore Decio, nel 250 d. C., quando si attuò la prima persecuzione anticristiana ed anticristica su scala globale a livello di Impero romano: Nerone ed i suoi successori non avevano mai operato tanto in grande. Allora si realizzarono le predizioni, o almeno così parve: non solo i cristiani, ma tutti gli abitanti dellʼImpero che volevano evitare la persecuzione dovevano sacrificare agli dèi pagani, così ottenendo il libellus, il libretto che li liberava da ogni sospetto, che consentiva loro di possedere beni e di commerciare. Era la profezia di san Giovanni nellʼApocalisse. O, piuttosto, una parte di quella predizione: «E le fu dato (alla seconda bestia, n.d.r.) di dar spirito allʼeffigie della Bestia, sì che lʼeffigie della Bestia parlasse, e di far che quanti non avessero adorato lʼeffigie della Bestia fossero uccisi. E farà che tutti, piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e servi, ricevano un marchio nella loro mano destra o sulla loro fronte, e che nessuno possa comprare o vendere, se non chi ha il marchio, il nome [cioè] della Bestia o il numero del suo nome». I cristiani interpretarono quel libello e lʼatto di culto ai falsi dèi romani come realizzazione delle Scritture che parlano del marchio impresso sulla mano di chi avesse adorato la Bestia. E molti di loro non cedettero: lʼatto di culto è dovuto solo al vero Dio, la morte è preferibile al tradimento… così almeno insegnava la Chiesa preconciliare. Quasi 1700 anni dopo, la realizzazione della profezie parve ormai vicina a San Pio X, Papa Sarto, noto per la sua incessante lotta al modernismo. Lʼinfaticabile Pontefice, nella sua prima enciclica, E supremi apostolatus, espresse il timore che lʼAnticristo fosse già nato: era il 1903 e Fatima sarebbe seguita a distanza di 14 anni; poi il comunismo, il nazionalsocialismo… Lʼidea di Pio X, unʼidea che i Papi non esprimevano più da molti secoli in questi termini, era che fosse vicina lʼora: che i segni dei tempi e la penetrazione sempre più massiccia delle eresie nella società - e di conseguenza in seno alla stessa compagine ecclesiale - annunciassero notizie funeste. Oggi Papa Sarto è stato ormai dimenticato e la tesi di un imminente avvento anticristico viene bollata come fantasia da ignoranti: forse solo lʼopera del “vescovo ribelle”, di Lefebvre, la Fraternità San Pio X, porta ancora alto nel mondo il nome dello scomodo Vicario di Cristo che temeva lʼimminente avvento del Figlio della perdizione. Probabilmente non è un caso. Un filo sottile sembra legare la scelta del nome del Papa che temeva lʼAnticristo a Lefebvre: molti anni dopo aver scelto quel nome per la propria opera, il Vescovo dʼOltralpe avrebbe accusato i vertici della gerarchia romana, resistendo in faccia allʼ“anticristo” che a suo dire si era manifestato nella riunione ecumenica di Assisi nel 1986. Lo scomodo Lefebvre non poteva però disturbare più di tanto la marcia dei novatori: ormai da tempo era stato confinato in una riserva indiana e, a dispetto della proclamata tolleranza del nuovo corso romano, nei suoi confronti il rigore era sempre stato inflessibile. Roma, per castigare il presule francese, aveva rispolverato persino gli odiati strumenti della Chiesa preconciliare, fulminando il ribelle dapprima con una sospensione a divinis, ed infine con la scomunica. Si pensava così di avere isolato il virus identitario di una tradizione ormai superata, ma si ignorava, o si fingeva di ignorare, che oltre a Lefebvre innumerevoli focolai erano sopravvissuti un poʼ ovunque, anche nelle terre di missione. Continuava, continua ad esistere una Chiesa dissidente, drammaticamente in rotta - anche se spesso in maniera poco consapevole - con il Concilio; una Chiesa che volendo ad ogni costo vedere una continuità fra il prima ed il poi, legge il presente deformandolo con gli occhi del passato; una Chiesa dalle molte ramificazioni, che tollera rassegnata la teologia astrusa della “primavera” ecclesiale, ma che poi in realtà non cessa di fondare il proprio credo sui vetusti canoni di un tempo: in effetti ancor oggi non sono pochi i cristiani che vedono la Via Crucis – e dunque la stessa teologia della croce – con gli occhi di Mel Gibson, il regista “eretico” rimasto fedele alle dottrine dellʼera preconciliare. Ma cʼè di più, lʼopposizione alla nuova linea non è solo un problema intestino: oltre ai dissidenti cattolici si contano anche autori eterodossi fra i critici dellʼattuale orientamento ecclesiale, autori che sono giunti persino a scorgere nella Chiesa umanista, in particolare nellʼecumenismo romano, le stimmate dellʼera dellʼAnticristo. Pochi anni dopo la morte del ribelle francese, un autore eccentrico, un esegeta gnostico, ma di penetrante acume, Sergio Quinzio, avrebbe messo in bocca ad una propria creatura letteraria, Papa Pietro II, queste parole: «Dobbiamo prendere atto dellʼapostasia della Chiesa che elude lo scandalo della fede, che lo stravolge in ciò che fede non è, riducendo a etica la salvezza escatologica, e perciò ne fa unʼopera ragionevolmente umana». Le conclusioni dellʼirriverente pensatore, nellʼapocalittico “Mysterium iniquitatis”, sembrano dar ragione ai timori dei dissidenti: «Bisogna aver il coraggio di riconoscere - accusava Quinzio - che in tempi recenti la verità cristiana non è stata più annunciata nella sua integrità, ma via via ne sono stati accentuati sempre più marcatamente i risvolti e le implicazioni compatibili con la sensibilità degli uomini… moderni. Il cristianesimo si è praticamente ridotto così, agli occhi dei più, ad una forma di umanesimo […]. Dai supremi pastori della Chiesa fino alle più umili omelie che si pronunciano tutte le domeniche nelle nostre Chiese, il discorso che viene proposto è ormai, quasi sempre,un discorso soprattutto etico, sociale, politico, economico. Non è esagerato dire che, in questo senso, il Magistero ha abdicato al proprio compito. La Chiesa, in quanto istituzione, sembra non avere più il coraggio di proclamare la propria fede. Tutto fa pensare che se ne vergogni, o addirittura che finga di credere ancora ciò in cui in realtà non crede più». Illustrando più direttamente il proprio pensiero nel corso di unʼintervista al Corriere della sera (21/2/1995), Quinzio spiegò: «La Chiesa di oggi per lo più si limita a formulare auspici (non fate la guerra, impegnatevi nella solidarietà, eccetera) condivisibili anche da chi è ateo o professa altre fedi. […] Così i contenuti teologici vengono tramutati in dottrine filosofiche o etiche accettabili da tutti; ed è una falsificazione che Pietro II bolla come anticristica […] voglio… dire che, nello sforzo soltanto umano compiuto per adeguare Cristo alla sensibilità del mondo, essa (cioè la Chiesa, n.d.r.) piano piano ha ceduto. E quello di Pietro II è lʼultimo atto di una Chiesa che finalmente percepisce la sua negatività, tutta lʼoscurità del mysterium». Il parallelo si impone, imperioso: la Chiesa dellʼAnticristo di Quinzio è impressionantemente simile alla Chiesa anticristica secondo Pacelli, Ottaviani, Lefebvre; una Chiesa malata di immanentismo, che volendo piacere al mondo asseconda lʼuomo e la sua pretesa di essere legge a se stesso: lʼuomo che è legge a se stesso, e che dunque si fa Dio, in effetti, è quello stesso uomo per cui il Concilio ebbe una «simpatia immensa», come ricordava Paolo VI. Ma lʼuomo che si fa Dio, non è forse lʼAnticristo di cui parla lʼApostolo Paolo?
ESCHATA: LE COSE ULTIME
Le Scritture, le profezie, i commentatori, dicono che lʼAnticristo sarà sconfitto. Anche se il popolo della Bestia sarà numeroso come la rena del mare e altrettanto numerosi i suoi pensieri di iniquità, Dio distinguerà ogni membro di quellʼinfernale corpo mistico, ogni pensiero di quelle menti e li sconfiggerà. Con un soffio della sua bocca, Cristo annichilirà il Figlio della perdizione, ha scritto lʼApostolo. Sul momento dellʼultimo redde rationem, la Chiesa del passato ha sempre voluto che le previsioni oscillassero fra il mistero di un momento che neppure il Figlio di Dio conosce, e la necessità di distinguere i segni dei tempi e comprendere lʼApocalisse imminente: «Quando diranno: “Pace e sicurezza” - ammoniva i Tessalonicesi Paolo di Tarso - allora improvvisa sopraggiungerà la rovina, come le doglie del parto a donna incinta, e non sfuggiranno». La cronologia secondo cui si dipanano le profezie, non è però chiara: in molti sostengono che lʼavvento dellʼAnticristo e la fine dei tempi si susseguiranno immediatamente. Fra gli antichi Padri ed i commentatori, però, più dʼuno ritiene che passerà del tempo, forse un lungo tempo, prima della fine. Non aveva forse profetato il Cristo che alcuni di coloro che lo ascoltavano lo avrebbero visto tornare nel suo regno (Mt 16, 28)? Eppure egli non era tornato, non almeno visibilmente. Di quella generazione, però, alcuni videro la distruzione di Gerusalemme ad opera dellʼesercito imperiale romano. Il Figlio dellʼuomo, ne desunsero alcuni commentatori, aveva visitato Gerusalemme, in maniera invisibile, ma tremenda. La venuta di Cristo, dunque, non riguarderebbe solo gli ultimi tempi: «Nei giorni che precedettero il diluvio la gente mangiava, beveva, prendeva moglie e andava a marito, fino al giorno in cui Noè entrò nellʼarca e la gente non si accorse di nulla, finché venne il diluvio che portò via tutti; così avverrà anche alla venuta del Figlio dellʼuomo. Allora due saranno nel campo, lʼuno sarà preso e lʼaltro lasciato; due donne faranno andare la mola, lʼuna sarà presa e lʼaltra lasciata. Vegliate, dunque, perché non sapete in qual momento il vostro Signore verrà» (Mt 24, 38-41). Se lʼuno sarà preso e lʼaltro lasciato, se qualcuno resterà, i tempi non saranno ancora finiti. Solo la parousìa segna la fine, la presenza sensibile del Figlio di Dio nel dies irae: il giorno dellʼira in cui si consumeranno i secoli, in cui tutto ciò che è nascosto apparirà e nulla resterà impunito. Ed è questa la certezza che tenne desta nei secoli la Chiesa: la necessità per lʼuomo cristiano di essere sempre vigile nellʼattesa. Il dies irae non si esaurisce nella promessa di un giudizio universale, ma si rende presente di momento in momento, in prospettiva di un impressionante giudizio particolare a cui ogni uomo sarà sottoposto, senza conoscerne né il giorno né lʼora. Giunge rapido il giorno della morte - dicevano i santi - spesso inatteso: forse ti sta attendendo dietro lʼangolo in un giorno di festa. E così, sospinto oltre le apparenze dopo la fiera delle vanità di questo mondo, varcherai il ponte che conduce allʼeternità: se avrai perseverato sino alla fine lo percorrerai; altrimenti cadrai nellʼabisso in quello stesso folgorante istante del trapasso. «Che dirò allora - si chiedevano i cristiani preconciliari pensando al giudizio di Dio - a quale patrono mi appellerò se a stento persino il giusto sarà sicuro di salvarsi?» «Sforzatevi dʼentrare per la porta stretta, - predicava il Cristo - perché, vi dico, molti cercheranno dʼentrare e non vi riusciranno» (Lc 13, 24). La ininterrotta tensione escatologica che emerge violenta dai Vangeli e che per quasi venti secoli ha dominato nella cultura cattolica, compendiata nei “novissimi” - morte, giudizio, inferno o paradiso - svanisce a mano a mano che le novità del Concilio prendono corpo. Si eclissa il sensus stesso del cristianesimo tradizionale, che ruotava attorno a queste quattro impressionanti meditazioni. Era talmente forte questa trepidazione del poi, che Don Giovanni Bosco, il fondatore dei salesiani, dedicava sei su sette delle meditazioni che proponeva ai suoi ragazzi durante la settimana alla contemplazione della morte, del giudizio di Dio e della dannazione eterna… una sola al paradiso. Oggi i reverendi salesiani riderebbero di queste truculente ingenuità cui il loro Fondatore dava tanto rilievo. Eppure, come negare che la forza sovrumana dei santi, la forza del perdono e della intransigenza, della pace e della guerra, lo spirito di abnegazione che spinge a rinnegare se stessi, fosse possibile solo nella tensione irrequieta verso la meta? Come sarebbe immaginabile un san Francesco, o il suo ultimo, più noto epigono, Padre Pio da Pietrelcina, senza il bruciante desiderio del paradiso, senza il timore dellʼinferno? «Guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali», predicava il fraticello di Assisi. Un cristianesimo senza spinta verso lʼeternità, cade inevitabilmente nellʼeresia immanentista del regno in terra; unʼeresia che trova la propria ragion dʼessere nelle stesse radici del cristianesimo, in unʼinterpretazione letterale delle promesse veterotestamentarie. Si sviluppa così unʼideale anticristico che non a caso acquista la massima forza e capacità di sconvolgere la storia grazie alle teorizzazioni di un eretico: lʼebreo-cristiano Karl Marx, lʼantitesi dellʼebreo saggio che pone la sua fiducia in Dio, lʼantitesi dei fratelli Maccabei, lʼantitesi di Eleazaro… Oggi, in effetti, quellʼideale anticristico, socialista, ma prima ancora liberale, domina incontrastato nella società. Si dice: liberale e socialista perché non esiste un ossimoro liberalsocialista - come già in passato si è avuto occasione di evidenziare - ma un rapporto parentale: la paternità è liberale, la discendenza socialista. Il liberalismo viene prima nel tempo, rappresenta una fase meno evidente del deterioramento dellʼideale cristiano. Il liberalismo è padre: essendo laico, allontana Dio dalla polis; essendo indifferente alla verità, pone Gesù e Barabba sul medesimo piano, così apostatando dal Cristo. Il socialismo è figlio: porta alle logiche conseguenze il relativismo religioso ed etico del padre, scivolando dallʼateismo pratico di derivazione paterna ad un più coerente ateismo teorico. Perché allora inorridire di fronte alle stimmate anticristiche del figlio, se già il padre ostentava compiaciuto quelle medesime piaghe? Perché non ricordare che questo connubio liberalsocialista è puntualmente rappresentato, ancora una volta, dallʼuomo del Concilio, lʼuomo tutto interamente occupato di sé, che si fa principio e ragione di ogni realtà? Lo si ammetta o meno, con lʼavvento del Concilio lʼumanesimo laico e profano conciliare prende il sopravvento sulla prospettiva escatologica: la tagliente aspettativa del giudizio divino e la potente carica di ascesi e di trascendenza che esso portava con sé, erano andate progressivamente collassando. La riforma liturgica attuata da Paolo VI aveva persino cambiato le parole evangeliche della consacrazione; nella messa montiniana, infatti, il sangue di Cristo versato in remissione dei peccati «pro vobis et pro multis – per voi e per molti», si converte in un sangue «versato per voi e per tutti»: la dottrina eretica della salvezza universale si insinua così, sottile ed ambigua, sin nel cuore stesso del cattolicesimo. Lungo una medesima linea di penetrazione, al termine di una messa che concede molto allʼuomo e poco al mistero di Dio, la riforma liturgica elimina senza tentennamenti uno dei due esorcismi che Leone XIII aveva composto dopo la agghiacciante visione di Roma infestata dai demoni. È lʼesorcismo che impetra lʼaiuto di San Michele Arcangelo contro gli spiriti maligni che abitano lʼaria. Quella preghiera, elevata contro Satana ed i suoi satelliti da ogni latitudine dellʼorbe cattolico durante più di ottantʼanni, aveva avuto un forte significato nella prospettiva dei Pontefici: fare katéchon, ostacolare le forze anticristiche dei nostri tempi. Ma gran parte della Chiesa conciliare non crede più necessario fare katéchon e così, via via deformando il senso delle Scritture in unʼallegoria dellʼumanità, si è arrivati a cancellare il nome di Satana ed a trasformare lʼAnticristo in un meschino Antiuomo. Ed è in questo senso che Quinzio, già negli anni Settanta, valutava la progressiva perdita della prospettiva trascendente e commentava lʼevoluzione ecclesiale in atto in una sua opera, “La fede sepolta”, denunciando la dissoluzione imminente della specificità cristiana: «una fede nei limiti della ragione mondana - osservava quellʼautore - non è che un fantasma tenue e superfluo». È evidente, ribadì nella stessa ottica molti anni dopo in “Mysterium iniquitatis”, che si è ormai verificato un «indebolimento del depositum fidei», un indebolimento dellʼimmutabile deposito della fede.
FATIMA, PROFEZIA PRECONCILARE
Al contrario, Fatima è stata una profezia preconciliare, in armonia con il depositum fidei. Una profezia che non sfigurerebbe sulle labbra di un austero predicatore del passato: a Fatima i pastorelli avevano visto in atto forze arcane, tremende; avevano visto una pioggia di anime riempire come lapilli ardenti il cielo rosso e nero dellʼinferno, fra urla disumane e figure demoniache; avevano sentito incessanti esortazioni alla preghiera, alla conversione, alla penitenza. Il Dio di Fatima, nelle parole della Bella Signora, era rimasto il Dio geloso del popolo ebraico, quello stesso Dio che nella pienezza dei tempi, senza rispetti ecumenici, pretese di essere riconosciuto nella figura di Gesù Cristo: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo mio» (Gv 14, 6). Nelle visioni di Fatima, il messaggio profetico segue percorsi antichi, già battuti… proclama la necessità della vigilanza e della lotta incessante contro il Tentatore: la milizia cristiana. Una delle immagini più alte di questa idea militante cui nei secoli si era appellata la tradizione romana, lʼaveva proposta santʼIgnazio di Loyola, il fondatore della Compagnia di Gesù, il campione della Controriforma cattolica. È la descrizione dei due stendardi: da un lato lo stendardo ed il campo del «caporione dei nemici», assiso «su una cattedra elevata tutta fuoco e fumo»; dallʼaltro lo stendardo ed il campo dei militanti di Cristo a Gerusalemme, «in luogo umile e bello e di piacevole aspetto». Lʼaffresco ignaziano, possente nel rendere viva agli occhi di chi medita lʼinfernale realtà del campo del caporione nemico in contrapposizione alla composta armonia dello schieramento di Gesù, ricorda che in ogni epoca della storia vi saranno due campi e due stendardi: due comandanti e due milizie contrapposte. Come a Fatima. La bontà divina, nei messaggi di Cova dʼIria, non va disgiunta dalla giustizia: lʼapparizione parlava ai bambini della maledizione di Dio incombente sul capo dei popoli, ormai privi di fede e dediti al peccato… Bagliori apocalittici si elevano da quel lontano 1917 portoghese. La tentazione di leggere segni profetici in questi tempi è forte, e non solo per chi medita sul terzo segreto di Fatima o sulle previsioni di Pio X: è la stessa nella realtà in atto che suggerisce cupi interrogativi. Lʼapostasia della Chiesa cattolica viene evocata persino ai più alti livelli della gerarchia romana: il Cardinal Ratzinger [lʼarticolo è stato scritto prima della sua elezione al soglio pontificiio, n.d.r.], raffinatissimo nelle sue incursioni fra il campo della Chiesa preconciliare e quello della Chiesa rivoluzionaria - di cui fu uno degli artefici allʼepoca del Concilio - ha riconosciuto che è in atto una crisi della fede devastante. Le parole del porporato in occasione del triduo pasquale di questʼanno, spaventano: «Signore, spesso la tua Chiesa ci sembra una barca che sta per affondare… La veste e il volto così sporchi della tua Chiesa ci sgomentano. Ma siamo noi stessi a sporcarli» (Corriere della sera, 25/3/2005). Anche sul fronte della società civile, la situazione non è delle più tranquillizzanti: le guerre ed i rumori di guerra di cui brulica il mondo e persino lʼinattesa palingenesi della Russia, suggeriscono, accanto alle vecchie previsioni, scenari nuovi, non preventivati. È un poʼ di tempo che i poteri forti vanno cautamente ammonendo i popoli: dopo la fine della guerra fredda non ci si pensa più, eppure è quantomai probabile che in tempi brevi si scateni un conflitto nucleare. Anche lʼItalia - come gli altri Paesi, dʼaltronde - ha i propri grilli parlanti: Arrigo Levi, già uomo degli Agnelli, oggi consigliere di Carlo Azeglio Ciampi, ha lanciato questo avvertimento apocalittico il 13 settembre del 2004 a Procida (Corriere del Mezzogiorno, 14/9/2004). Lʼiniziale ipotesi di conflitto proposta dal tetro Samuel Huntington, portavoce dei gruppi di potere globale, era quella di uno scontro fra Occidente, da un lato, ed Islam e Cina dallʼaltro. Il problema, però, è che i teorici dello scontro di civiltà non avevano calcolato la rinascita della Russia. Il timore che il previsto conflitto nucleare, apocalittico ma pur sempre “controllato”, degeneri e che la Russia sovverta i programmi, è palpabile negli Usa, soprattutto fra coloro che trasversalmente agli schieramenti coltivano grevi attese per il regno di questo mondo: uomini di potere come George Soros e Michael Ledeen, democratico il primo e neocon il secondo, vanno proclamando allʼunisono la necessità di una rivoluzione democratica nei Paesi orientali. I due democratizzatori statunitensi riassumono in sé un metodo, unʼidea, una meta: nemici, almeno agli occhi del mondo, agiscono per un medesimo fine, e non si tratta di uno scopo di secondaria importanza. Mentre Soros ha più volte dichiarato espressamente le proprie aspirazioni messianiche nel corso degli anni, Ledeen, dal canto suo, si esibisce in discorsi esaltati che svelano a loro volta pretese messianiche non difformi da quelle del medesimo Soros (Il Foglio, 18/2/2005). In effetti le stesse mani, gli stessi interessi, le stesse tecniche riemergono nelle rivoluzioni “popolari” che in questi tempi stanno drammaticamente erodendo lʼaerea di influenza geopolitica della Russia putiniana: in Georgia, in Ucraina, in Kirghizistan… La foga di schiacciare chi si oppone al predominio statunitense e di raggiungere in breve la meta, rischia di essere stupida ed esiziale. A scompaginare i programmi, potrebbe proprio essere quella Russia, così centrale nelle profezie di Fatima e così eccentrica nei programmi umani di inizio millennio. Quella Russia che è stata per decenni propagatrice di errori, ma che oggi sembrerebbe avere aspirazioni persino più nobili e più vere di quelle del mondo occidentale, ormai devastato dalle idee che hanno sporcato la veste ed il volto della Chiesa.
CONCLUSIONE
È lecito porsi una domanda sugli esiti della storia ed è anche lecito chiedersi perché la Chiesa “progressista” non voglia porsela. Neppure lʼumanissima curiosità del domani smuove la gerarchia dal suo letargo: carismi e profezie, segni dei tempi e tensioni escatologiche sono stati sepolti nelle grotte vaticane sin dai tempi di Roncalli, assieme ai “profeti di sventura” che avevano funestato lʼera preconciliare durante più di diciannove secoli. Eppure schiere di cristiani che hanno creduto alla buona, antica novella annunziata dal Cristo, si sono chiesti se fosse giunta lʼora, se lʼAnticristo fosse ormai alle porte, pronto ad usare, oltre allʼarma della violenza, anche lo strumento della dolcissima e velenosa seduzione di cui egli sarà sommo maestro… ma al contempo quei cristiani non hanno fondato la loro vita su questa attesa. Per quanto prosaica possa apparire la conclusione, importa fino ad un certo punto chiedersi quando le profezie apocalittiche si realizzeranno. Comunque sia, comunque dovesse evolversi il cammino del mondo, se non è dato di prevedere con certezza quando sarà giunta lʼora di tenebra annunciata dalle Scritture, è però certo che ogni uomo è chiamato a vigilare costantemente, anzitutto su se stesso: sino ad oggi gli anticristi della storia sono stati tutti coloro che hanno cooperato al mysterium iniquitatis come membra del corpo mistico di Lucifero che si manifesterà nellʼAnticristo, membra proiettate in anticipo nella mischia dellʼumanità a spianare la strada del Figlio del peccato, suoi “battisti” e profeti. In questo senso la gerarchia romana fedele al passato aderiva, aderisce, alle Scritture: rinunciando invece allʼescatologia del mysterium iniquitatis, la chiesa conciliare, quella che già non milita sotto un altro stendardo, rinuncia alle Scritture e alla vigilanza. E chi non vigila, il nemico lo coglie di sorpresa.
di Saverio Agnoli
Questo articolo è la versione integrale di un breve studio risalente al marzo 2005, in parte pubblicato sulla Rivista Alfa e Omega, 2-2005 (n.d.r).
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